sabato 22 febbraio 2014

“Ieri e oggi”, partendo dalla pittura di Gillo Dorfles, (Fondazione Marconi, Milano)


“E’ l’atto di disegnare e dipingere che è stato per me fin dall’infanzia qualcosa di quasi coercitivo e mi ha obbligato a riempire le pagine dei miei libri scolastici, il legno dei duri banchi di scuola, la sabbia delle spiagge estive”.(G. Dorfles)








“Pittura organica, vagamente surreale” libera, duttile, fluida come la linea che la porta,  affiora nel gioco della libera improvvisazione per quello che d'inatteso appare “dal misterioso mondo interiore che esiste in ciascuno di noi ”1
 
Tali percezioni consce e inconsce passate direttamente dentro il dettame d’un segno, d’un alfabeto singolare di linee e simboli divengono, in qualche modo, sintesi di forme organiche e di processi percettivi trasformandone le sembianze nel tempo. In Dorfles, abolita la visione prospettica e rappresentativa di realtà, la tela diviene spazio bidimensionale di iscrizione, reticolo di segni e simboli, paesaggio-atmosfera nato come pura cromia potenziata dal contrasto essenziale di tonalità opposte. E l’immagine psichica, non-mediata da un’intenzione razionale e ordinante, affonda con le proprie radici perlopiù nel substrato subcosciente:
 
E' il mormorio muto e indistinto della parola al suo primo manifestarsi sulla pagina bianca, immagine in lotta là per emergere dal primo impulso poetico al suo vivido costituirsi sul foglio; dettame ritmico, scrittura automatica, catartica iscrizione libertaria svincolata dal controllo della gabbia razionalizzante, creazione infine d’un alfabeto di segni e simboli desunti da archetipi pre-esistenti.
Figure enigmatiche e fantasiose appaiono, creature fantastiche o ibride, linee continue o interrotte:  forme organiche, astratte e vitali con le quali comporre il proprio personale universo poetico.



Già dalla metà degli anni ’30,  quando inizia a dipingere, Dorfles lavora su composizioni surreali, perlopiù a tempera, interessandosi a forme archetipe, a simboli che si ripresentano in modo aleatorio  come esplorazione del substrato inconscio, onirico o immaginativo oppure in una ricerca sul segno quale affioramento immediato e non-riflesso d’una linea continua o interrotta dal tratto semplice, essenziale, a volte denso o non-finito e sempre in contrasto con la campitura cromatica del fondo, come fosse emergenza, forma prima, iscrizione d’energia libidinale, primordiale tracciato del tratto sulla matrice-foglio. Espandendosi e deformandosi in forme complesse o sintetiche, allungate o deformate,  opposte nei contrasti complementari dei colori netti al fondo, neri-gialli, aranci-blu, viola-grigi.  In mostra alla Fondazione Marconi a Milano ritroviamo soprattutto acrilici recentissimi, ceramiche e una scultura con smalti policromi che l’artista esegue tornando alla pittura negli ultimi anni con rinnovata ispirazione.


L’orecchio di Dio (1996), pittura a tempera nera e vuoti scavati al suo centro.
La potenza del giallo si insinua come forma serpentina, vitale forza quasi sgattaiolando visceralmente negli intervalli discontinui, 
nei vuoti aperti sull'oscuro tratto  incidente e gli spazi grigi del fondo. 
I gialli si insinuano come percorso, serpentini guizzano, scivolano, si impongono, zigzagano, si riversano contro la traccia del nero, contro il fondale discontinuo e divorante del grigio. I gialli sono queste forze di vita, queste vibrazioni vitali di ascesa e discesa, di balzi e guizzi in avanti, d’un circumnavigare e  serpeggiare la linea spessa e oscura , d’un proseguire per balzi inattesi innanzi e indietro, e, tuttavia, in questa affermazione certa e luminosa che si impone e prende piede ricacciando la simbologia infernale del triplice 6 (simbolo volutamente incluso da Dorfles) ai margini con le sue apocalittiche spirali di fuoco.  
Serpentina emerge la forza di vita contro il percorso infuriante delle sue antagoniste forze di negazione. Dorfles nomina tale quadro “l’orecchio divino” come fosse questo grande orecchio cosmico, dell’universo al centro, a captare e incamerare al suo interno tutte le vibrazioni sonore come una grande camera di echo universale.
La forma si deforma internamente per questo immenso  sentirsi-vibrare del cielo, della terra con i suoi echi e parole,  coi suoi suoni e sibili, coi suoi rumori, soffi e boati sotto l’occhio onnipresente d’una divinità espansa e dileguata quanto la tela stessa.
L’udito dell’universo è tale forma in Dorfles che si espande e si deforma all’infinito per la potenza e la sonorità del mondo.

In Senza titolo (1992) sono ancora le opposizioni nette e incisive del rosa-fuxia e del          nero-azzurro sul denso fondale blu in principi oppositivi o complementari all’universo nell’opposizione di yin e yang, caldo-freddo, luce-tenebre, chiaro-oscuro, animus-anima, maschile e femminile  in essenziale contrasto cromatico. Sono ancora queste linee serpentine, percorsi e intervalli discontinui, a tratti interrotti, a tratti ripresi, oppure addensandosi in punti di concentrazione energetica per confondersi e disperdersi in altri contorni e ritornare in improvvise pennellate d’acrilico dense contro il fondale.
Anche qui è l’emergenza vitale d’un energia che si impone e si iscrive come forza e forma germinale svincolata dalla griglia geometrica astratta per divenire linea e forma in sé, senza definizione o meglio definendosi in questa sua non-forma, pregnanza d’esserci come totalità esperienziale del colore, metafisica quasi, nel suo imporsi rivelatorio sul foglio da un'innata matrice.

 In , Verde, (2000) sono pennellate d’acrilico, dense sul fondale rosato opaco tempestato di qualche rubino rosso e di rare macchie nere. Nel dispiegarsi del verde il tracciato appare aprirsi, interrompersi e riprendere rivestendosi del ritmo discontinuo di vita con le sue leggi di trasformazione incessante: forze che portano verso l’interno, o, al contrario, altre che aprono verso la vitalità di quello che spunta fuori, cresce, irrompe sulla superficie arida e dissecata della terra per venire alla luce, germogliare, espandersi verso l’alto. Ne risultano arcipelaghi di verdi tra loro legati, linee che proseguono oltre i limiti fisici della tela, masse di universi interiori percepiti come vibrazioni di pieni o di vuoti, di luce o di tenebre. Luminose e devastanti insieme, si disegnano in abbozzi di universi appena accennati, cartina di tornasole, quasi, della costante motilità psichica e immaginativa della mente nell’atto di percepire e visualizzare, ricreare e trasformare.

Custodire l’intervallo (2011)




Ampia pausa, tempo di mezzo, l’intervallo è distesa o macchia calma e  rasserenante, grigio-bianca su fondale violaceo tenue e immenso contro l’ascesa dell’arancio elementare iscrivendosi come tratto generativo tracciato a vivo dal fondo. Visualizza una figura indefinibile di contaminazione antropomorfa vista come forma d’animale abitata d’umano o viceversa: creatura di vita  animata, iconicamente disegnata dalla linea evolutiva del tratto, ora interrompendosi in un ampio varco improvviso. Tale intervallo è spazio di mezzo, carico di mute parole, espanso come silenzio abitato, percepito come un mormorio confuso dal fondo affacciandosi,  presente alle soglie di coscienza nell’intervallo tra una parola non detta e l’altra in procinto di dirsi.
Spazio di mezzo svuotato come una pausa lieve: 
l’eccesso cambiato di segno ma non perduto o cancellato, no, invece solo dileguato, 
dissolto nelle insorgenze immanenti alla tela, da dentro la pasta del colore disegnandosi immensamente “apaisant”, azzurrognolo, rasserenante.  

Nel puro intervallo nulla è perso, nulla  è smarrito ma solo messo tra parentesi, guardato al contrario, rovesciato nel suo opposto speculare, forse trasmutato nel suo opposto materico a partire da una primaria essenza cromatica. 
 L’intervallo è anche il “tempo della composizione” della tela, quel tempo di mezzo nel quale diviene possibile comprendere, rielaborare, trovare una chiave di svolta all’atto immediato della "messa in pittura”.
Esso traccia in questo modo la mappatura d’uno spazio mentale, 
di attraversamento e rielaborazione oltre quello fisico di grafia e colore.

Senza titolo, (ceramica dipinta, 2012)

Pittura libera e istintiva nata da pochi contrasti cromatici o colori complementari, esplora questo mondo in affioramento di forme e linee prime, ora organiche, ora astratte ma guidate da una ben presente linea di vita, ora generate come in una sorta di “scrittura automatica”. Intercetta creature ibride, ambigue, insorgenze fantastiche  vagamente accennate. 
Il nero domina sulla ceramica lucida e smaltata del piatto circolare; è l’idea d’uno sguardo gettato contro, volutamente, violentemente volto sullo spettatore dalla ceramica, aggredendolo quasi attraverso occhi ben presenti come forza centripeta, ovoidale fulcro animato al centro della tela astratta. Ai lati i rossi frastagliati, i gialli lucidi e sinuosi salvano, lembi d’aranci ancora sopravvivono. 

Il fondale catramato domina ma queste forme primordiali serpeggiano sui bordi nella lotta inesausta, costante tra le forze di vita e di morte, tra la continuità e la rottura, tra la tenace ostinazione al vivente e la spaventata ritrazione dal medesimo. Persistono i gialli, i rossi e gli aranci, su un bordo il bianco come punte frastagliate, frange di forze unite insieme nella discontinuità di fronte al fulcro visivo di quello sguardo che rinvia sinistramente al nostro, punto focale della composizione.  


Circonvoluzione a quattrocchi”(2011) circumnavigare, girare intorno, cir-condurre



Sono ancora occhi che dominano al centro della tela, che si espandono, che ricevono e rinviano e tutto dileguano,.
Sono ancora occhi che divengono universi, isole e insieme forme in espansione, in dissoluzione, 
forme da circuire, circumnavigare a vista, da percorrere come seguendo il perimetro tracciato e a tratti cancellato d’un continente su una carta. Questioni di sguardo, del potere dato o abusato da una visione, del potere esercitato da uno sguardo che distorce, deturpa o controlla dall’alto, ma anche di quello che liquido si insinua attraverso, vede e passa tra le sembianze finite delle cose. 

Sono gli occhi della divinità, del potere rivelatorio e profetico della parola, gli occhi della legge che infrange lo spazio del singolo, gli occhi coercitivi del potere esercitati attraverso lo sguardo del controllo fino alla tacita persuasione ma, anche, questi grandi occhi divini, dileguati come iridi espanse dal centro della tela, reiterati in doppia visione dai contorni roseo-purpurei, fuxia tendenti all’ovattato violaceo. 

Sono occhi che aprono mondi attraverso l’avvenimento d’uno sguardo, di grazia o d’amore, che si moltiplicano e poi dileguano attraverso   le sembianze delle cose,  che disertano la realtà per aprire varchi su mondi interiori, che disfano, infine, le sembianze finite delle forme per tornare come in questa tela a una sorta di  liquido prima.



 

Doppia visione (2010) evolve su un fondale giallo, luce e oro che rasserena, quieta e ristabilisce armonia.
 E’ luce solare, colore, pienezza e continuità delle sue interne tonalità dall’ocra vivo al rosa tenue, al pallido arancio, e vibrazione calda di vita espansa, tenue e dilagante come un’infatuazione d’oro sulla superficie contro i precedenti pigmenti oscuranti riassorbiti dalla cromia luminosa. Una linea violacea disegna continua e fluida al centro un contorno indefinibile di creatura in contaminazione tra l’astratto e l’organico, una figura di fantasia in interpretazione sincretica di realtà. E il verde smeraldo tendente al turchese sancisce con i suoi accenni sagomati e fluidi al centro della tela un nuovo inizio: verde della terra con i suoi guizzi luminescenti, sale di vita,  luce del mondo.

La simmetria decostruita, lontana d’ogni formalismo astratto sfocia in un disequilibrio voluto di linee che girano perdendosi volutamente, liberandosi attraverso lo spazio, sollevandosi in ascese e discese, in forme germinali, ectoplasmatiche, ora circolari o sferiche volgendo a spirale al proprio centro. 
Contorni primitivi o linee continue culminano in singoli punti isolanti d’arresto come intervalli improvvisi attraverso un percorso proseguendo silenziosamente verso il proprio ritmico infinito.

Strega marina (2012)




Ancora sono i gialli e gli aranci della linea compositiva sui blu tenui dei fondali nelle loro forme fluide e continue che salvano.  E’ ancora questa linea delineandosi a guisa di creatura o mostro marino ma luminosa nella vibrazione del giallo a sua volta invasa dal fondale smeraldo:
Dilagante idea di pienezza, si ritrova scavata negli istmi della figura d’acqua, nelle sue insenature e nei suoi buchi, nei vuoti aperti al suo interno, nelle linee che si riempiono e si svuotano,;
nel contorno-massa modellato dal fondale acquatico in varchi e rientranze, nella danza del verde smeraldo e dell’arancio luminoso, dentro la materia della vibrazione colorata sino a renderla maschera vuota, 
forma aperta e in circolazione tra l’interno e l’esterno dei suoi contorni. 

La forza di vita pulsionale del giallo e dell’arancio appare come movimento impulsivo di vita  sull’ articolazione del turchese o del verde marino,.

In articolazioni (2013) ancora è questa linea del giallo che prende la forma animata  d’uno abbozzo o gouache a tempera resa più opaca e luminosa dal contrasto:
un folletto, una macchia di colore,  un’isola con le sue insenature e i suoi istmi scavandosi all’interno, su un fondale tenue stagliandosi. 
E’ una vibrazione ritmica e sonora che si impone d’un organismo indefinibile,
l'accostamento tra tonalità opposte potenziandone la tensione cromatica,
una linea plastica che dissolve la visione prospettica, 
un elemento volutamente disequilibrante atto a  squadrare la gabbia simmetrica. 

L’immagine di fantasia è accolta come un accadimento inatteso, 
un’impressione o un’improvvisazione arrivando, casuale e transitoria, improbabile dal fondo attraverso tale pittura-medium.

Una “danza d’acqua” ne Il Fustigatore, (2007) è una linea che si disegna morbida, libera e duttile nella motilità ancora istintiva del suo imporsi in tonalità luminose fino a toccare il rosa vivo e il rosso corallo. Le linee rosso-arancio su azzurro-blu intenso à plat d’una quasi figura emergono liberamente  auto-generandosi: faber, artefici della propria forma, del proprio destino lì tracciato come contorno fluido e circolare,  volgendo su se stessa ondulatorio e mai lineare. 

La sua traccia multipla di colore si rende capace di creare, costruire e trasformare i contorni della propria interna emergenza. 
I risvolti interni e esterni della medesima sono qui intervalli, alternanze tra blu e giallo dove una pseudo-figura riconoscibile appare casualmente dallo svuotarsi della materia del blu o per lo scavarsi del giallo in contorsioni fluide e luminose. 









[1] Cfr, Gillo Dorfles, Ieri e Oggi, a cura di Luigi Sansone


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