venerdì 31 dicembre 2021

Ando Gilardi, Food and photography ( Foto-industria 2021 al Mast di Bologna)










“Il bisogno primario di cibo si sovrappone oggi a quello delle immagini” scrive Francesco Zanot nell’introduzione alla Biennale di Foto Industria 2021 a Bologna; esiste una stessa voracità nelle società consumistiche di oggi nel consumare cose, alimenti, cibi e i loro profumi non solo con il gusto ma con tutti i sensi allo stesso modo in cui desideriamo vedere, scambiare e ricevere sui nostri canali di comunicazione digitale, foto o video condivisi_auto-rappresenzioni di noi stessi_ ed ancora essere parte di quel fiume di immagini e messaggi che ci arrivano dai social. Una narrativa delle immagini si crea in questo modo, allo stesso tempo raccontando sé stessi e un’epoca nel suo scorcio sociale e culturale in atto. Oggi  a ridosso di due anni di pandemia si lotta con i vaccini per tenere sotto controllo il nuovo propagarsi del virus e le festività si situano come una parentesi lieve, una sospensione in cui si è avviluppati dal cibo e dal calore di una casa, riportando al centro ancora una volta il consumo esasperato di cibo e di immagini.  Tale, il tema “Food”, scelto per la recente Biennale foto/industria tra cui spiccano le fotografie di Ando Gilardi esposte al Mast ancora per pochi giorni. 


Gilardi si avvicina alla fotografia nel ’45 all’indomani del conflitto bellico, inizialmente con un intento documentario e politico in immagini che costruivano prove legali contro i crimini neo-fascisti commessi durante la guerra. La sua produzione fotografica  si realizza prevalentemente negli anni ’50 e ’60 sui temi del lavoro, dell’industria, dell’agricolture, dell’etnografia e della società. Alla fine degli ’50 Gilardi collabora con la rivista “Lavoro” e inizia a raccontare la quotidianità di contadini e braccianti sottopagati nei campi al nord, di venditori ambulanti, donne sfruttate al sud nelle raccolta delle olive e altre simili  realtà sociali agli albori del boom economico italiano. Taglienti e permeate di un forte impegno ideologico le fotografie di Gilardi si vogliono strumento di testimonianza e di lotta politica a favore delle classi più esposte a miseria e sfruttamento nell’Italia post-bellica agli inizi ancora del processo di industrializzazione. D’altro lato, come scrive Francesco Zanot nella prefazione della mostra: “Il cibo si consuma con il cervello, con gli occhi, con tutti i sensi”; allo stesso modo sono le immagini che riceviamo, che assorbiamo involontariamente o che decidiamo di incorporare nel nostro immaginario collettivo. Al di là dell’aspetto documentario esse giungono a noi con la portata espressiva di un racconto, con il loro potere di fascino e verità venendo a illuminare quella società italiana immersa ancora nella cultura rurale, sorridente e lieve all’indomani della guerra; forse lì sorpresa a guardare avanti verso un futuro speranzoso nell’avvento della nuova era economica.

Nella mostra bolognese, in particolare, il tema del cibo permane come filo conduttore nella sezione propria alle fotografie e in quella della  Fototeca Storica Gilardi. Si tratta di un archivio di innumerevoli materiali sapientemente catalogati e raccolti a partire dal 1959 e, in seguito “ri-fotografati” nel suo grande inventario personale tra cui figurine, incarti illustrati di cibi , scatole, pubblicità, riviste, erbari ecc.. Come suggestisce Zanot: “Il cibo è un linguaggio. Come la fotografia, gli alimenti incorporano e diffondono messaggi. Il risultato è un corto-circuito : qualsiasi fotografia del cibo è il frutto di un processo di ri-mediazione”. Gli alimenti dal loro primo livello di esistenza divengono agli inizi del marketing moderno rappresentazioni in una vera e propria “iconografi del cibo” nel momento in cui vengono esibiti, pubblicizzati e investititi di un desiderio o necessità addizionale all’oggetto primario. Il lavoro di Gilardi qui, anticipando l’arte concettuale, è a sua volta “immagine di altra immagine”: il suo modo di vedere e restituire i materiali catalogati o le loro immagini. E tale inventario arriva a noi oggi come il vero e proprio ritratto etnografico di un paese attraverso il cibo che ne è elemento costitutivo  per il potere della fotografia di ampliarlo e renderlo manifesto.  


Foto-inchieste

Nelle fotografie in bianco è nero di Gilardi degli anni ‘50 è l’Italia delle grandi tavolate all’aperto nei giorni di festa nell’assetto famigliare patriarcale ancora. E’ lo spostarsi in bicicletta, le raccoglitrici al sud e le mondine nelle risaie al nord, i volti sorridenti, gli abiti consunti dal lavoro nelle campagne, i piatti colmi di pasta asciutta e le mani annerite dal lavoro. Sono i mercati rionali, i piccoli venditori ambulanti, i bambini cresciuti in strada, le campagne ampie e piane, i raccolti e le messi, le botteghe artigianali per un’Italia ancora povera, semplice e rurale.


 

“Ritratto della giovanissima vendemmiatrice” (1954) 

 “Dai primi di settembre alla fine di ottobre sulle colline abruzzesi quindicimila donne con un lavoro faticoso e da pochi conosciuto raccolgono, imballano e spediscono la nota uva da tavola Regina”.   I primi piani di Gilardi sui volti di queste giovani donne appaiono permeati da una  sorta di aurea luminosa di giovinezza e candore. Un’inevitabile intuizione estetica illumina la bellezza dei volti nonostante la denuncia sociale o la presa di consapevolezza politica cui mirava il reportage. I volti in primissimo piano permangono nella loro genuina, autentica presenza, mentre l’elemento rigoglioso della natura, i lussureggianti vigneti, i grappoli ricolmi d’uva e irradiati nella piena luce del mezzogiorno si stagliano verdeggianti di fronte ai nostri occhi. Il cibo resta il filo conduttore delle foto che pur perseguendo nel loro intento  documentario non possono fare a meno di rivelare la portata sensoriale e dunque la bellezza o l’autenticità dell’immagine.




“Addetta al riempimento delle sardine” (1965)

Questa operaia è ritratta simbolicamente al centro di una montagna di scatolette di “sardine all’olio d’oliva” pronte per essere imballate. Sullo sfondo è una parete di scatoloni contenenti gli imballaggi di un’altra specialità della casa. Negli anni sessanta  e già nel pieno processo di industrializzazione in corso l’immagine appare in technicolor in una voluta saturazione del colore. Una marea di scatolette, l’acciaio luccicante del loro contenuto, la massa indistinta del loro accumularsi sullo sfondo beige dei cartoni appare in contrasto con la sola presenza femminile al centro della foto. Lei  sommersa dal processo di produzione industriale, dal lavoro a catena, lei cosa tra le cose, quasi ingurgitata, riassorbita dalla massa anonima degli oggetti, quasi sopraffatta dal loro scatolame. Qui non è più il cibo autentico ovvero la natura a comparire ma nel suo involucro svuotato, la sua rilucente corazza di anonima produzione. Una critica sociale è implicita nella foto di Gilardi come la necessità di una nuova consapevolezza per la classe operaia ma, ancora una volta è, prima di tutto, il rilucente sfolgorare delle cose, il loro darsi a noi nella loro portata immediata e sensuale di “immagini” a emergere in primo piano: consumare cibi e consumare immagini, ovvero divorare con i sensi, mangiare con gli occhi.



“Raccoglitrici di olive in Calabria” ( 1957)



Le mani annerite dalla scorza verdastra delle olive sono esposte senza pudore alla macchina fotografica; e, ancora, sono le schiene piegate per ore nella raccolta, i fazzoletti per proteggersi la testa, gli abiti macchiati o consunti  dal lavoro.  Eppure i volti di queste donne appaiono fieri, nitidi, nella loro luminosa semplicità. Si espongono con orgoglio, nella dignità della loro presenza, della loro fatica, denunciando forse le condizioni estenuanti del lavoro ma senza perdere o negare la propria umanità, il proprio essere femminile. E  nelle serie fotografiche di Gilardi le donne o le bambine della classe sottoproletaria compaiono come soggetti privilegiati. Una bambina di otto anni sorride all’obbiettivo mentre stringe tra le mani una ciotola colma di minestra; un’altra è vista in primo piano impiegata a lavorare come venditrice in un piccolo chiostro. Altrove, sono donne al lavoro,  cuoche delle mense o addette al servizio fotografate nelle cucine; poi madri che stingono i figlioletti tra le braccia  sullo sfondo di dimore miserrime in pietra, vicino al focolare, e decenni più tardi,nel pieno del boom economico, casalinghe a fare la spesa nei primi supermercati. Sempre e comunque le donne sono sorprese con grande spontaneità nel lavoro quotidiano, loro fulcro al centro del reportage documentario, restituendo piena dignità alla soggettività femminile anche quando oggetto di sfruttamento denunciato. Loro, queste donne, agli occhi di Gilardi  appaiono in un’epoca in cui ancora non esiste tale riconoscimento pubblico femminile, al centro del processo produttivo e insieme portatrici di un’intrinseca bellezza; ciò che fa appello ai sensi e accomuna, ancora una volta, il tema del cibo e quello dell’immagine fotografica. 





venerdì 12 novembre 2021

“Essere umane, le grandi fotografe raccontano il mondo” (Musei san Domenico, Forlì)






Dagli anni trenta del novecento ad oggi un nuovo sguardo al femminile inizia a emergere e imporsi sulla scena della fotografia moderna, restituendo nel rispecchiamento di sè le trasformazioni culturali e sociali di un’epoca. Tale, il filo conduttore della mostra attualmente in corso ai Musei san Domenico di Forlì “Essere Umane” curata da Walter Guadagnini.  Il percorso ci conduce cronologicamente attraverso un viaggio per immagini dalla prima parte del secolo scorso ad oggi, dalle figure leggendarie della grande fotografia americana alle artiste che hanno segnato l’emergenza di una nuova coscienza femminista negli anni ‘70 e ’80 in Italia e altrove; si dà, infine, voce alle identità emergenti dalle culture extra-occidentali del XXI secolo.

Una moltitudine di sguardi di donne artiste si susseguono in questo  racconto per immagini dagli stili diversissimi dove dominante resta, tuttavia, il reportage sociale agli inizi del novecento, la rivalsa femminile degli anni ‘80 e, sempre più all’inizio del XXI secolo, le voci dell’alterità, della differenza in senso lato_ personale e politica_ che oltre gli stereotipi femminili restituiscono spazio all’ espressione e alla libertà individuale. Le più di trecento fotografie in mostra si pongono come indagine nuda,  in presa diretta sulla società  di ieri e di oggi, ma, anche,  aprono spazi di narrazione individuale e poetica per raccontare storie, le proprie, catturando scorci di vita intima attraverso le immagini.

 

La fotografia americana degli anni ’30 ( dal reportage alla street photography)

 

Dorothea Lang, “ Migrant Mother” (1936)

Il volto si staglia in primissimo piano, nitido, sobrio, profondamente segnato da linee e solchi sulla fronte. La donna appare intensamente presente nella sua inquietudine, lo sguardo duro, l’espressione seria e taciturna del volto mentre stringe a sé i figlioletti avvolti alle sue spalle, un terzo visceralmente cinto al suo corpo. Se ne sta lì statuaria, immobile in tale fermezza senza tempo come fosse un pilastro a sostenerli, a proteggerli contro ogni evenienza o calamità. Solo il suo volto appare al centro della foto, attorno al quale tutto sembra volgere, gravitare per trovare lì infine un proprio ordine, nella fermezza di quello sguardo, oltre l’ansito disperante di quel presente. 

L’immagine nasce come foto documentaria sull’indigenza e dei lavoratori agricoli in nord America all’inizio del secolo scorso ma giunge a noi come un grido di verità nudo e senza compromessi: lì in ogni andito del suo corpo, una madre con i figli protesi tra le sue braccia e la miseria scritta indelebilmente sul suo volto.

 

Lisette Model, “Coney Isle” ( 1939)

All’antecedente opposto la fotografia di Lisette Model denuncia la società newyorkese perbenista e decadente di inizio XX secolo agli albori del consumismo, cogliendo attraverso le strade nelle istantanee fotografiche l’imperfezione esasperata dei corpi, la loro gestualità grottesca o sguaiata, gli abiti volutamente appariscenti.

La donna, abnorme, distesa sulla sabbia in una saturazione di presenza esprime l’eccesso, l’esposizione decadente di sé  in primo piano nella posa eccentrica, nella nudità fantasmagorica della sua carne, nell’uso e l’abuso di ricchezza mostrata senza remore in primissimo piano.

 

Gisèle Freund , “Brighton” (1935)



Uomini in cilindro e torso nudo sul bagna-asciuga, altri con pantaloni di rispettabili abiti borghesi arrotolati al ginocchio; donne sedute al sole in cappello e costume balneare di inizio secolo . Seduti sulla spiaggia fredda e atona della costiera atlantica britannica nei pressi di Brighton, sono sorpresi a crogiolarsi nella mitezza dei primi soli estivi: spensierati, schivi, in parte imbarazzati nel mostrare la propria nudità, a metà ancora nell’abitus mentale rigido della loro status sociale.  La fotografa sorprende l’agio della classe media inglese all’ inizio del ‘900 ma anche il momento in cui l’assoluto controllo sulla figura inizia a cedere per lasciare il posto all’imprevisto, all’evenienza inaspettata. La crepa si disegna sul muro e un’altra verità si lascia trapelare dietro il cedimento della superficie  convenzionale borghese o nell’accordo tacito sul suo apparire.

 

Anni 70-80 La nuova coscienza femminista

Una nuova forma di reportage a carattere concettuale emerge nella nuova generazione di artiste a partire dagli anni ’70 e per tutto il corso dei decenni successivi: centrali restano la ricerca di libertà e emancipazione al femminile, l’affermazione di identità e di genere per tali artiste donne in un mondo dominato da modelli patriarcali e maschilisti. Sullo sfondo è la nuova società dei consumi, la guerra in Vietnam e  le rivoluzioni sociali e di costumi delle generazioni post-sessantotto. 

Paola Mattioli, la donna e lo specchio, (1977)

Guardare il mondo, volgere il proprio sguardo al di fuori nei rivolgimenti sociali degli anni ’70,  poi all’interno verso sé stesse per cominciare a vedersi. La superficie dell’immagine è uno specchio che moltiplica e riflette le  percezioni dell’io femminile e le proietta verso l’esterno nelle fotografie di Paola Mattioli. La giovane donna è allo specchio; vede il suo viso, lo analizza, ne segue in sequenza le trasformazioni prodotte dal maquillage, poi nel mutare delle pose. Osserva sé stessa in divenire, si scruta, si cerca, si interroga forse alla ricerca di una conferma di sé. Si osserva come guardasse un’ estranea attraverso uno specchio, ora dietro un’inferriata, a margine dell' inquadratura, infine in primissimo piano fino a sorprendere in quella donna un’altra espressività,  sconosciuta, più autentica, celata dietro quella usuale e apparente.

Eve Arnold, “Harlem” ( 1950)

In questa serie incentrata sulla moda ad Harlem negli anni ‘50 è l’identità afro-americana a emergere come il volto di un’altra America nera e minoritaria, assoggettata o invisibile rispetto al main-stream della cultura dominante. Nello specifico queste modelle nere segregate ad Harlem rivelano una  forma di bellezza differente, una qualità dei volti dai tratti somatici marcati, le labbra carnose, gli occhi grandi e oscuri  capaci di restituire dignità a un canone estetico stigmatizzato rispetto a quello occidentale. “ Black is beautiful”, sarà lo slogan della rivalsa identitaria afro-americana negli anni ‘60 i cui antecedenti si situano nella rinascita di Harlem degli anni ’30. La donna colta all’uscita del locale sorprende per l’assoluta sensualità della figura, l’eleganza dell’abito e il suo offrirsi con naturalezza all’obbiettivo, nell’intensità  di uno sguardo simile a  diamante.  Altri scatti rivelano oltre il cliché femminile dell’epoca la naturalezza di gesti, volti o momenti comunitari nei backstage delle sfilate. Ci parla di un desiderio di affermazione e visibilità per l’identità femminile afro-americana in quella società bianca degli anni ‘30. Due profili di volti neri  appaiono qui sdoppiati,  uno di spalle all’altro come si scrutassero a uno specchio per ritrovare, nella loro complementarietà gemellare il superamento del conflitto etnico, la loro piena accettazione di fronte allo sguardo dominante. 

 


Dayanita Singh, “Myself, Moma Ahmed”, ( New Delhi, 1961)


Incaricata di un reportage  dal Times nella comunità trans-gender indiana di New Delhi la fotografa documenta in un “romanzo visivo”  tra autobiografia e finzione la vita di Moma Ahmed e della bambina Ayesha di cui si prende cura fino alla morte nel 2001. Le immagini danno spazio in maniera intima e commovente alla storia di Moma contribuendo allo stesso modo a decentrare la prospettiva sulle componenti marginali, minoritarie o stigmatizzate della società indiana. Si concentrano su un volto che con intrinseca drammaticità esprime la profonda umanità e pathos del personaggio raccontando la fragilità del singolo di fronte alla spietata violenza di un sistema di repressione e controllo sulla differenza discriminante. Colgono in uno squarcio d’anima, il suo dramma esistenziale di violenza ed esclusione, desiderio e resistenza verso una libertaria affermazione di sé. Lasciano spazio infine alla tenerezza di un abbraccio con gli animali domestici e con la bambina che accompagna parte della sua vita. 

 

Letizia battaglia, “la bambina con il pallone”, “Palermo” (1981) 

Era la Palermo delle stragi, dei morti assassinati in strada dalla mafia locale o le faide tra clan rivali   al centro della sua prima fotografia; poi a partire dagli anni ‘80 iniziano a comparire la bellezza e l’intensità degli sguardi, gli scorci su adolescenti e bambine viste per strada, il loro candore quasi come antidoto alle ferite inferte su quella terra dalla criminalità dilagante e dall’omertà diffusa tra i siciliani. Occhi scuri neri e ribelli per la “ bambina con il pallone”; primi piani di volti limpidi e autentici nella serie “Palermo”. Ancora, una piccola orfana è colta a vagabondare in uno scorcio di strada con la città di periferia alle spalle simile alla scenografia teatrale di un decadente rione napoletano.


 

Annie Leibotitz , serie di ritratti (2016)

Sono tredici ritratti di donne celebri che hanno avuto in diversi ambiti un impatto significativo sulla società contemporanea. Scrittrici, artiste, blogger, sportive e  manager appaiono sullo sfondo di un set fotografico essenziale, sulla nudità voluta di un fondale bianco per lasciar spazio alla loro autentica risonanza, illuminarla attraverso l’immagine. L’aspetto scenico di un volto , la natura intima di una personalità, la potenza enigmatica di uno sguardo: tale emerge dai ritratti di Lebovitz quando tutto il resto viene meno, in un progressivo togliere, svuotare sottrarre dall’immagine per lasciar parlare la verità di un soggetto, il suo intimo grido. Tra le altre immagini troviamo la bellezza assoluta ed enigmatica di Natalia Vodianova avvolta nella sua veste lucida e scura di raso con un bambino tra le braccia simile a una icona spirituale moderna. Ancora è la cantautrice poetessa dall’animo poetico e il corpo ribelle Patty Smith: anfibi militari, jeans e corpetto da cowboy, crocifisso al centro del petto e capelli al vento . Altrove, la tennista Serena Williams si rivela nella sua fisicità mascolina e possente esposta pienamente dalla foto; seguono Mellody Hobson dirigente industriale lucida e acuta dallo sguardo d’acciaio e la postura sobria e impeccabile.  Shirin Neshat fotografa e artista iraniana appare nello sguardo intenso e le mani in primo piano come opere d’arte al centro del suo lavoro di creazione: corrugate, venose, impresse dei segni del tempo per plasmare ogni dettaglio di realtà fino a farla propria. Infine la purezza limpida e ineguagliabile del volto di Yao Chen ci fissa in primissimo piano con la sua aura eterea e distante, quasi surreale.

 


La nuova fotografia contemporanea(1980-2020)

L’immagine fotografica si confronta con la realtà dominata dalla nuova rete di connessione globale mentre l’introduzione dell’immagine digitale e la nuove tecnologie  fotografiche cambiano completamente i paradigmi della precedente immagine analogica. Migrazioni di pensieri, merci e informazioni, sistemi di interconnessione globale, dell’informazione ma anche nei trasporti influenzano certamente il lavoro di molte artiste contemporanee. Sempre più ampio spazio è dato a fotografe provenienti da paesi extra-occidentali quali voci emergenti, asincrone o discordanti rispetto al main-stream della cultura bianca dominante. Ne deriva un decentramento di prospettive lasciando spazio  a voci dell’alterità,a racconti individuali o autoritratti ironici di sé come per la sud-africana Zanele Muholi ma anche a tematiche sociali, riflessioni sui paradossi della società attuale  come per la cinese Cao Fei.


Shadi Ghadirian, “Qajar 19”

L’artista iraniana ritorna in maniera ironica sull’iconografia della recente dinastia persiana per reinterpretarla in una versione originale da un punto di vista prettamente femminista.

Ritrae  sé stessa in un autoritratto sulla falsa riga dello Sha di Persia e delle sue numerose mogli: diviene una di queste spose iraniane del passato di cui riappropria l’abito, la posa, perfino l’immobilità del  ritratto stereotipato, immobile e quasi fuori dal tempo. Vi inserisce, tuttavia, un minimo elemento perturbante che contesta ironicamente lo statuto di quel passato. Compare una fotocamera Reflex moderna ai piedi della donna accanto al dagherrotipo del passato, quasi a significare un nuovo sguardo per la fotografa contemporanea. Forse è nell’inserzione di quell’oggetto simbolico, misterioso fonte di fascino e potere, di creazione di un nuovo linguaggio e di rottura con il vecchio modello gerarchico che si situa tacitamente tutta l’affermazione di una nuova presenza e potere al femminile.    







Nanna Heitman, “Sul fiume Yenisei”,  (2018)


Una serie di storie scorrono attraverso il fiume Yenisei in Russia, che nel suo lungo corso attraversa la repubblica di Tuva, il circolo polare artico e la fredda taiga siberiana. La serie fotografica vi gravita intorno inseguendo luoghi poetici sospesi fuori dal tempo ordinario, simili a paesaggi dell’anima.  Le immagini ci parlano di volta in volta di sogni irrealizzati, desolazione, speranza e abbandono. Incontriamo così il volto immobile, fisso e inespressivo di un ex-ufficiale tornato dalla guerra, la ragazza che si nascondeva dalla violenza del fiume Yenisei nel villaggio dei vecchi Credenti; ancora, la ballerina che danzava cinque ore al giorno all’accademia russa, un’eterea collezione di farfalle. Aspettando il bus una neonata dorme quieta mentre l’acqua che scorre lenta e incessante nel fiume nonostante la calura estiva; infine è la casa fatiscente d’avanti a cui Yuri siede di fronte a un piccolo traghetto che sembra lì perdersi e affondare nelle sue acque.


Silvia Camporesi, “Domestica”, (2020)



Come cercare nuovi orizzonti di libertà, spazi immaginativi  e di vita durante la chiusura, l’isolamento forzato del lockdown nell’inverno 2020? La fotografa ravennate immagina in questo quotidiano rarefatto e sospeso dove nulla più accade  un altro orizzonte possibile.  Un collage fotografico di libere associazioni visive dà vita a un diario intimo e poetico che ci parla di infanzia, di una madre e le sue figlie, della meraviglia infine di piccole cose che ancora ci salvano.  Sono frammenti di oggetti, tazze rotte e ricomposte, una piuma, una cartina di colori, uno specchio, una macchina da scrivere andata in fumo. Sono un’arancia rossa, un pupazzo, una bambina, un riflesso deformante, un’ombra oscura, un vortice, un vuoto, una marea, un’onda. Il rifrangersi chiaro della vita, un mosaico di ricordi, frammisti tra desiderio e memoria antica.



giovedì 9 settembre 2021

“Uno, nessuno e centomila volti”, Dante Plus 700 a Ravenna






Ritratto, autoritratto, cento cinquanta volti per rispecchiare il mondo, per vederlo  e vedersi in una infinità di versioni differenti partendo dal ritratto del grande poeta Dante, l’eredità fondante della nostra tradizione letteraria­­; tale lo spirito che anima gli artisti contemporanei esposti a Ravenna nel chiostro della biblioteca Oriani per la mostra “Dante Plus 700” in occasione del settimo centenario della sua scomparsa. L’originalità delle innumerevoli varianti sul ritratto originale del 1300 pone da subito la questione del  come leggere il passato alla luce del contemporaneo, di ciò che siamo noi oggi con le nostre modalità comunicative: una civiltà mediatica, globale, dominata dalla tecnologia e convertita al digitale.  Ne scaturiscono ritratti ispirati alla cultura pop, al fumetto o alla street art ma anche l’utilizzo della realtà aumentata per quadri che si animano con le nuove tecnologie della rilevazione in 3D.  Nella molteplicità di versioni che si susseguono sui muri del chiostro o nel giardino esterno compare una galleria di volti che danno spazio alla fantasia e alla più grande versatilità degli artisti contemporanei. Parole chiave restano l’appropriazione personale del ritratto, la rilettura o il ritorno differito del passato alla luce del post-moderno, infine la rappresentazione ironica del volto più iconico della nostra cultura nell’alterità culturale di oggi o dei suoi linguaggi. Le suggestioni maggiori vengono dall’immagine d’animazione, dalla pubblicità o dai video-giochi come nell’eclettico esempio di “Super Dante World2” ideato da Oluk dove il ritratto si trasforma in un video-gioco con i personaggi della nota serie Super Mario Bros. Eppure, resta ancora da chiedersi come il ritratto, effige del  passato può essere riportato al presente da questi artisti, riappropriato e infuso di nuova vita divenendo sempre più, in qualche misura, rispecchiamento del sé o parziale auto-ritratto. Se in alcuni casi esso appare contestare ironicamente l’autorevolezza della tradizione in altri è riconvertito dall’era digitale dove l’immagine diviene tridimensionale, soggetta alla visione di una realtà aumentata. 



Nei giardini esterni al chiostro dell’Oriani quadri di grandi dimensioni posti tra le colonne del porticato prendono vita; in “Dante nella selva oscura” di Sandro Pautasso occhi allucinati si muovono verso di noi dando a un volto già espressivo un tratto ultraumano, carico di un virtuale potere di metamorfosi. Gli occhi si  animano di luci elettroniche contro l’oscurità soggiacente del volto, della figura perduta nella buia notte infernale. “My Dante” di Emiliano Ponzi incarna il poeta della trasfigurazione mediatica mentre l’uomo austero e altero dell’iniziale ritratto si tinge di tonalità cupe, rosse infernali e l’immagine animandosi si avvicina a noi, ci sommuove, ci scuote dando corpo a demoni o angosce collettive celate nel nostro subconscio.

Dalla galleria dei volti all’interno …




Giuseppe Veneziano, dantealighieri@virgilio.it

Questo Dante contemporaneo ritorna nei tratti marcati del disegno d’animazione dal quale emergono il profilo imperscrutabile, il naso imponente e una corona di alloro sulla testa. Veste una tunica rossa accesa e una ghirlanda verde disegnata sul capo contro lo sfondo mosso del paesaggio ma, in questa versione pop, il poeta scrive con un I-Pad sulle ginocchia seduto su un masso appena abbozzato. Ancora in “Mi ritrovai in una selva oscura” di Kyon il volto è riprodotto in termini puntillisti come fossero i pixel di un’immagine elettronica emergendo dalla profonda oscurità di una selva sommersa. 

“Star” (Barbara Boldi)  Dante assume il volto di una donna, il suo viso cerchiato da una corona di spine più che di alloro appare in primo piano limpido, netto, epurato da ogni altro aspetto decorativo. Là, lo sguardo della giovane artista rivive attraverso il volto del poeta: l’autoritratto diviene appropriazione e messa a nudo del sé attraverso il riflesso distorto dell’illustre precedente dal passato.


Nella galleria, ancora, troviamo una versione cubista del volto dantesco scomposto  per blocchi e forme geometriche nella figura sfaccettata di Oscar Diodoro. Segue un “Dante Alienato”, dove il volto inscurito, ricoperto da una patina di blu denso e estraniante si scontra con il rosso magenta della tunica saturando nel contrasto la tela. Altrove, nella visione di Blub il poeta porta grandi occhiali da sub ed è immerso nelle profondità marine mentre la tela è ricoperta da un 'acquorea e surreale tonalità oceanica.  










“Vuoto assoluto” (Luca Barberini)- Di fronte a noi un profilo di volto svuotato, solo la linea in rilievo del contorno a delinearlo. Come riempire questo bianco assoluto, forse questa impossibilità di misurarsi con un autentico pilastro della nostra cultura letteraria, come fare fronte al vuoto se non riempiendolo di una miriade di oggetti trovati, ritagli di forme casuali in colori vivaci che si animano a collage dentro lo scheletro della forma. Simile a una miriade di idee e  immagini, affiorano a poco a poco dal caos di una mente in subbuglio andando a ricostruire un mosaico possibile in luogo del ritratto scomparso. 

Allo stesso modo troviamo altre versioni del volto di Dante in mosaico contemporaneo: Lady Be ricrea il profilo originale del viso in eco-mosaico riempiendolo di minuscoli oggetti colorati di recupero e resina in una vera e propria esplosione policroma. Per Tanino Liberatore il profilo di Dante in vernice spray nera ricopre un cartello di segnaletica stradale, “divieto di sosta”, simile a graffito o incisione su una parete d’acciaio. Altrove il volto è appropriato utilizzando  icone del fumetto o del disegno animato con aggiunte giocose sulla figura come libri, piume, calamai, allori, alimenti o arbusti.

Unterwelt ( Awer)- Il profilo di Dante diviene una foresta oscura, una selva incantata e divorante di linee che dentro le loro ondulazioni sismiche, al loro animarsi e prendere vita nell’immagine tridimensionale letteralmente rigurgitano le figure dei due visitatori nell’inferno dantesco.










“Supreme Poet” (No Curves)- Tra  i verdi e rossi frammenti di adesivo su plexiglass trasparente, lo sguardo del poeta affiora qui in estemporanea come rivelazione tra le linee, come uno spiraglio di anima insieme ai pochi tratti salienti del volto. Intenso, ultra-presente e inequivocabile rivive di fronte a noi dal passato al presente nello svuotamento di tutto il resto.

 

 


martedì 17 agosto 2021

“In Nuce” di Maurizio Donzelli (Ori e Mirrors al museo Medievale di Bologna )

 

















“In Nuce” come titola l’installazione contemporanea al museo medievale di Bologna  significa ciò che è nell’atto di venire alla luce, l’embrione di qualcosa che ancora non è, qui le geografie immaginarie create da Maurizio Donzelli entrando in uno spazio-tempo sospeso fuori dall’ordinario. 

I disegni lievi ed eterei dell’artista bresciano entrano in dialogo silenzioso con gli ambienti del museo bolognese dove stratificano armi, arazzi, stele sepolcrali, sculture sacre e bronzi che datano dal XIV secolo. I suoi ricami aerei insieme agli effetti a specchio delle installazioni si intrecciano con l’impronta medievale del museo e della città. 

Bologna ne è pervasa In ogni angolo o lembo del centro storico, dalle cortine rosse abbassate sulle finestre dei palazzi comunali, agli emblemi dei casati incisi  sulle mura rossicce, ai porticati dove ci si ripara nei roventi pomeriggi d’agosto. Allo stesso modo, le piazze ampie e soleggiate si alternano alle stradicciole strette e tortuose del centro antico mentre una costellazione di torri e resti di mura medievali circuiscono le porte cittadine. 

Da una parte la storia è stratificazione di tracce e lasciti del passato, nell’arte sacra  e profana da un’epoca all’altra in forme e stili differenti. D’altro lato, l’arte di oggi entra in un dialogo sottile, ironico con il passato al limite cercando ciò che è latente piuttosto che manifesto in esso: il suo doppio nascosto o invisibile, quello che le opere suggeriscono tra le righe a noi con la sensibilità del presente come risonanza spesso asincrona tra due epoche. 

Qui, nello specifico, i monocromi d’ oro e i “mirrors” di Donzelli  restano sospesi come  filigrane lievi di colore e di luce in un tempo altro che non è né il passato delle collezioni, né il presente della sua arte. Un intreccio invisibile tra i due suggerisce possibili connessioni attraverso il tempo e lo spazio secondo le libere reminiscenze o sensazioni degli spettatori.  


“Monolith 0”

Lo specchio è uno fondale argenteo che riflette al suolo; apre uno scorcio in profondità sul piano orizzontale, mentre i visitatori come gli oggetti attraversano la sua superficie. Un pilastro brillante ricoperto d’oro si staglia al suo centro simile a un manto di ninfee dorate su uno sfondo acquatico e trasparente. Ritaglia il suo spazio in mezzo alla pesantezza statuaria dei bronzi_ il busto di Gregorio XV del Bernini_ e altre piccole sculture in equilibrio precario su un piedistallo come  un atleta dell’arte classica. 

In alto a sinistra un cielo stellato irrompe come una visione planetaria bianca e azzurra di stelle o altre galassie tracciate nell’universo. La leggerezza aerea del bianco e del blu si imprime sull’immobilità bronzea delle sculture. La loro luce eterea sublima l’immane staticità  del bronzo.





In Nuce”

Forme nascenti, ombre leggere, bianchezza, l’impressione di qualcosa di invisibile tra le linee.     “In Nuce”, ciò che è nell’atto di venire alla luce, ciò che è nel momento di divenire da spirito  a forma, da energia a corpo  in movimento. Come nella danza butoh giapponese trasformarsi da una forma all’altra dando corpo a forme visibili abitate da uno spirito invisibile.


“Double explosion”




Onde sismiche si imprimono in linee e colori vividi dal giallo al verde all’ocra terroso su un arazzo intessuto di fili policromi mentre  l’impronta funebre di una lastra tombale si erge scolpita alla fine del quattrocento da Francesco di Cossa. Impressa sulla pietra, la figura resta in una immobilità dove il volto scompare ma le vesti si disegnano plastiche, plasmate nelle onde immobili della pietra. Nell’intreccio di colori caldi e onde vive è il gioco di complementarietà paradossale tra l’antico e il moderno.


Alpha III


Un prisma di raggi in movimento genera una scia di riflessi cangianti. Evoca la frammentazione dell’uno in una miriade di forme multiple e infrante. La realtà unica è  vista in uno specchio di riflessi illusori, di forme mutevoli tanto quanto la caso o l’eventualità dell’esistenza. Intorno l’acciaio delle armature, la pesantezza inossidabile del passato si scontra contro la volatile instabilità del presente.

Come afferma Donzelli richiamando i valori del fare arte oggi: “L’arte è il contrario della morte perché genera, crea.” In Nuce evoca quel “momento dilatato della nostra esperienza artistica, che precede il momento creativo”[1]. Ci parla di sinestesie poetiche che si instaurano attraverso il tempo e lo spazio nei luoghi che sono da sempre quelli dell’arte. Ci ricorda ancora la necessità di portare con sé il proprio passato come civiltà e cultura ma anche del non restarne intrappolati o prigionieri in esso; al contrario, per appropriarlo con uno spirito vivo, in una dimensione dialettica che  nutra anche il nostro presente.

 



[1] Maurizio Donzelli, “Ripartire dal GestoZero”, intervista su www.acme-artlab.com