giovedì 23 dicembre 2010

Note improvvisate ( da "I visi e i corpi" di Patrice Chereau )





Jon Fosse “ è quello che la gente chiama immagine, qualcosa di imperfetto senza dubbio, ma lì per dire altro da quello che ci si aspetta di vedere, di sentire”




Patrice Chereau: “Il potere delle parole, d'una costruzione, d'una musica segreta, la tessitura di quello che faccio, parole che aprono verso qualcosa, altra cosa. Rivenire a quello che ha ispirato un testo, analizzarlo, decorticarlo, lasciandomi inventare, provocare l'immaginario. Parole che aprono porte, sono come gesti che raccontano movimenti, sono come musica. Tutto è musica, quello che si dà a vedere e a sentire, i corpi sono musica, i silenzi ancora di più.”

E' strano come ritorni questo bisogno di lavorare attraverso letture e note provvisorie, nate sull’impulso di un momento, là dove ti porta la contingenza della parola d'altri, ultima parola risuonante sull'orlo delle labbra, d'una frase letta o riletta appena, restando lì nella mente, fuori dal contesto , l'ultima parola del piacere e del dolore fusi, confusi insieme,
leggera, inquietante inquietudine di non sapere, non sapere dove ti porterà, voglia d'essere e di non essere insieme, esattamente come prima, il caffè nero, liquido, bollente ha sostituito il resto.


Nervi tesi, ansietà, sforzo, apprensione per trattenere questo guizzo di vuoto che s'apre nella mente e conduce altrove, nascosti in luoghi anonimi, caffè o sale dove ci si insinua quasi si fosse costretti, controvoglia, volendo e non volendo insieme, ore rubate alla scrittura, quasi chiudendo scusa, far risuonare la tua parola come fosse altra in mezzo a voci che non sanno nulla, non comprendono nulla d'essa, percepiscono solo la sonorità d'una lingua a un primo approccio estranea, opaca, insignificante o non volendo significare fino a lasciarsi accarezzare, a poco a poco inseguire, scivolare in stretti passaggi segreti, riemergere in questa estraneità, la voce della scrittura, nei luoghi dove vuole perdersi, dimenticarsi.

“Essere permeabili, permeabili a tutto, a quello che fa che siamo qui ora in questo momento e non prima, non altrove, dirsi che si è cambiati per meglio guardare ciò che si é oggi.” E poi questa cosa che ritorna dalla notte dei tempi, che non si può impedirsi di rifare, rifarla altrimenti poiché altri l'hanno già vista, attraversata magnificamente, mille e mille volte ancora.

“ Nella sua logica assoluta, incommensurabile, esige che la si segua, c'è che la vita qualche volta è bella, molto bella anche quando si pensa che tutto è male, tutto è dissoluzione, c'è che guardo la gente, i loro movimenti e tutto può dirsi, darsi, mettersi in scena”, la gente che passa e quelli che aspettano il metro, quelli che appaiono un po' a parte, décalés, gli strani, i matti, quelli che compiono gesti bizzarri, selvaggi, o nobili, quelli che si lamentano, si compiangono, o chiedono soldi sui metro, quelli che bevono e crollano a terra ubriachi, quelli che urlano contro dio, il mondo, i padri e prendono a calci le barriere d'acciaio agli ingressi delle stazioni fino a curvarle;
e la ribellione, l'euforia, l'alcol degli studenti di notte il sabato, tutto è pretesto d'osservazione, guardo tutto e amo la gente che fa cose, si dimena, si dibatte, agisce di fronte a me nella contingenza dell'istante. Guardare quello che accade, tentare di aprire gli occhi almeno.
"I corpi sono belli, almeno come si muovono nello spazio”, confrontati al mio, ora sospeso, immobile, in osservazione obbligata, in questo lasso di tempo costretto a fermarsi,
prendere le distanze e aspettare, recuperare lo spazio nelle suture del corpo, il tempo in un ritorno alla normalità.

Eppure strano d'essere qui, leggeri e senza ali, senza preoccupazioni nell’esilio del corpo, solo l' essere qui, per sentire la massa greve, opprimente che tormentava, pesava sul capo prima, intorno alla figura lasciata laggiù, felici solo per sentirsi leggeri ma con nulla da fare, nessun piano preciso, progetti aberranti,disegnandosi inverosimili, eventuali in un futuro ipotetico, incerto, forse realizzabile, ora nella mente in questa quiete,
atemporale sospensione del presente.


P. Chereau “Dettagliare le mie sensazioni, volgere intorno a qualcosa di totalmente autobiografico che non saprei scrivere altrimenti, neppure qui. E, da tutto quello che ho rubato, e accumulato, costituisco il mio museo personale. Sono qualcuno che sottrae, nasconde e ricicla. Non sarebbe questa, forse, la messa in scena?” Si prende e si ruba, si mischiano i pezzi dell'uno e dell'altro, letti, immaginati, proiettati, riscritti identici eppure divenendo altro, ogni volta riguardati da altri punti di vista. Esiste questa voracità di vita, appetito verso ogni cosa che vedi, assorbi,
divori dall'esterno, le sculture, le parole, le immagini, i quadri o il movimento stesso delle tue emozioni.

“La violenza delle lotte”: mi riconosco in uno strano miscuglio di inerzia o l’indolenza profonda e d’energia folle, nervosa, precipitata. C’è una sorta d’astenia nel corpo, di stasi pre-annunciata, ciclica, ripetitiva corrispondente al torpore dei sensi, alla velleità di progetti o proiezioni nebbiose, fluttuanti nella mente, ai liquidi vischiosi, caldi, placanti che scorrono attraverso le vene e ricoprono l’organismo fino a sedarlo ad assecondarne la quiete. Poi ci sono questi slanci impulsivi, energetici, che si riversano nell’azione, frenesia del fare, del voler possedere, plasmare, investire la materia sensuale de mondo, la sua linfa oscura di vita, nel volerla ricondurre alla mia presenza, renderla leggibile nelle mie azioni come il senso del caos che mi sovrasta, mi abita.



Obbedire a dei riti obbligati, ogni mattino, una preparazione rituale, lavare via le scorie del giorno prima, purificare, lavare, asciugare.
Respirare e risvegliare il corpo, inspirare la potenza del soffio vitale attraverso di voi, attraverso tutti i tessuti, gli organi, i liquidi corporei, le molecole della pelle, indurre la morbidezza, la flessibilità degli arti, dei muscoli, espirare il soffocamento, la ritenzione, l'oppressione.
“Obbedire a dei riti obbligati, guardare quello che presenta, spazzare via ogni certezza”:
la pesantezza d'un corpo vivendo in uno spazio chiuso, la traspirazione del suo essere nei suoi movimenti, la sua vera traspirazione come lo sforzo dei suoi muscoli ossa e tendini.
Il sudore, il battito, il soffocamento del suo petto, l'occlusione nella sua mente, le lacrime che non scorrono dai suoi occhi.

( Chereau) “Corpi che d’avanti a voi spazzano via ogni determinazione in un solo gesto di trasalimento, tremore, densità di pelle, quello di cui eravate sicuri un minuto prima. Incominciare altro da quello che si era pensato, essere là pronti a ricevere ciò che accade, quando avrà luogo e soprattutto, mettersi al lavoro prima di sapere cosa si farà, come lo si farà”.

“Dire come si pratica questa forma di scrittura effimera” nata da frammenti, a metà non-riflessa o irriflessiva partita dalla voce d’altri che in alcuni casi può divenire una vera scrittura,
le parole “caos e voracità”, “persecuzione”, strano eco nella mia mente,
la fragilità degli esseri che scorgo, travestita, celata sotto i loro meccanismi a ripetizione quotidiana,
il vuoto spinto dove sono serrati senza sapere, il passo falso non così falso,
la sensazione vaga, persistente, indescrivibile di mancanza.
Questo caos, banalità o non-senso che devo riorganizzare, determinare, investire nelle mie azioni;
la presenza d’una violenza che affascina a scrutarla,
vederla agire sugli altri, percuotente in chi la riceve, qualche volta spaventosa, angosciante.

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