giovedì 23 dicembre 2010

Note improvvisate ( da "I visi e i corpi" di Patrice Chereau )





Jon Fosse “ è quello che la gente chiama immagine, qualcosa di imperfetto senza dubbio, ma lì per dire altro da quello che ci si aspetta di vedere, di sentire”




Patrice Chereau: “Il potere delle parole, d'una costruzione, d'una musica segreta, la tessitura di quello che faccio, parole che aprono verso qualcosa, altra cosa. Rivenire a quello che ha ispirato un testo, analizzarlo, decorticarlo, lasciandomi inventare, provocare l'immaginario. Parole che aprono porte, sono come gesti che raccontano movimenti, sono come musica. Tutto è musica, quello che si dà a vedere e a sentire, i corpi sono musica, i silenzi ancora di più.”

E' strano come ritorni questo bisogno di lavorare attraverso letture e note provvisorie, nate sull’impulso di un momento, là dove ti porta la contingenza della parola d'altri, ultima parola risuonante sull'orlo delle labbra, d'una frase letta o riletta appena, restando lì nella mente, fuori dal contesto , l'ultima parola del piacere e del dolore fusi, confusi insieme,
leggera, inquietante inquietudine di non sapere, non sapere dove ti porterà, voglia d'essere e di non essere insieme, esattamente come prima, il caffè nero, liquido, bollente ha sostituito il resto.


Nervi tesi, ansietà, sforzo, apprensione per trattenere questo guizzo di vuoto che s'apre nella mente e conduce altrove, nascosti in luoghi anonimi, caffè o sale dove ci si insinua quasi si fosse costretti, controvoglia, volendo e non volendo insieme, ore rubate alla scrittura, quasi chiudendo scusa, far risuonare la tua parola come fosse altra in mezzo a voci che non sanno nulla, non comprendono nulla d'essa, percepiscono solo la sonorità d'una lingua a un primo approccio estranea, opaca, insignificante o non volendo significare fino a lasciarsi accarezzare, a poco a poco inseguire, scivolare in stretti passaggi segreti, riemergere in questa estraneità, la voce della scrittura, nei luoghi dove vuole perdersi, dimenticarsi.

“Essere permeabili, permeabili a tutto, a quello che fa che siamo qui ora in questo momento e non prima, non altrove, dirsi che si è cambiati per meglio guardare ciò che si é oggi.” E poi questa cosa che ritorna dalla notte dei tempi, che non si può impedirsi di rifare, rifarla altrimenti poiché altri l'hanno già vista, attraversata magnificamente, mille e mille volte ancora.

“ Nella sua logica assoluta, incommensurabile, esige che la si segua, c'è che la vita qualche volta è bella, molto bella anche quando si pensa che tutto è male, tutto è dissoluzione, c'è che guardo la gente, i loro movimenti e tutto può dirsi, darsi, mettersi in scena”, la gente che passa e quelli che aspettano il metro, quelli che appaiono un po' a parte, décalés, gli strani, i matti, quelli che compiono gesti bizzarri, selvaggi, o nobili, quelli che si lamentano, si compiangono, o chiedono soldi sui metro, quelli che bevono e crollano a terra ubriachi, quelli che urlano contro dio, il mondo, i padri e prendono a calci le barriere d'acciaio agli ingressi delle stazioni fino a curvarle;
e la ribellione, l'euforia, l'alcol degli studenti di notte il sabato, tutto è pretesto d'osservazione, guardo tutto e amo la gente che fa cose, si dimena, si dibatte, agisce di fronte a me nella contingenza dell'istante. Guardare quello che accade, tentare di aprire gli occhi almeno.
"I corpi sono belli, almeno come si muovono nello spazio”, confrontati al mio, ora sospeso, immobile, in osservazione obbligata, in questo lasso di tempo costretto a fermarsi,
prendere le distanze e aspettare, recuperare lo spazio nelle suture del corpo, il tempo in un ritorno alla normalità.

Eppure strano d'essere qui, leggeri e senza ali, senza preoccupazioni nell’esilio del corpo, solo l' essere qui, per sentire la massa greve, opprimente che tormentava, pesava sul capo prima, intorno alla figura lasciata laggiù, felici solo per sentirsi leggeri ma con nulla da fare, nessun piano preciso, progetti aberranti,disegnandosi inverosimili, eventuali in un futuro ipotetico, incerto, forse realizzabile, ora nella mente in questa quiete,
atemporale sospensione del presente.


P. Chereau “Dettagliare le mie sensazioni, volgere intorno a qualcosa di totalmente autobiografico che non saprei scrivere altrimenti, neppure qui. E, da tutto quello che ho rubato, e accumulato, costituisco il mio museo personale. Sono qualcuno che sottrae, nasconde e ricicla. Non sarebbe questa, forse, la messa in scena?” Si prende e si ruba, si mischiano i pezzi dell'uno e dell'altro, letti, immaginati, proiettati, riscritti identici eppure divenendo altro, ogni volta riguardati da altri punti di vista. Esiste questa voracità di vita, appetito verso ogni cosa che vedi, assorbi,
divori dall'esterno, le sculture, le parole, le immagini, i quadri o il movimento stesso delle tue emozioni.

“La violenza delle lotte”: mi riconosco in uno strano miscuglio di inerzia o l’indolenza profonda e d’energia folle, nervosa, precipitata. C’è una sorta d’astenia nel corpo, di stasi pre-annunciata, ciclica, ripetitiva corrispondente al torpore dei sensi, alla velleità di progetti o proiezioni nebbiose, fluttuanti nella mente, ai liquidi vischiosi, caldi, placanti che scorrono attraverso le vene e ricoprono l’organismo fino a sedarlo ad assecondarne la quiete. Poi ci sono questi slanci impulsivi, energetici, che si riversano nell’azione, frenesia del fare, del voler possedere, plasmare, investire la materia sensuale de mondo, la sua linfa oscura di vita, nel volerla ricondurre alla mia presenza, renderla leggibile nelle mie azioni come il senso del caos che mi sovrasta, mi abita.



Obbedire a dei riti obbligati, ogni mattino, una preparazione rituale, lavare via le scorie del giorno prima, purificare, lavare, asciugare.
Respirare e risvegliare il corpo, inspirare la potenza del soffio vitale attraverso di voi, attraverso tutti i tessuti, gli organi, i liquidi corporei, le molecole della pelle, indurre la morbidezza, la flessibilità degli arti, dei muscoli, espirare il soffocamento, la ritenzione, l'oppressione.
“Obbedire a dei riti obbligati, guardare quello che presenta, spazzare via ogni certezza”:
la pesantezza d'un corpo vivendo in uno spazio chiuso, la traspirazione del suo essere nei suoi movimenti, la sua vera traspirazione come lo sforzo dei suoi muscoli ossa e tendini.
Il sudore, il battito, il soffocamento del suo petto, l'occlusione nella sua mente, le lacrime che non scorrono dai suoi occhi.

( Chereau) “Corpi che d’avanti a voi spazzano via ogni determinazione in un solo gesto di trasalimento, tremore, densità di pelle, quello di cui eravate sicuri un minuto prima. Incominciare altro da quello che si era pensato, essere là pronti a ricevere ciò che accade, quando avrà luogo e soprattutto, mettersi al lavoro prima di sapere cosa si farà, come lo si farà”.

“Dire come si pratica questa forma di scrittura effimera” nata da frammenti, a metà non-riflessa o irriflessiva partita dalla voce d’altri che in alcuni casi può divenire una vera scrittura,
le parole “caos e voracità”, “persecuzione”, strano eco nella mia mente,
la fragilità degli esseri che scorgo, travestita, celata sotto i loro meccanismi a ripetizione quotidiana,
il vuoto spinto dove sono serrati senza sapere, il passo falso non così falso,
la sensazione vaga, persistente, indescrivibile di mancanza.
Questo caos, banalità o non-senso che devo riorganizzare, determinare, investire nelle mie azioni;
la presenza d’una violenza che affascina a scrutarla,
vederla agire sugli altri, percuotente in chi la riceve, qualche volta spaventosa, angosciante.

mercoledì 22 dicembre 2010

"I visi e i corpi", museo del Louvre, Patrice Chereau






































“Presto, oggi, domani, al cuore stesso del Louvre, nella grande hall dipinta in rosso, con i quadri sommersi nell'oscurità”, le figure dei passanti, dei visitatori casuali si disegneranno proiettati come silhouette impersonali contro le immense finestre o sulle superfici riflettenti delle grandi tele, neoclassiche o barocche, comparendo in concomitanza ai loro soggetti , mentre questi retrocedono dileguando come semplice sfondo.
In questo spazio che s'apre in profondità le sale, le scalinate, gli ampi antri in marmo bianco costellati di statue e capitelli, si offrono come una scenografia vivente, antica e maestosa, solitaria e abitata da una sobria eleganza.
Scintillante, lucido il marmo lascia correre lo sguardo al suolo da un salone all’altro,
bruno, rossiccio, dalle inflessioni ramate ora cupe: materiale nobile, freddo, riflettente nell’immobilità della morte.
Le voci risuonano, prendono eco, potenza, rilievo in questi saloni immensi, vuoti, perduti nella penombra della sera. Le finestre rinviano alla scenografia naturale dei giardini esterni dell'antica dimora regale.
Sentieri ghiaiosi simmetrici, perfettamente tracciati si alternano a una geometria di forme euclidee, triangolari, irrorate d'acqua aprendosi verso l'alto a contatto con il cielo plumbeo della capitale, aprendosi ancora in profondità nell' architettura ugualmente trasparente della piramide: cristallo rifrangente dove la pesantezza della pietra, la sontuosità della costruzione classica si infrange e decompone contro le multiple sfaccettature della grande eclissi.








































L'allestimento al Louvre di Patrice Chereau “ Dei visi e dei corpi”, é un modo singolare di raccontare il mondo fuori dall'immobilità atemporale di un museo attraverso uno "sguardo desiderante", il suo ma anche il nostro, quello che lo fa amare, sorprendere, cogliere un viso, un ritratto, una figura fuori dal suo contesto storico come fosse la prima volta che venga rappresentata, portatrice d'una freschezza nuova oltre l'intenzione di chi l' ha dipinta e al di la' della sua diacronia storica: “Corpi desideranti in movimento, spazi vuoti e trasfigurati, parole scritte".
"Poter abitare questo spazio fino a farlo tornare vivente”. Si tratta per Chereau in qualche modo di voler legare pittura e fotografia, le opere più diverse, più distanti temporalmente e stilisticamente assimilabili sulla base di corrispondenze poetiche: “corrispondenze segrete che le sono proprie, liberate dalle costrizioni della cronologia, della classificazione per scuole e generi”.

Corrispondenze poetiche: gli studi sul viso o sul corpo, sul dettaglio, in senso fotografico per i visi implicitamente stabiliscono una serie di rinvii tra le immagini, giustapposizioni forzate o contrasti stridenti, al limite completamenti paradossali tra le figure. Come se un'immagine dipinta o fotografica ne nascondesse o suggerisse un'altra non visibile, in-poetica, virtuale, una sorta di retro-testo o pittura di fondo, una sorta di esterno della cornice, che esce dal quadro, e in qualche modo virtualmente completa l' immagine reale, l'altra totalmente illegittima, necessariamente contraria alla prima.



Francesco del Caro, “San Sebastiano”/ Nan Goldin, “David in bed”
Da un lato la fotografia, una stanza d'hotel, la luce elettrica, fioca d'una lampada contro il chiarore mattinale. La massa nebbiosa della figura é messa a distanza, volutamente confusa nel disordine circostante, nel disfacimento della camera, della coltre di fumo, delle coperte. Un uomo é ripreso con effetto flou, quasi non consapevole della presenza della macchina fotografica, fumando disteso sul letto, semi-nudo.
Dall'altro lato, un dipinto del XVII secolo, il corpo di un giovane santo dalla bellezza ieratica è illuminato, in primissimo piano, da una fonte di luce diretta sul suo torso, sofferente e come colto in una sorte di rapimento estatico o grazia divina discendente su di lui mentre un altro personaggio, molto più vecchio, in retroscena, Irene, si avvicina per curargli scrupolosamente le ferite.
Messa a fuoco diretta, plasticità assoluta nella figura del santo, sensualità che trapela nello sguardo della donna velata dal contesto religioso, rapimento estatico-sensuale.

Allo stesso modo, il ritratto di Aline Chasseriau del 1835 viene messo in dialogo con un'altra fotografia di Nan Goldin: da un lato l'esasperazione, il rigore, l'austerità del puritanesimo borghese della fine XIX secolo, dall’ altro il modello vivente, la sensualità di questo corpo che s'offre nudo e sommerso d'acqua, in una vasca da bagno, al più grande voyeurismo dello spettatore. Sulla tela, è il pallore d'un volto asettico, privo d'ogni indice di sensualità manifesta, l'abito nero abbottonato fino al collo contornato da trine bianche, il fazzoletto alla mano intriso di profumo. Il costume serra la figura femminile, l'imprigiona, impedisce questo corpo dentro la forzatura d'un codice “vesti-mentale” immutabile, storicamente determinato, implicitamente censurante per il soggetto. Paradossalmente, quello che é cancellato, rimosso nella prima immagine ritorna manifesto, vivificato, esploso nella seconda, in questa corrispondenza o messa in relazione forzata tra le due: sensualità e esasperazione di presenza nella fotografia di Goldin, sguardo frontale all'obbiettivo, illuminato, richiamato nell'attrazione del suo darsi, mettersi a nudo letteralmente di fronte a noi, il corpo sollevandosi di profilo dall'acqua.

Nello stesso allestimento, al Louvre, troviamo le anatomie frammentate di Gericault, studi su singole parti di corpo, arti, braccia o piedi estratti dai suoi lavori preparatori per le grandi opere successive, studio anatomico con dorso messe in evidenza per La Zattera della Medusa, ritratti di vecchi come l'autoritratto del Tintoretto, di folli come la vecchia monomane di Gericault; volti deformati in modo espressionista provenienti dalla tradizione classica come i ritratti di Luca Giordano o quello completamente defigurato di Michel Leiris, dipinto da Bacon, vicino a ritratti di diverse epoche figuranti nel pieno canone stilistico della classicità.

Far uscire le opere dalla museificazione che, ancora, le imprigiona in una sorta di bellezza statica, immutabile, ideale; cercare l'anti-classico nel pieno classicismo, opporre l'anti-estetica della de- figurazione, della frammentazione, o semplicemente lo spazio d'una singolarità non riconducibile a un codice estetico unificante al modello d'una bellezza astratta. Far ricomparire, tirannica, presente, universale la vita nella giustapposizione d' opere e fotografie tra passato e presente. Cercare in questa “ferita aperto del nostro tempo” , nella sua minaccia permanente e sottile di distruzione, lottando per ritrovare ancora, “ non fosse che il tempo d’un istante, un piccolo istante, un vero ansito di bellezza”.

P. Chereau : “La vita, la passione folle e il desiderio si scontrano contro l'irruzione oscena della morte, di generazioni che si estinguono e scompaiono, la morte che vorrebbe riprendersi tutti i diritti e finire per avere la meglio”. Le sale vuote del museo dove i corpi sono impediti e si scontrano tuttavia, sbattono contro i muri, si dibattono e lottano invano, la morte di un’ intera generazione. E in questo campo di battaglia le ombre del desiderio e dell'immobilità si ritrovano,
si fronteggiano in un faccia a faccia mortale, in uno scontro violento quanto invisibile” .

“ Il pericolo, il vero pericolo é quando il tempo non é più sospeso ma arrestato, quando il gesto non é più in divenire ma fissato, quando la morte ha definitivamente spento ogni speranza di sussulto.
I visi e i corpi muoiono veramente solo quando hanno rinunciato a trasformarsi”.

lunedì 6 dicembre 2010

Note dallo spettacolo "Nuda Vita" (di Caterina e Carlotta Sagna)



"Chi escludiamo, che cosa escludiamo da noi stessi , quale parte di noi, da che cosa ci escludiamo ? "
C’è nulla di più esclusivo dell’essere totalmente esclusi? Esclusione, quella che si vive, si nutre, si sperimenta o si auto-genera, si subisce o si provoca, si accetta o si rifiuta..





Corpi-marionette, manichini, clown o fantocci di sé, personaggi dell’assurdo, del non-senso beckettiano, dalla percezione tragica e insieme derisoria dell’esistenza sono, come in “Godot”, eternamente sospesi in attesa di non si sa che cosa, nell’annuncio che, sì, arriverà domani ma non oggi, domani forse, nell’attesa occupandosi, cercando delle distrazioni, parole, soprattutto parole, perduta la nozione esatta del tempo e dello spazio. Poi, a tratti, freneticamente scossi da questi va e vieni di proiezioni impulsive, compulsive, espulse all’esterno come emergenze, incursioni della memoria o d’una presunta ricreazione della medesima, fantomatica, fittizia o arbitraria.

L’esclusione è, in un certo senso in Nuda vita, (tale l'espressione giuridica che designava gli schiavi in epoca romana ) la de-possessione dei personaggi, la cecità, il non-accesso a una parte della loro coscienza, alterità radicale del sé, energia o violenza della parte "maledetta” che siamo meno atti a riconoscere in quanto umani: tentacolare e ossessiva,
irriducibile, indicibile o segreta, distruttiva o auto-distruttiva, agente come pulsione di disgregazione, di dissolvimento o di inerzia, quella che opera nel dis-facimento dei sistemi,
nel superamento della logica di causa-effetto, nell’eccesso, nel paradosso, nell’irruzione dell’inumano su una soggettività del tutto umana .
“ Tutto è talmente fluido che ci si domanda che cosa puzzi tanto dietro questa socialità o amabilità di superficie, e se quelli che parlano e danzano percepiscano questo odore di marciume, o se esso sia talmente intrinseco in loro, nella loro natura che possono danzarci sopra senza riconoscerlo, senza rendersene conto. Come queste immondizie, scorie o lasciti che ci trasciniamo addosso, la parte immonda, malsana del sé della quale bisogna pure sbarazzarsi, liberarsi in qualche modo, da qualche parte, espellere come i propri rifiuti ogni giorno.

L’esclusione è quella da una parte di pensiero, selvaggio, delirante o estraneo, che portiamo in noi, schiavi di un’educazione, un’etica, una morale religiosa, d’ un contesto sociale che plasma le nostre vite allineandole su una stessa linea di pensiero: griglie mentali, strutture comportamentali oscillanti tra una presunta innocenza e una sottile, sottocutanea, perversa crudeltà. Un personaggio afferma di doversi muovere, freneticamente, senza ragione, senza sosta muoversi, poi cerca l’uscita da quel luogo asettico, senza tempo , the exit, la via d’uscita, preso da questi movimenti frenetici, continui, non-riflessi di scosse, ansiti, gesti frammentari, imprigionato sembra, un braccio a terra immobilizzato dal peso dell’’altro, trascinandosi al suolo con la forza del solo bacino, una gamba spingendo l’altra anestetizzata, i piedi inerti, privi di vita.

Circolo chiuso di inclusione-escusione, loro esclusi dal resto del mondo in uno spazio intimo di amici, complici o membri d’una stessa famiglia; vicinanza dei corpi che si chiudono a quattro, si ritrovano al centro della scena intorno a un riquadro luminoso, elettrico su fondo neutro. Sono in contatto, si avvicinano, si toccano, compiono gesti bizzarri, rituali o ritornelli ripetitivi, ossessivi, seriali, preda di piccole manie o nevrosi quotidiane. Compiono spostamenti nello spazio , si isolano, poi ritornano a chiudersi in circolo, in dialogo, in eco prolungato senza risposta. Si cercano e poi si allontanano, qualcuno scivola sul corpo d’un altro poi si lascia cadere a terra, spinto, sospinto da un calcio, fatto rotolare al suolo sullo sfondo d’una risata.
Conversazioni fatte di parole vuote o marginali girano in maniera delirante dal singolo al gruppo, si fanno eco in battute e contro-battute, in dialoghi e poi continuano in monologhi solitari, senza risposta.

Chiusi in uno spazio neutro, non-luogo, non-tempo, non determinato, esclusi dal mondo esterno, ora escludendosi l’un l’altro, esclusi da una parte di loro stessi, qualcosa di crudele, mostruoso perché restando fluttuante, inaccessibile, non determinato alla loro coscienza.
Espropriazione, sottrazione di identità, di proprietà, di diritto sul proprio corpo o vita, nuda vita, emerge in frammenti, residui del singolo, ritorna riflessa nella parodia del dialogo.

La danza irrompe a tratti come “la cosa più normale nella situazione più anormale del mondo o forse il contrario”; in una situazione banale, d’una banalità normalmente orribile, un piccolo imprevisto tra gli altri, “il modo più naturale di dire delle cose o forse di non dirle". Il passaggio all’atto, espellere qualcosa nei tratti del proprio viso, del proprio corpo senza dovergli dare forzatamente un senso. E’ l’imprevisto che irrompe inatteso, non voluto, non cercato, quasi un momento di intervallo rispetto alle parole, troppe, sorde, risuonanti come pezzi di metallo vuote all’interno , per rompere la soglia del non-senso opprimente.
La ricerca d’un momento-movimento autentico, più toccante, più giusto, un gesto che apra verso l’alterità, proiettivo, estemporaneo, dunque rompendo il meccanismo d’esclusione auto-referenziale dominante.
E’ come il passaggio a un altro livello, un altro registro scenico, come essere là e darsi, dirsi restando implicitamente opachi, riflettenti in sé stessi. E’ lo spasimo d’un corpo femminile, quello di maggiore presenza scenica tra i quattro, dal movimento scarno, ripetitivo, frammentario passando dall’agonia , all’ansia di rottura, allo sforzo di liberazione, di riappropriazione . In lotta affermando il bisogno di muoversi, inesausto, ossessivo, fine a sé stesso, maschera dal viso deformato, manichino nella secchezza del corpo, infine in agonia, alla ricerca d’una via d’uscita, ripetendo “where is the exit” nella contrazione toccante dei suoi gesti, tentativi ripetuti per uscire.

sabato 27 novembre 2010

Arman (II), l 'oggetto tra distruzione e creazione












La collera viene dai visceri, è l’impulso degenerativo, distruttivo, violento, è la rabbia incontrollata, è il meccanismo a pressione che sale in corpo. E’ un movimento caldo, feroce, rabbioso che esplode in modo improvviso, inatteso, come tutti i movimenti delle passioni - amore, odio, collera- potenti, irrazionali, imprevedibili in una sorta di furore sacro, partecipante del dionisiaco. C’è anche l’ebbrezza, l’esaltazione del gesto liberatorio, il furore cieco, quello dell’eccesso, della libido, dei fluidi che salgono in corpo, scorrono, amplificano provocando una stato di disequilibrio, lo scompenso tangibile degli umori, 


un esubero d’energia necessitante consumo in 
qualche modo. Poi, c’è la collera come la follia irrazionale dell’infanzia, quella che esplode in un culmine di eccitazione, grida e singhiozzi; si manifesta e si consuma in sé come una deflagrazione, un impeto improvviso, a volte semplicemente esplodendo nel gioco, in uno scoppio frenetico di risa, oppure in una serie cantilene, salti, o parole disconnesse. Esaltazione, isterismo, fuoco di parole che volano da tutte le parti, fino ad esaurirsi , riassorbirsi rapido, inatteso come era cominciato. 


L’artista usa questi impulsi primordiali in varie performance filmate, per esempio il gesto di fare a pezzi un contrabbasso al suolo (NBC Rage, 1961), oppure in Conscious vandalism (1975) l’atto di devastare letteralmente l’interno d’un appartamento borghese propriamente ricostruito. “Credo che nell’azione della distruzione ci sia una volontà d’arrestare il tempo, di sospendere gli avvenimenti incollandoli, bloccandoli insieme nel poliestere. Quanto rompo un oggetto faccio in modo che i pezzi cadano in uno spazio dato, precedentemente delimitato. Quando brucio qualcosa arresto la combustione prima del suo consumarsi. Non é mai un atto di distruzione totale ma ciò che mi permette di conservarla, là dove mostro la catastrofe. ” L’azione dei colpi, delle collere porta in sé l’impulso degenerativo e, insieme, quello di fissare l’avvenimento “al culmine della catarsi” permettendo in questo modo all’azione-opera di rappresentarlo, di renderlo manifesto. L’ impulso primordiale, il gesto o lo slancio rabbioso, l’irruzione incontrollata, la necessità pulsionale e annientatrice contro la materia viene sublimata, infine, attraverso una gestuale artistica codificata nell’azione-performance, in Arman suggerita dalle arti marziali.




Il colpo é movimento freddo, controllato, razionale che sembra partire dall’analitica cubista della scomposizione dell’oggetto nello spazio, la proiezione all’esterno in un gesto esatto, efficace, essenziale, nato da una concentrazione massimale d’ energia. Lo sforzo é quello di decomporre l’assetto finito d’un oggetto-forma_ gesto musicale, perlopiù applicato ad archi, violino e violoncello_ gesto iconoclasta al limite, ma controllato, soppesato fino a parcellizzare la forma in sezioni che sono state precedentemente definite. Applicato alla musica, all’impulso ritmico e insieme al lavoro di scrittura musicale, la decostruzione plastica dell’oggetto rovescia il valore melodico della composizione . Nei Colpi esiste ancora una forma riconoscibile, razionalmente scomposta, l’anti-forma e l’oggetto messi in primo piano. Dare la cosa nella sua versione de-costruita, la struttura percorsa da un movimento contrario di smantellamento, l’oggetto rivoltato, rifatto a ritroso, ri-attraversato da un moto contrario simile a quello del partire, cambiare direzione, divenire altro sul percorso, rivenire per altra via, essere là, ancora, differentemente.

Dopo il passaggio del tempo e delle tempeste recuperiamo i relitti fluttuanti alla superficie della memoria allo stesso modo che i pezzetti sommersi delle nostre emozioni. Ammassiamo gli oggetti rigettati dal mare. Il tempo distrugge, altera. Accettiamo queste distruzioni, alterazioni del tempo e della materia, li integriamo al nostro sistema di valori estetici preferendo qualche volta gli oggetti tali che si presentano oggi a quello che erano un tempo”.



Ecole de Nice, video-performance, (1966)
Un pianoforte è messo a fuoco in una cerimonia simbolica altamente sacrificale di fronte a un gruppo di convitati, testimoni all’evento. Le fiamme divorano a poco a poco il suo involucro esterno, alcol e petrolio alla mano gettati sul legno. D’un sol colpo, l’incendio esplode in un improvviso bagliore; combustione di materia luminosa, un falò brucia incandescente nella notte, in piena oscurità. Più tardi, i detriti ancora fumanti saranno ricoperti d’una spessa patina di plastica, liquida e opaca, fino a fissarsi in uno stato non più di frammenti ma di lavoro finito.




Combustione di violoncello su pannello e resina.(1964)

Qui il giallo smaltato, ocra e brillante, percorso da aloni e chiazze slavate simili a cera che fonde al calore, domina rinviando agli immateriali in oro di Klein. Tutto è portato alla superficie in un processo di sublimazione estrema dell’impulso distruttivo, nella sua “estetizzazione” anche. Il ricorso alla resina poliestere per fissare i detriti trasforma i residui d’oggetti in potenziali “archeologie del futuro”. Distruggere e creare si legano in un gioco di forze tensive, oppositive, in un rapporto antinomico, che, tuttavia, in ragione di tale paradosso, libera l’oggetto spingendolo oltre le strutture usuali del senso e della storia. L’oggetto rotto, tagliato, deformato, residuale o recuperato come scoria, fatto a pezzi o bruciato nelle combustioni, ritorna, qui, ricoperto d’una patina di poliestere, acrilico o resina nell’urgenza d’una nuova iscrizione estetica, nella trasmutazione alchemica della sua materia. Una sorta di alchimia si manifesta in questo momento preciso e non un altro, come l’atto conclusivo d’un processo che è stato attraversato nelle sue varie fasi, plastiche o strati genealogici, fino a chiudersi in circolo in questo punto.


La sedia d’Ulisse (1965) Una poltrona in stile Luigi XV viene bruciata in cima a una catasta di rifiuti nel corso d’una combustione-performance pubblica. Allo stadio limite, quando solo le vestigia dell’oggetto, la struttura in bronzo si rende ancora riconoscibile, essa acquisisce una nuova, preziosa liminalità. Stato di soglia, limine, metamorfosi, lo scheletro in bronzo restando difficilmente in equilibrio sulle tre gambe si veste d’uno smalto lucido, delicato, in un passaggio alchemico verso una nuova genealogia plastica. L’oggetto distrutto è sottoposto a una combustione che lo decostruisce, lo altera e insieme lo conserva , lo mostra e lo fa durare differentemente.


Lista visuali Arman, I parte e II parte

1 Frozen civilization I, 1962
2 Chopin’ Waterloo, 1962
3 Home sweet home, 1960
4 La collera sale, 1961
5 Portrait-robot d’Iris, 1960
6 Frozen Civilization 2, 1972
7 Collera di violino, 1962

8 Collera bruciata, 1972
9 NBC rabbia, 1965






Arman ( I), Retrospettiva, Centro Pompidou, Parigi


Il “dechet” in Arman è il resto, il residuo, il lascito, l’anti-forma per eccellenza, l’inutilizzato delle nostre società attuali, lo stadio ultimo della materia presa nella sua fase liminale di decomposizione organica. E’, ancora, quello che nel sistema industriale si pone come sur-plus, esubero, prodotto in eccesso che satura il ciclo di produzione nell’impossibilità d’uno smaltimento. Il meccanismo gira a velocità incontrollata, genera energia in eccesso, prolifera di un sovrappiù di materia che non riesce ad essere consumata, riassorbita, rimessa in circolo riemergendo in escrescenze nefaste, potenzialmente pericolose, tali le cellule cancerogene, malate d’un corpo sano attaccando l’organismo in una de-compensazione lenta e inarrestabile fino a toccare il suo punto di crisi, di non-ritorno.




Il dechet è dunque il residuo della società borghese, l’oggetto in quanto rigetto, non riparabile, usato, consumato e esecrato, implicitamente legato al processo di rimozione, d’eliminazione dello stesso insito nella sua obbligata liquidazione.
La prima azione che si lega a questa massa di detriti organici, animali o minerali in Arman è quello del pieno, del riempimento fino al culmine, dell’ammasso, del recupero d’oggetti in teche di vetro o in plexiglass. La decomposizione della materia nelle serie Spazzature/Accumulazioni è arrestata, colta nel processo che la disorganizza, la de-crea, la de-costruisce nel senso d’una distruzione ma anche in quello che va al contrario d’essa in una sorta di rovesciamento, svolta della medesima. Ricomporre é arrestare la distruzione, fissarla in una scatola trasparente dietro la quale l’oggetto non appare più anonimo, passivo, residuo inoffensivo del meccanismo di produzione ma diventa opaco, impermeabile, refrattario allo sguardo. Diventa “la massa critica dell’oggetto” nell’espressione di Baudrillard , il cui valore plastico è re-investito, recuperato dal livello basso, nel suo isolamento in uno spazio delimitato, nel suo spostamento metaforico, moltiplicazione metonimica e riappropriazione estetica.




























La grande abbuffata, (1970)

La massa indistinta di materia in decomposizione allo stato organico come fluttuasse in un liquido gelatinoso si ricompone in una sorta di quadro multiforme, colorato, astratto dove si stagliano ancora dalla gelatina indistinta alcune figure e superfici: carte, cartacce, scatole, “bottiglie, molte bottiglie di diverse forme e dimensioni in plastica o in vetro, con scritte impresse in colori vivi, violenti sopra, molta plastica, molti imballaggi”. Involucri d’oggetti che divengono oggetti in sé, molte scatole di conserva, molte cose che, utilizzate per un certo tempo sono gettate perché considerate desuete come, in altre teche, scarpe, collant, foulard, stralci d’abiti, sigarette, profumi. Un collage opaco nella massa liquida, gelatinosa, tendente all’informe , stranamente colorato in chiazze bianche, argentee, verdi o arancio, diversificato in materiali, dalla plastica al vetro, dalla carta all’alluminio. L’odore, il tatto, la saturazione sensoriale prodotta dal riempimento sono messi a distanza attraverso un collante in resina poliestere che blocca il processo di decomposizione e trasforma una materia bassa, ignobile, immonda, immond-izia, in una sorta di smalto brillante, fluttuante à plat sulla superficie. Le forme, nella loro corsa verso l’informe, sono imprigionate, messe in rilievo contro il vetro trasparente, arrestate e, contemporaneamente, messe a distanza rispetto alla loro massa organica in uno sforzo d’astrazione.


Accumulazioni








“Nella ricerca del nuovo, ricerca resa necessaria dalla carenza e dall’ esaurimento della pittura edonista e di quella gestuale d’oggi ho in modo cosciente esplorato il settore dei detriti, dei resti, degli oggetti industriali rigettati, in una parola dell’inutilizzato.” Presso Schwitters più importante del materiale é la possibilità insita nel valore plastico dei frammenti, vale a dire il caso della loro congiunzione. Affermo che l’espressione dei detriti, degli oggetti possiede, invece, un valore in sé, senza volontà d’un atto estetico che li obliteri, li ricopra o li mascheri nei valori d’una tela. Introduco, così, il senso d’un gesto radicale senza remissione né rimorsi. Tra gli inutilizzati, un modo d’espressione che attira particolarmente la mia attenzione è l’accumulazione, vale a dire, moltiplicare e fissare in un volume complessivo corrispondente alla forma, al numero e alla dimensione l’oggetto industriale nella sua ripetizione.
“Non si tratta di decontestualizzare l’oggetto dal suo sostrato utilitario ma, al contrario, di ri- contestualizzarlo su una superficie resa permeabile, densa, porosa dalla sua reduplicata presenza.”

Il lato ossessivo, ripetitivo, narcisistico, al limite autoreferenziale della cosa nella proliferazione della medesima fa pensare a una granulazione di punti luminosi in una costellazione celeste, apparentemente identici l’uno all’altro se guardati a distanza, rifrazione luminosa d’ una molteplicità d’astri se visti al microscopio, sotto lente di ingrandimento. L’esperienza della percezione si rende fluida, sfacettata, molteplice nell’atto della ripetizione, investita di diversi livelli temporali e soglie spaziali attraverso la variante della durata.

Ammasso, detrito, abbondanza, profusione


“Il tempo non esiste, la memoria solo lo crea”. Frazionare il suo continum rapportandosi a un tempo misurato e relativo, l’ora degli orologi, dei pendoli, dei cronometri, delle sveglie, dei fusi orari, è semplicemente una convenzione. “In questa accumulazione di piccoli universi, di galassie prossime che considero con l’occhio del bambino e della memoria, al di là della contingenza dell’oggetto ritrovo la vita, lo spazio e dunque, al di là del tempo, anche se non assoluto, il mio proprio tempo”. Le accumulazioni, all’origine sono quelle della memoria d’infanzia, le collezioni d’oggetti rari in famiglia, gli armadi, gli scaffali che riempiono la casa, l’universo composito e affascinante degli oggetti, dei mobili, dei suppellettili scoperti nel corso delle fiere e delle broccanti con il padre commerciante. Poi sono i libri, i dizionari, i fogli, le pagine, tutta la serie di letture che accompagnano la sua giovinezza.


Le accumulazioni sono quelle dei vecchi appartamenti, delle case stracolme d’oggetti , carte, cartoline, lettere, polvere depositata al fondo dei cassetti, cose dimenticate negli armadi,
gli ammassi di sopramobili, cianfrusaglie, i libri, le fotografie e tutto quello che circoscrive il nostro spazio personale, lo delimita, lo sancisce, lo rende non più anonimo ma abitato, singolare,
presente d’una presenza a noi stessi, testimone anche al crocevia dei nostri incontri, impresso del marchio della nostra esistenza.

“La nostra società nutre il proprio bisogno di sicurezza con l’istinto d’accumulazione”; bisogno d’assicurarsi, d’auto-garantirsi una profusione, un benessere, una saturazione materiale fino a toccare il gusto dell’eccesso, del consumo fine a sé stesso nel puro piacere, dell’ inutile spreco per il semplice bisogno di sentirsi cautelati, garantiti, preservati, auto-sufficienti nel proprio microcosmo autoreferenziale.
“Non ho trovato il principio d’accumulazione, è esso stesso che m’a trovato”, guardandosi intorno, lo si trova ovunque nella realtà. Le vetrine dei negozi ricreano cosmogonie in miniature d’oggetti di lusso o di beni di consumo. E ancora, negli scaffali stracolmi di cibo dei supermercati, nelle catene di distribuzione di massa, nella profusione di merci a basso costo, nella produzione seriale, nel sovra-peso dei corpi, nella ricchezza dei piatti, infine nelle pile di scorie, negli accumuli di residui, rifiuti difficilmente smaltibili che gravitano ai margini delle nostre società industriali.
Diventa anche la percezione inquietante nel nostro mondo, dell’invasione d’una massa di scorie tossiche, velenose, difficilmente liquidabili, potenzialmente distruttive come corpi estranei, nocivi gravitanti intorno alle nostre vite.

“Con le accumulazioni spero di tradurre anche le inquietudini sorte dalla riduzione degli spazi e delle superfici”, il restringimento dei nostri spazi vitali, abitabili, delle risorse prime che nutrono la terra, dell’acqua che beviamo, dell’ossigeno che respiriamo, nei lager moderni, l’invasione di ferro e cemento, le nostre secrezioni industriali, le scorie tossiche, radioattive seppellite al fondo degli oceani, potenzialmente tumorali, i fanghi, i liquami viscidi, oleosi che inquinano le nostre acque, i veleni e i rifiuti ordinari, i composti organici, le vernici tossiche, l’arsenico e il piombo.
“Vorrei arrestare la velocità, l’esplosione, la parcellizzazione, le particelle ricondotte al tempo, gli incidenti o gli accidenti dove il caso è sempre lo stesso e ancora una volta diversamente ripetuto






Le Accumulazioni in Arman
: l’oggetto preso nel processo di moltiplicazione può vestirsi d’un’aurea ironica, drammatica, parodica, opprimente o sovversiva; oppure essere semplicemente riassorbito, portato in rilievo dalla superficie. “Ho sempre preteso che gli oggetti si compongano da soli, per sé stessi. La mia composizione consiste a lasciarli comporsi… Il caso, nella misura in cui funziona su leggi universali, quella della quantità per esempio, non è più casuale ma diventa condizionabile. La mia materia prima di composizione.”

Home sweet home, è un’accumulazione asfittica di vecchie maschere d’ossigeno costruite in metallo, maschere-simulacro del viso con tubi di plastica e ferro gravitanti pesantemente verso il basso. Movimento discendente tendente all’entropia, ipostasi o ristagno di fluidi sanguinei e liquidi linfatici nell’organismo.

La collera sale misurata da un’accumulazione di manometri, strumenti ad alta pressione; lancette girano al contrario, sempre più velocemente, la temperatura interna al sistema sale. Pressione massimale, esplosione imminente. Misuratore di intensità: pressione interna, arteriale, venosa, ipertensione, ipersensibilità meccanismo lanciato a velocità folle, sconsiderata,
raggiunge un punto di non ritorno, e li’ s’arresta al culmine, prima di deflagrare, rovesciarsi come l’ultima goccia d’un vaso. E lì è arrestato su un supporto di legno e plexiglass.

Accumulazione di corni apocalittici d’avvertimento, ferri da stilo fusi e a metà re-incollati insieme in una massa plastica fredda, bombolette di insetticida per dissecare insetti,
bruciatori a gas, bunker, fornellini da laboratorio, orbite e contro-orbite,
toraci, braccia o arti di bambole in stracci, manichini, materie dure, pesanti in vetro, ferro e acciaio. Ruggine del ferro, lacerazione di stracci,
orbite tentacolari che si dis-orbitano, meccanismi che perdono le molle allentandosi dal centro, dis- funzionamenti di sistemi.

martedì 9 novembre 2010

André Kertész, Retrospettiva, galleria Jeu de Paume, Parigi










































(Martinique 1972)
(Nuotatore sott'acqua, Ungheria 1917)



Il fondale acquatico come matrice della terra s'apre in crepe irregolari sull' alveo bruno.
Il corpo è assimilato a una creatura marina, acefala,
mollusco, anfibio, o vertebrato d’acqua in un ritorno allo stadio primordiale realizzato attraverso l'immersione in questo fondale blu, oceanico, in movimento.
L'impressione è ancora più forte nella sovrapposizione del negativo originale su placca di vetro, nell’effetto indaco sul tiraggio argenteo.

Lo sdoppiamento utilizza il riflesso d'acqua attraverso il viso del fratello, completamente immerso tranne che nella testa.
Nel gioco di rispecchiamenti nati dall'illusione ottica, sé stesso é visto nel riflesso rovesciato dell'altro, sdoppiandosi in una figura gemellare, identica, volto a volto rovesciata dall'altra parte dell'acqua.
Alter-ego ripreso in auto-ritratto, visto dal basso verso l'alto: duplicità, complessità irriducibile dell'essere umano,
perenne ricerca dell'altro, insolubile, mai soddisfatta,
come l’eterna spirale del desiderio volgente su sé stessa, poi verso l' esterno
nella nostalgia d'una completezza perduta.


Jano appare come puro profilo in controluce: é figura d'ombra contro il riflesso della tenda solarizzata in una sorta di sospensione/ intermezzo metafisico.
E' visto in aria nell'atto di volare, satiro folle nell'incantamento della danza ,
nel sortilegio della parola.
Figura iconoclasta, Icaro si getta dall'alto, troppo vicino al carro solare, bruciandosi le ali, schiantatosi al suolo violentemente.

L'ungheria prima della guerra, scene di paesaggi rurali;
bambini gitani, piedi nudi sulla terra umida rivoltata di zolle.
Malvestiti, accovacciati contro il muro esterno d' un edificio,
la casa immersa nell'aridità della terra circostante, il paesaggio deserto intorno.
Campi, solchi sulla terra,
bambini laceri, piedi nudi.
Leggono seduti sul muretto esterno d'una casa nell’aridità della campagna circostante.

La polvere si solleva a fiotti,
avvolge, invade l'immagine nel pieno del movimento vorticante.

Circoli d'acciaio, infernali, sono impressi come ruote gigantesche di macchine al suolo, macchine per produrre bitume.
Gli uomini al lavoro. Nebbia del fumo, della polvere che si solleva a tratti;
ghiaia o strato sabbioso, invisibile in primo piano, avvolge come un manto incandescente l'immagine.

De-realizzazione: uomini come ritratti virtuali, dislocati, trasformati in riflessi l'uno dell'altro.












Dislocazione poetica prodotta dall' immagine come l'invenzione d'un altra scena.
Libera il reale dal principio di realtà “perduta”, estrania gli oggetti; si lascia produrre in una forma di “scrittura automatica”, impersonale, riflessa della sensualità del vivente.

Nelle vetrine manichini femminili appaiono come forme animate, plastiche, perturbanti allo sguardo.
Panni stesi divengono figure fantomatiche, bianche, svuotate di reale presenza fluttuando in sospensione dolorosa sui vicoli, tra i muri degli edifici.
Cavalli di legno dalle gambe rovesciate e manichini di donne a sovrastarli. Nell’illusione ottica la vetrina é re-inquadrata come una cartolina postale.

Una camera dimessa nello squallore di pareti scrostate dall’umidità. Una gamba di legno giace su una coperta di stracci laceri, in un letto sgangherato; numero tredici sulla parete frontale dell' hôtel.

Foto-ritratto d'epoca su fondo bianco di giovane donna dallo sguardo malinconico, distante, inavvicinabile.
Mani sfiorano cartelle o libri, dettagli di dita, mani femminili, affusolate.

Interni d'atelier, scorci di dimore d'artista, parlano dal luogo della loro assenza. Colgono squarci d’ individualità in un’accumulazione discontinua d’oggetti, in una serie aleatoria di dettagli  ritagliati e re-inquadrati insieme in tagli obliqui .
Parlano, di volta in volta, il linguaggio del geometrismo , dell’eclettismo poetico,
del costruttivismo, dell’astrazione o dell’epurazione modernista della figura.

Ritagliare e re-inquadrare per dare forma a uno spazio percettivo inedito.
Far retrocedere il corpo di fronte all’obbiettivo, qui Ejzenštejn ripreso a distanza,
su un tappeto che si dispiega verticale come una pellicola filmica, in una sequenza di inquadrature a ripetizione evocando la dialettica del montaggio russo.

Statue, sculture primitive in legno di  Zadkine divengono squarci di nature morte componendosi con bicchieri, bottiglie o lampade d’atelier.

Studio d'artista: un disegno é appeso e stracciato di figura.
Schizzi, scarabocchi a matita su una parete grezza.
 Vi sono bambole, cornici vuote appese , dondolanti da un chiodo sul muro;
vi sono teste di fantocci, manichini senza corpo di varie dimensioni accatastate sul tavolo di legno.
Vi sono scatole di colori, acquarelli, fogli e matite, gessetti spezzati, carboncini.
amalgama di pigmenti colorati.

Accumulazione: evocazione sensuale di materia, illusione di presenza.



Un uomo al lavoro vicino alla stazione S. Lazare é sorpreso a riposare mentre un manichino sospeso nel vuoto sopra di lui con una borsa da viaggio alla mano é come camminasse su un filo.
Funambolo scivolando via silenziosamente, dietro di lui, rimasto immobile, seduto a meditare.

Pecore bianche su fondo neutro, in primissimo piano. Si accovacciano, chiudendosi a crocchio fino a costituire un’unica forma composita, un cerchio per ripararsi dall’esterno, strette l’una all’altra.
Umanizzate, assumono una sembianza antropomorfa, occupano tutto lo spazio della foto con le loro schiene larghe, pasciute, il manto bianco, soffice di pelo in primo piano.

Un’ acrobata sospeso in aria, la testa rovesciata al posto dei piedi, il corpo in verticale assorbito in un complesso gioco d’equilibrismo su una scala composta da un montaggio di sedie verticali di fronte a un pubblico attento, sorpreso. Si lancia verso l’alto e, da una ringhiera sovrastante, una figura in controluce si sporge verso il basso in una sorta di sdoppiamento, continuità, complementarietà paradossale tra i due.

Tavolo di legno "a plat" in primo piano, una sedia, le rigature d' una panca.
Gioco di carte solitario.  Tutta l’attenzione é concentrata
sulle mani della bambina intenta a disporre meticolosamente le carte per ricomporre, nel silenzio del luogo, il senso perduto del gioco, l’immagine rubata.

Scena vista dall’alto scrutando il soggetto a sua insaputa.
Volto celato,immagine sottratta, destituita/restituita senza commento.
Forme geometriche a raso dell’obbiettivo, gioco di carte scoperto.
Illuminare le cose nella loro estraneità, sottrarle al senso comune, dematerializzarle, reinvestirle della loro aurea perduta.






Trasfigurazioni poetiche. I tetti di Parigi, sollevandosi verso l’alto, verticali nell’oscurità, aprono a un mondo parallelo, sopraelevato, disabitato sopra il livello usuale.

Scorcio di strade, square Jolivet di notte. Qui è la luce dei lampioni, irradiando dal centro sulla ghiaia, a creare anagrammi incomprensibili di segni, cerchi, spirali o giochi d’ombre,
simboli, sembra, provenienti dalla tradizione mistica o cabalistica.

Le sedie nei giardini del Lussemburgo contro la ringhiera e sullo sfondo dei cespugli si sdoppiano al suolo in figure strane, in forme incomprensibili, in geometrie di simboli aprendo al mondo segreto della percezione.

Le corde sono slegate, divincolate, lasciate cadere al suolo disordinatamente come una massa disfatta di fili rotolanti a terra in tutte le direzioni. Scivolano alla rinfusa, a ridosso della sabbia ,contro la balaustra che conduce dalla passerella al litorale.

Vari soggetti sono ripresi dall’alto in improbabili scorci a loro insaputa.

Il cercatore d’ombre, un profilo in controluce sul muro, una mano che scrive su un foglio,
l’ombra d’una ruota di bicicletta che traccia il selciato sabbioso; alberi contro una muraglia discendente a ridosso d’una scalinata.

L' ombra d'un piatto con forchetta impressa su vetro;
l'ombra del sé,  profilo contro la luce esterna, obbiettivo alla mano.

Si vede nell’atto di guardare la realtà, di renderla visibile come sé stesso in una trasposizione costante,
una realtà dislocata, svuotata di reali presenze ,
destituita di senso e resa per cesure,  lasciti o eccedenze.





E ancora sono segni, simboli, figure,
oggetti in reticoli di metafore visive,
volti di sconosciuti trasformati in improbabili personaggi d'una nuova scena, ironica, poetica o vitale.
Un mondo dove tutto è trasfigurato, costantemente ricondotto a un’altra visione per il potere insito nella scrittura riflessa, nel processo di estraniamento dell’immagine fotografica.

Se come volevano i surrealisti “la bellezza sarà convulsa, esplodente-fissa, magica e circostanziale o non sarà” la realtà apparente, visibile ed esteriore lentamente si piega, si staglia, si lascia ricomporre secondo le sue leggi interne, la sua matrice segreta.

Parigi di notte d’estate in prossimità d’un uragano.
 L' elettricità é visibile, a pelle, palpabile si staglia dal cielo sullo sfondo dell’immagine in linee elettriche irregolari, frastagliate, cariche d' energia cortocircuitando quella artificiale che illumina la torre d’acciaio.

Città fantasma, sognata, obliterata e inventata in segni, simboli, e presenze viventi.
Continua trasmutazione di materia fatta d'energia, d’ombra e di luce.
Perchè tutto è , infine, pura materia fotografica per Kertesz.

Fotografie di André Kertesz:
Una finestra sul viale Voltaire, 1928
Distorsioni 98, 1933
Un vetro rotto, 1929
Atelier Isamu Nogushi, 1945
Parigi di notte, 1927
New York, 1937
Distorsioni, 144
Tour Eiffel, 1933

Jean Baudrillard, "Perché l'illusione non s'oppone alla realtà", da FOTOGRAFIE 1985-1998, (Edizione Ostfilden 2000)


Jean Baudrillard: “La fotografia è il nostro esorcismo. La società primitiva aveva le sue maschere, quella borghese i suoi specchi, noi abbiamo le nostre immagini.”



“Il passaggio all’atto fotografico. Acting out: insieme azione, messa in scena, performance filmica. Si espelle, ci si sbarazza di qualcosa. La foto è essa stessa, nei suoi momenti felici, un “acting out “, un passaggio all’atto verso il mondo, un modo di coglierlo espellendolo e senza dovergli dare un senso.”





Ogni viso è già un passaggio all’atto. Si espelle la vita nei tratti del viso, del proprio corpo o della scrittura. Trovare l’atto fotografico ( o poetico) equivalente a questo “acting-out”, a questa espulsione dei tratti,
ben diversa dall’espressione psicologica, è l’operazione più delicata che esista”.



















"L'oggetto é per un certo tempo ancora il luogo vivente della sparizione del soggetto. Fotografare cambia il nostro paesaggio mentale », cioé quello che vediamo, che riusciamo a penetrare attraverso l'immagine supera l'orizzonte della nostra volontà di rappresentazione, non é atto di introspezione psicologica, né pura preoccupazione formale verso una presunta oggettività delle cose.
Il « divenire-immagine del mondo é un divenire a-morale », impersonale, discontinuo della visione fotografica; é un restituire quello che si impone come un’apertura inattesa ai sensi, quello che si dà malgrado sé come un’ insistenza percettiva, una metafora impersonale, senza soggetto,
caricata di linee di intensità, di forme riflesse nell'epurazione della luce o nel suo oscuramento .

« Il miracolo riflesso dell'atto fotografico », « scrittura automatica dell'evidenza del mondo»: linea di scissione, di frattura nel quadro della figurazione; tale l'evidenza perfetta d'un dettaglio, minuscolo, inutile, insensato, che pure puo' salvarci dal non-senso generalizzato, deludente della visione d’insieme.


L’immagine é catturata nell'immobilità di un momento fissato nel tempo e nello spazio;
una morte simbolica, annunciata della cosa in cambio della sua risorgenza fotografica.
L'oggetto scompare, il soggetto anche, eclissandosi dietro l'obbiettivo e in questa
« sparizione reciproca » dei due si opera la trasfusione, la metamorfosi dell'atto poetico.
L' immagine si dà come « un'evidenza pura, senza intercessione, concessioni, fioriture ».
Non parla di realtà ma di quello che resta indecifrabile, estraneo in ciascuno di noi,
il “folle genio della realtà, felice o miserabile”, umano o disincantato che non vuole testimoniare di nulla.
L'avvenimento qui non ha propriamente luogo; « l'avvenimento é il momento fotografico stesso», la cosa che si rivela senza svelare propriamente il senso,
l'eterna metafora rubata al luogo, illuminata nello spazio di un istante, nel tempo d'un dettaglio,
il soggetto estraniandosi, l'oggetto retrocedendo, « guardando altrove » in questa irruzione insperata, inattesa, incomprensibile dell'Altro.

Il contro-transfert prodotto dalla fotografia quando riesce veramente a toccarci, passa dalla proliferazione anonima d' immagini nell'attualità del quotidiano , dalla prostituzione spettacolare delle medesime alla forma-segno, alla traccia non-mediata del poetico.
Si potrebbe parlare di « punctum », con Barthes come del momento decisivo, incisivo, ferente dello scatto fotografico, ma anche differentemente, del passaggio percuotente, percettivo che quella stessa immagine evoca in chi la riceve . Per Baudrillard si tratta di « liberare il reale del suo principio di realtà perduta », da un presunto realismo che si limita a mostrare « quello che é e non dovrebbe essere »; foto moralizzante, sdoppiata dalla verosimiglianza, sottotitolata dal senso comune, fino a re-investirla d'una dimensione « ironica, fatale, spirituale o cinica ».




Attraverso l’immagine (fotografica /poetica) il mondo impone la sua immediatezza visiva, negazione di un reale scomodo, iniquo nel suo complesso, per far apparire una discontinuità significante di frammenti, sorti come la possibilità di un’altra versione.

Voler incrinare, produrre una fessura, voler destituire lo specchio trasparente, ideale, apparentemente innocuo della rappresentazione dando spazio all’anti-filosofia della materia,
alla de-connessione degli eventi, alla successione aleatoria degli avvenimenti.

L’atto fotografico é un confronto feroce, face à face violento, duello all’ultimo respiro,
il più arduo che si possa immaginare , tra l’obbiettivo e l’oggetto, tra il punto di vista volontaristico, la ricerca d’una somiglianza, la volontà di imporre una visione
e l’evidenza pura, inconfutabile, anti_concettuale dell’immagine come avvenimento.

L'irruzione del discontinuo ,dell’aleatorio, dell’estraneo delle cose,
arresto istantaneo sul mondo,
l' anti-rappresentazione dell'oggetto,
la sparizione della cosa reale in sé,
lo scarto rispetto a un senso comune,
l’eclissi del soggetto che impone uno sguardo.
Lasciar posto al “divenire-immagine di”

“Chi fotografa deve saper trattenere il respiro, fare il vuoto nel tempo e nel corpo perché la superficie mentale sia tanto sgombra quanto la pellicola.
Fare il vuoto in sé e intorno a sé in una specie di occlusione iniziatica”. Non proiettare direttamente la soggettiva nell’immagine ma lasciar produrre il mondo come "avvenimento singolare, intensivo, senza commenti”.
Sarebbe dunque questo momento di “suspense, di siderazione a-temporale”, d’immobilità nell’istante, d’arresto sul fenomeno, l’arresto propriamente dell’immagine fotografica.











Immagini fotografiche di André Kertész

Polaroid:
11 aprile 1979
26 gennaio 1980
17 novebre 1979
17 agosto 1981




lunedì 25 ottobre 2010

Fabien Chalon « Cinque macchine sculturali » Maison éuropéenne de la photographie, Parigi





"L’enchainement " ( successione a catena, concatenazione, incantamento)




Gabbia argentea, antro che s’apre in profondità, papaveri viola, no rossi, indaco su fondo grigio brillante.
Cascate di nebbia a fiotti, sollevamenti,

dispersioni di materia vaporosa, grigia, ineffabile, riversata simile a moto di fine del mondo.


Fiumi, vapori, acqua in una sorta d’apocalisse vivente; travalicano all’esterno del video nello spazio chiuso dell’installazione.

Catena oscillante con lucchetto appeso,
biglia gialla, centro, luce spenta, gabbia chiusa,
trovare una fine.

Tabernacolo, piccola luce rossa accesa a lato,
sacrilegio, sacrificio;
pendolo con lucchetto ciondolante , biglia che rotola avanti e indietro,
movimento ritmico, monotono, rotatorio volgente a vuoto su sé stesso fino a centrare la cosa. Apocalisse d’onde, d’oceani in eruzione.

Mano che sprofonda, corpo che affonda,
viso, spasimo,
apocalisse d’acqua vivente;
avvolge e riassorbe ogni cosa dentro il suo vortice d’oceano.
La gabbia si chiude.





"Prendi il tempo"



Schermo nero, fondo verde smeraldo,

cielo stellato, onde, vibrazioni elettriche, scoscio d’uragano avvicinatosi,

le temps,

riflesso lunare, biglia in caduta libera,
eclatement de vagues,

cieli che s’aprono e poi si richiudono pesantemente su di voi simili a veli su fondo di morte.

Sospensione,
luce verde smeraldo, cascata di fiocchi lattei, discendono pesantemente al suolo e li si fermano, permeano brillanti geometrie di forme.

Le temps, prendi , il-tuo-tempo,

“ogni giorno qualcuno muore in questa città silenziosamente”


Campi di cotone, blu notte, risate,
viola argenteo riflessi, eclissi solare,
eclatement soudain de formes, bagliore improvviso trasfigurato attraverso le tenebre .
La biglia cade all’improvviso dal supporto, veli neri tirati su volto di morte,
svolazzanti lame di candele accese.
Incendie, état de réveil
Il tempo,_prendi__ il tuotempo,__ pour que ça n’arrive plus, ton temps,
elocuzione, choc, assenza di , charme des mots, fascino delle parole, rare e essenziali sull’onda del movimento.

Legare, imprigionare, stringere: tenere stretti a sé, cingere con le proprie braccia,
stringere i denti, la morsa, la presa su qualcuno,
costringere, ridurre, rimpicciolire lo spazio vitale,
ridurlo a una perla vuota, a una conchiglia svuotata, dissecata, spazzata via da vento a riva,
ridurlo ai quattro panni stesi ad asciugare, lavati e consumati dall’uso,
a treni di notte e stazioni affollate di giorno , al rumore assordante dei vostri passi sul marciapiede, al loro eco sull’asfalto
a una cantilena, un ritornello, un tormento,una sequela di parole che vi girano in testa,
il battito percuotente del vostro ritmo cardiaco,
l'eco che vi gira in capo da mattina a sera, la rabbia che vi assale,
la nebbia che affolla e cancella, vaga nella mente.










"Tu es fou”


“Siamo grati alle stelle d’aver fabbricato gli atomi con cui sono costruite le molecole dei nostri occhi.”



Azzurro celeste, indaco, grigio, cielo coperto di nuvole immense, trasfigurate di luce.
Nuvole grandi, bianche, soffici, espanse e leggere,
Attraversamenti d’oceani
Mappe del mondo si dispiegano al contrario, movimenti dei venti o delle maree,
dilatazioni di materia sospinta, sospesa, fatta muovere, dal soffio del respiro vitale.


Velo, velare, bocca, labbra, parole pronunciate con ardore, con candore;
Montagne di nuvole, visioni celesti, acque, scorrimenti d’oceani, di spazi infiniti;
materia nebulosa arresta il film infuocato divorato da notte.





“L' abbandono”

Grigio asfalto. Mozziconi di sigarette inceneriti, pulviscoli di carta bruciata.


Polvere di materia arsa, spazzata via dal vento dopo la combustione.
Granelli di sabbia, granuli sollevati a vortice intorno, residui solidi di cenere svolazzanti dopo l’ incendio; piume di farfalle, nel vuoto sospese.
Particelle solide compresse nel vuoto dell’atmosfera condensano in forma di nubi.

Tuoni improvvisi, folate di vento, una più forte delle altre, ciclone in arrivo da ovest;
venti del nord, taglienti, gelidi, improvvisi.

Una figura in controluce appare nel profilo d’ombra, diviene sempre più grande, si espande, si dilata, occupa ogni millimetro di spazio come una proiezione che sfugge al nostro controllo.
Avanza sfumata, senza limiti sulla superficie, pronta a sollevarsi, a sollevare le proprie braccia e prendere il volo a guisa di creatura alata.
Turbinio infinito, sollevarsi, vorticare: l’esplosione, la disintegrazione di tutte le forme. L’incenerimento della materia nel ciclone indotto dai venti.


Più tardi la vedremo fluttuare, trasfigurata, aerea, in questo universo di cenere sospesa,
in aria sul nero d’asfalto.
Avanza, s’arresta lentamente, procede, senza più peso dopo la rimozione del volume, della forma.

Volano frammenti di braccia, di gambe, di testa, pensieri prendono forma, svolazzano e poi ricadono pesantemente al suolo; ali disintegrate di farfalle, prosciugate, dissecate e scheletri, membrane di insetti, volano in circoli ellittici, in ampie spirali ondulatorie e continue, trascinandosi in aria, condannate all’eterna ripetizione in questo circolo di vita-morte, ellittico, infinito, senza fine.

Siamo vento del nord, fredda tempesta, siamo figure in controluce pronte a disintegrarsi, trasfigurate in altro e altro ancora,
infiniti frammenti fluttuanti alla ricerca di senso,
in circoli di vita-morte senza fine .


" L'homme qui marche"









Sogna uno specchio. Si vede nello specchio come una maschera, la maschera deformata di sé stesso, profilo d’inchiostro staccato su fondo bianco;
una traccia presente nello spazio oltre il proprio volere, qualcuno che appare e non si riconosce come tale.
"Si strappa da sé troppo in fretta, troppo violentemente, in modo che il calco del viso resti impresso, marchiato sulle sue mani". Può percepire la voragine aperta del cranio, scavato nel vuoto .

Vedere questo viso del di-dentro costa uno sforzo infinito, lo trova inavvicinabile, pericoloso,
intoccabile ai sensi e poi, ancora più pauroso,
il cranio senza più traccia della superficie esterna.

Si disfa, liquefa tra le mani, perde tratti di sé,
si smembra, si decompone, come se una parte divenisse più importante d’un'altra,
e la testa estremamente presente, pesante, fino a riassorbire ogni cosa , i limiti della figura,
riassumere tutto su sé e svuotare il resto di peso.
Oppure si vede passare senza trattenere nulla in particolare,
dileguare attraverso le forme, l’alterità dell’esterno.

Stringe le mani al corpo, i piedi al suolo, dentro la terra, cerca al centro le radici del sé;
infrange questa parete trasparente, membrana, lamina o velo che si frappone, condensando in pulviscoli o polvere di ghiaccio, come una patina distorcente, una lama divorante alla percezione.