“Il bisogno
primario di cibo si sovrappone oggi a quello delle immagini” scrive Francesco
Zanot nell’introduzione alla Biennale di Foto Industria 2021 a Bologna; esiste una
stessa voracità nelle società consumistiche di oggi nel consumare cose,
alimenti, cibi e i loro profumi non solo con il gusto ma con tutti i sensi allo
stesso modo in cui desideriamo vedere, scambiare e ricevere sui nostri canali
di comunicazione digitale, foto o video condivisi_auto-rappresenzioni di noi
stessi_ ed ancora essere parte di quel fiume di immagini e messaggi che ci arrivano
dai social. Una narrativa delle immagini si crea in questo modo, allo stesso
tempo raccontando sé stessi e un’epoca nel suo scorcio sociale e culturale in atto.
Oggi a ridosso di due anni di pandemia si
lotta con i vaccini per tenere sotto controllo il nuovo propagarsi del virus e le
festività si situano come una parentesi lieve, una sospensione in cui si è
avviluppati dal cibo e dal calore di una casa, riportando al centro ancora una
volta il consumo esasperato di cibo e di immagini. Tale, il tema “Food”, scelto per la recente Biennale
foto/industria tra cui spiccano le fotografie di Ando Gilardi esposte al Mast
ancora per pochi giorni.
Gilardi si avvicina
alla fotografia nel ’45 all’indomani del conflitto bellico, inizialmente con un
intento documentario e politico in immagini che costruivano prove legali contro
i crimini neo-fascisti commessi durante la guerra. La sua produzione fotografica si realizza prevalentemente negli anni ’50 e
’60 sui temi del lavoro, dell’industria, dell’agricolture, dell’etnografia e
della società. Alla fine degli ’50 Gilardi collabora con la rivista “Lavoro” e
inizia a raccontare la quotidianità di contadini e braccianti sottopagati nei
campi al nord, di venditori ambulanti, donne sfruttate al sud nelle raccolta
delle olive e altre simili realtà
sociali agli albori del boom economico italiano. Taglienti e permeate di un
forte impegno ideologico le fotografie di Gilardi si vogliono strumento di
testimonianza e di lotta politica a favore delle classi più esposte a miseria e
sfruttamento nell’Italia post-bellica agli inizi ancora del processo di
industrializzazione. D’altro lato, come scrive Francesco Zanot nella prefazione
della mostra: “Il cibo si consuma con il cervello, con gli occhi, con tutti i
sensi”; allo stesso modo sono le immagini che riceviamo, che assorbiamo
involontariamente o che decidiamo di incorporare nel nostro immaginario collettivo.
Al di là dell’aspetto documentario esse giungono a noi con la portata
espressiva di un racconto, con il loro potere di fascino e verità venendo a
illuminare quella società italiana immersa ancora nella cultura rurale,
sorridente e lieve all’indomani della guerra; forse lì sorpresa a guardare
avanti verso un futuro speranzoso nell’avvento della nuova era economica.
Nella mostra
bolognese, in particolare, il tema del cibo permane come filo conduttore nella sezione
propria alle fotografie e in quella della
Fototeca Storica Gilardi. Si tratta di un archivio di innumerevoli
materiali sapientemente catalogati e raccolti a partire dal 1959 e, in seguito “ri-fotografati”
nel suo grande inventario personale tra cui figurine, incarti illustrati di
cibi , scatole, pubblicità, riviste, erbari ecc.. Come suggestisce Zanot: “Il
cibo è un linguaggio. Come la fotografia, gli alimenti incorporano e diffondono
messaggi. Il risultato è un corto-circuito : qualsiasi fotografia del cibo è il
frutto di un processo di ri-mediazione”. Gli alimenti dal loro primo livello di
esistenza divengono agli inizi del marketing moderno rappresentazioni in una
vera e propria “iconografi del cibo” nel momento in cui vengono esibiti, pubblicizzati
e investititi di un desiderio o necessità addizionale all’oggetto primario. Il lavoro
di Gilardi qui, anticipando l’arte concettuale, è a sua volta “immagine di
altra immagine”: il suo modo di vedere e restituire i materiali catalogati o le
loro immagini. E tale inventario arriva a noi oggi come il vero e proprio
ritratto etnografico di un paese attraverso il cibo che ne è elemento costitutivo
per il potere della fotografia di
ampliarlo e renderlo manifesto.
Foto-inchieste
Nelle fotografie in
bianco è nero di Gilardi degli anni ‘50 è l’Italia delle grandi tavolate
all’aperto nei giorni di festa nell’assetto famigliare patriarcale ancora. E’
lo spostarsi in bicicletta, le raccoglitrici al sud e le mondine nelle risaie
al nord, i volti sorridenti, gli abiti consunti dal lavoro nelle campagne, i
piatti colmi di pasta asciutta e le mani annerite dal lavoro. Sono i mercati rionali,
i piccoli venditori ambulanti, i bambini cresciuti in strada, le campagne ampie
e piane, i raccolti e le messi, le botteghe artigianali per un’Italia ancora
povera, semplice e rurale.
“Ritratto della giovanissima vendemmiatrice” (1954)
“Dai primi di
settembre alla fine di ottobre sulle colline abruzzesi quindicimila donne con
un lavoro faticoso e da pochi conosciuto raccolgono, imballano e spediscono la
nota uva da tavola Regina”. I primi piani di Gilardi sui volti di queste
giovani donne appaiono permeati da una
sorta di aurea luminosa di giovinezza e candore. Un’inevitabile
intuizione estetica illumina la bellezza dei volti nonostante la denuncia
sociale o la presa di consapevolezza politica cui mirava il reportage. I volti
in primissimo piano permangono nella loro genuina, autentica presenza, mentre
l’elemento rigoglioso della natura, i lussureggianti vigneti, i grappoli
ricolmi d’uva e irradiati nella piena luce del mezzogiorno si stagliano
verdeggianti di fronte ai nostri occhi. Il cibo resta il filo conduttore delle
foto che pur perseguendo nel loro intento
documentario non possono fare a meno di rivelare la portata sensoriale e
dunque la bellezza o l’autenticità dell’immagine.
“Addetta al
riempimento delle sardine” (1965)
Questa operaia è
ritratta simbolicamente al centro di una montagna di scatolette di “sardine
all’olio d’oliva” pronte per essere imballate. Sullo sfondo è una parete di
scatoloni contenenti gli imballaggi di un’altra specialità della casa. Negli
anni sessanta e già nel pieno processo
di industrializzazione in corso l’immagine appare in technicolor in una voluta
saturazione del colore. Una marea di scatolette, l’acciaio luccicante del loro
contenuto, la massa indistinta del loro accumularsi sullo sfondo beige dei cartoni
appare in contrasto con la sola presenza femminile al centro della foto. Lei sommersa dal processo di produzione
industriale, dal lavoro a catena, lei cosa tra le cose, quasi ingurgitata,
riassorbita dalla massa anonima degli oggetti, quasi sopraffatta dal loro
scatolame. Qui non è più il cibo autentico ovvero la natura a comparire ma nel suo
involucro svuotato, la sua rilucente corazza di anonima produzione. Una critica
sociale è implicita nella foto di Gilardi come la necessità di una nuova
consapevolezza per la classe operaia ma, ancora una volta è, prima di tutto, il
rilucente sfolgorare delle cose, il loro darsi a noi nella loro portata immediata
e sensuale di “immagini” a emergere in primo piano: consumare cibi e consumare
immagini, ovvero divorare con i sensi, mangiare con gli occhi.
“Raccoglitrici di olive in Calabria” ( 1957)
Le mani annerite
dalla scorza verdastra delle olive sono esposte senza pudore alla macchina
fotografica; e, ancora, sono le schiene piegate per ore nella raccolta, i
fazzoletti per proteggersi la testa, gli abiti macchiati o consunti dal lavoro.
Eppure i volti di queste donne appaiono fieri, nitidi, nella loro
luminosa semplicità. Si espongono con orgoglio, nella dignità della loro
presenza, della loro fatica, denunciando forse le condizioni estenuanti del
lavoro ma senza perdere o negare la propria umanità, il proprio essere
femminile. E nelle serie fotografiche di
Gilardi le donne o le bambine della classe sottoproletaria compaiono come
soggetti privilegiati. Una bambina di otto anni sorride all’obbiettivo mentre
stringe tra le mani una ciotola colma di minestra; un’altra è vista in primo
piano impiegata a lavorare come venditrice in un piccolo chiostro. Altrove,
sono donne al lavoro, cuoche delle mense
o addette al servizio fotografate nelle cucine; poi madri che stingono i figlioletti
tra le braccia sullo sfondo di dimore
miserrime in pietra, vicino al focolare, e decenni più tardi,nel pieno del boom
economico, casalinghe a fare la spesa nei primi supermercati. Sempre e comunque
le donne sono sorprese con grande spontaneità nel lavoro quotidiano, loro
fulcro al centro del reportage documentario, restituendo piena dignità alla
soggettività femminile anche quando oggetto di sfruttamento denunciato. Loro,
queste donne, agli occhi di Gilardi
appaiono in un’epoca in cui ancora non esiste tale riconoscimento pubblico
femminile, al centro del processo produttivo e insieme portatrici di un’intrinseca
bellezza; ciò che fa appello ai sensi e accomuna, ancora una volta, il tema del
cibo e quello dell’immagine fotografica.