sabato 27 novembre 2010

Arman (II), l 'oggetto tra distruzione e creazione












La collera viene dai visceri, è l’impulso degenerativo, distruttivo, violento, è la rabbia incontrollata, è il meccanismo a pressione che sale in corpo. E’ un movimento caldo, feroce, rabbioso che esplode in modo improvviso, inatteso, come tutti i movimenti delle passioni - amore, odio, collera- potenti, irrazionali, imprevedibili in una sorta di furore sacro, partecipante del dionisiaco. C’è anche l’ebbrezza, l’esaltazione del gesto liberatorio, il furore cieco, quello dell’eccesso, della libido, dei fluidi che salgono in corpo, scorrono, amplificano provocando una stato di disequilibrio, lo scompenso tangibile degli umori, 


un esubero d’energia necessitante consumo in 
qualche modo. Poi, c’è la collera come la follia irrazionale dell’infanzia, quella che esplode in un culmine di eccitazione, grida e singhiozzi; si manifesta e si consuma in sé come una deflagrazione, un impeto improvviso, a volte semplicemente esplodendo nel gioco, in uno scoppio frenetico di risa, oppure in una serie cantilene, salti, o parole disconnesse. Esaltazione, isterismo, fuoco di parole che volano da tutte le parti, fino ad esaurirsi , riassorbirsi rapido, inatteso come era cominciato. 


L’artista usa questi impulsi primordiali in varie performance filmate, per esempio il gesto di fare a pezzi un contrabbasso al suolo (NBC Rage, 1961), oppure in Conscious vandalism (1975) l’atto di devastare letteralmente l’interno d’un appartamento borghese propriamente ricostruito. “Credo che nell’azione della distruzione ci sia una volontà d’arrestare il tempo, di sospendere gli avvenimenti incollandoli, bloccandoli insieme nel poliestere. Quanto rompo un oggetto faccio in modo che i pezzi cadano in uno spazio dato, precedentemente delimitato. Quando brucio qualcosa arresto la combustione prima del suo consumarsi. Non é mai un atto di distruzione totale ma ciò che mi permette di conservarla, là dove mostro la catastrofe. ” L’azione dei colpi, delle collere porta in sé l’impulso degenerativo e, insieme, quello di fissare l’avvenimento “al culmine della catarsi” permettendo in questo modo all’azione-opera di rappresentarlo, di renderlo manifesto. L’ impulso primordiale, il gesto o lo slancio rabbioso, l’irruzione incontrollata, la necessità pulsionale e annientatrice contro la materia viene sublimata, infine, attraverso una gestuale artistica codificata nell’azione-performance, in Arman suggerita dalle arti marziali.




Il colpo é movimento freddo, controllato, razionale che sembra partire dall’analitica cubista della scomposizione dell’oggetto nello spazio, la proiezione all’esterno in un gesto esatto, efficace, essenziale, nato da una concentrazione massimale d’ energia. Lo sforzo é quello di decomporre l’assetto finito d’un oggetto-forma_ gesto musicale, perlopiù applicato ad archi, violino e violoncello_ gesto iconoclasta al limite, ma controllato, soppesato fino a parcellizzare la forma in sezioni che sono state precedentemente definite. Applicato alla musica, all’impulso ritmico e insieme al lavoro di scrittura musicale, la decostruzione plastica dell’oggetto rovescia il valore melodico della composizione . Nei Colpi esiste ancora una forma riconoscibile, razionalmente scomposta, l’anti-forma e l’oggetto messi in primo piano. Dare la cosa nella sua versione de-costruita, la struttura percorsa da un movimento contrario di smantellamento, l’oggetto rivoltato, rifatto a ritroso, ri-attraversato da un moto contrario simile a quello del partire, cambiare direzione, divenire altro sul percorso, rivenire per altra via, essere là, ancora, differentemente.

Dopo il passaggio del tempo e delle tempeste recuperiamo i relitti fluttuanti alla superficie della memoria allo stesso modo che i pezzetti sommersi delle nostre emozioni. Ammassiamo gli oggetti rigettati dal mare. Il tempo distrugge, altera. Accettiamo queste distruzioni, alterazioni del tempo e della materia, li integriamo al nostro sistema di valori estetici preferendo qualche volta gli oggetti tali che si presentano oggi a quello che erano un tempo”.



Ecole de Nice, video-performance, (1966)
Un pianoforte è messo a fuoco in una cerimonia simbolica altamente sacrificale di fronte a un gruppo di convitati, testimoni all’evento. Le fiamme divorano a poco a poco il suo involucro esterno, alcol e petrolio alla mano gettati sul legno. D’un sol colpo, l’incendio esplode in un improvviso bagliore; combustione di materia luminosa, un falò brucia incandescente nella notte, in piena oscurità. Più tardi, i detriti ancora fumanti saranno ricoperti d’una spessa patina di plastica, liquida e opaca, fino a fissarsi in uno stato non più di frammenti ma di lavoro finito.




Combustione di violoncello su pannello e resina.(1964)

Qui il giallo smaltato, ocra e brillante, percorso da aloni e chiazze slavate simili a cera che fonde al calore, domina rinviando agli immateriali in oro di Klein. Tutto è portato alla superficie in un processo di sublimazione estrema dell’impulso distruttivo, nella sua “estetizzazione” anche. Il ricorso alla resina poliestere per fissare i detriti trasforma i residui d’oggetti in potenziali “archeologie del futuro”. Distruggere e creare si legano in un gioco di forze tensive, oppositive, in un rapporto antinomico, che, tuttavia, in ragione di tale paradosso, libera l’oggetto spingendolo oltre le strutture usuali del senso e della storia. L’oggetto rotto, tagliato, deformato, residuale o recuperato come scoria, fatto a pezzi o bruciato nelle combustioni, ritorna, qui, ricoperto d’una patina di poliestere, acrilico o resina nell’urgenza d’una nuova iscrizione estetica, nella trasmutazione alchemica della sua materia. Una sorta di alchimia si manifesta in questo momento preciso e non un altro, come l’atto conclusivo d’un processo che è stato attraversato nelle sue varie fasi, plastiche o strati genealogici, fino a chiudersi in circolo in questo punto.


La sedia d’Ulisse (1965) Una poltrona in stile Luigi XV viene bruciata in cima a una catasta di rifiuti nel corso d’una combustione-performance pubblica. Allo stadio limite, quando solo le vestigia dell’oggetto, la struttura in bronzo si rende ancora riconoscibile, essa acquisisce una nuova, preziosa liminalità. Stato di soglia, limine, metamorfosi, lo scheletro in bronzo restando difficilmente in equilibrio sulle tre gambe si veste d’uno smalto lucido, delicato, in un passaggio alchemico verso una nuova genealogia plastica. L’oggetto distrutto è sottoposto a una combustione che lo decostruisce, lo altera e insieme lo conserva , lo mostra e lo fa durare differentemente.


Lista visuali Arman, I parte e II parte

1 Frozen civilization I, 1962
2 Chopin’ Waterloo, 1962
3 Home sweet home, 1960
4 La collera sale, 1961
5 Portrait-robot d’Iris, 1960
6 Frozen Civilization 2, 1972
7 Collera di violino, 1962

8 Collera bruciata, 1972
9 NBC rabbia, 1965






Arman ( I), Retrospettiva, Centro Pompidou, Parigi


Il “dechet” in Arman è il resto, il residuo, il lascito, l’anti-forma per eccellenza, l’inutilizzato delle nostre società attuali, lo stadio ultimo della materia presa nella sua fase liminale di decomposizione organica. E’, ancora, quello che nel sistema industriale si pone come sur-plus, esubero, prodotto in eccesso che satura il ciclo di produzione nell’impossibilità d’uno smaltimento. Il meccanismo gira a velocità incontrollata, genera energia in eccesso, prolifera di un sovrappiù di materia che non riesce ad essere consumata, riassorbita, rimessa in circolo riemergendo in escrescenze nefaste, potenzialmente pericolose, tali le cellule cancerogene, malate d’un corpo sano attaccando l’organismo in una de-compensazione lenta e inarrestabile fino a toccare il suo punto di crisi, di non-ritorno.




Il dechet è dunque il residuo della società borghese, l’oggetto in quanto rigetto, non riparabile, usato, consumato e esecrato, implicitamente legato al processo di rimozione, d’eliminazione dello stesso insito nella sua obbligata liquidazione.
La prima azione che si lega a questa massa di detriti organici, animali o minerali in Arman è quello del pieno, del riempimento fino al culmine, dell’ammasso, del recupero d’oggetti in teche di vetro o in plexiglass. La decomposizione della materia nelle serie Spazzature/Accumulazioni è arrestata, colta nel processo che la disorganizza, la de-crea, la de-costruisce nel senso d’una distruzione ma anche in quello che va al contrario d’essa in una sorta di rovesciamento, svolta della medesima. Ricomporre é arrestare la distruzione, fissarla in una scatola trasparente dietro la quale l’oggetto non appare più anonimo, passivo, residuo inoffensivo del meccanismo di produzione ma diventa opaco, impermeabile, refrattario allo sguardo. Diventa “la massa critica dell’oggetto” nell’espressione di Baudrillard , il cui valore plastico è re-investito, recuperato dal livello basso, nel suo isolamento in uno spazio delimitato, nel suo spostamento metaforico, moltiplicazione metonimica e riappropriazione estetica.




























La grande abbuffata, (1970)

La massa indistinta di materia in decomposizione allo stato organico come fluttuasse in un liquido gelatinoso si ricompone in una sorta di quadro multiforme, colorato, astratto dove si stagliano ancora dalla gelatina indistinta alcune figure e superfici: carte, cartacce, scatole, “bottiglie, molte bottiglie di diverse forme e dimensioni in plastica o in vetro, con scritte impresse in colori vivi, violenti sopra, molta plastica, molti imballaggi”. Involucri d’oggetti che divengono oggetti in sé, molte scatole di conserva, molte cose che, utilizzate per un certo tempo sono gettate perché considerate desuete come, in altre teche, scarpe, collant, foulard, stralci d’abiti, sigarette, profumi. Un collage opaco nella massa liquida, gelatinosa, tendente all’informe , stranamente colorato in chiazze bianche, argentee, verdi o arancio, diversificato in materiali, dalla plastica al vetro, dalla carta all’alluminio. L’odore, il tatto, la saturazione sensoriale prodotta dal riempimento sono messi a distanza attraverso un collante in resina poliestere che blocca il processo di decomposizione e trasforma una materia bassa, ignobile, immonda, immond-izia, in una sorta di smalto brillante, fluttuante à plat sulla superficie. Le forme, nella loro corsa verso l’informe, sono imprigionate, messe in rilievo contro il vetro trasparente, arrestate e, contemporaneamente, messe a distanza rispetto alla loro massa organica in uno sforzo d’astrazione.


Accumulazioni








“Nella ricerca del nuovo, ricerca resa necessaria dalla carenza e dall’ esaurimento della pittura edonista e di quella gestuale d’oggi ho in modo cosciente esplorato il settore dei detriti, dei resti, degli oggetti industriali rigettati, in una parola dell’inutilizzato.” Presso Schwitters più importante del materiale é la possibilità insita nel valore plastico dei frammenti, vale a dire il caso della loro congiunzione. Affermo che l’espressione dei detriti, degli oggetti possiede, invece, un valore in sé, senza volontà d’un atto estetico che li obliteri, li ricopra o li mascheri nei valori d’una tela. Introduco, così, il senso d’un gesto radicale senza remissione né rimorsi. Tra gli inutilizzati, un modo d’espressione che attira particolarmente la mia attenzione è l’accumulazione, vale a dire, moltiplicare e fissare in un volume complessivo corrispondente alla forma, al numero e alla dimensione l’oggetto industriale nella sua ripetizione.
“Non si tratta di decontestualizzare l’oggetto dal suo sostrato utilitario ma, al contrario, di ri- contestualizzarlo su una superficie resa permeabile, densa, porosa dalla sua reduplicata presenza.”

Il lato ossessivo, ripetitivo, narcisistico, al limite autoreferenziale della cosa nella proliferazione della medesima fa pensare a una granulazione di punti luminosi in una costellazione celeste, apparentemente identici l’uno all’altro se guardati a distanza, rifrazione luminosa d’ una molteplicità d’astri se visti al microscopio, sotto lente di ingrandimento. L’esperienza della percezione si rende fluida, sfacettata, molteplice nell’atto della ripetizione, investita di diversi livelli temporali e soglie spaziali attraverso la variante della durata.

Ammasso, detrito, abbondanza, profusione


“Il tempo non esiste, la memoria solo lo crea”. Frazionare il suo continum rapportandosi a un tempo misurato e relativo, l’ora degli orologi, dei pendoli, dei cronometri, delle sveglie, dei fusi orari, è semplicemente una convenzione. “In questa accumulazione di piccoli universi, di galassie prossime che considero con l’occhio del bambino e della memoria, al di là della contingenza dell’oggetto ritrovo la vita, lo spazio e dunque, al di là del tempo, anche se non assoluto, il mio proprio tempo”. Le accumulazioni, all’origine sono quelle della memoria d’infanzia, le collezioni d’oggetti rari in famiglia, gli armadi, gli scaffali che riempiono la casa, l’universo composito e affascinante degli oggetti, dei mobili, dei suppellettili scoperti nel corso delle fiere e delle broccanti con il padre commerciante. Poi sono i libri, i dizionari, i fogli, le pagine, tutta la serie di letture che accompagnano la sua giovinezza.


Le accumulazioni sono quelle dei vecchi appartamenti, delle case stracolme d’oggetti , carte, cartoline, lettere, polvere depositata al fondo dei cassetti, cose dimenticate negli armadi,
gli ammassi di sopramobili, cianfrusaglie, i libri, le fotografie e tutto quello che circoscrive il nostro spazio personale, lo delimita, lo sancisce, lo rende non più anonimo ma abitato, singolare,
presente d’una presenza a noi stessi, testimone anche al crocevia dei nostri incontri, impresso del marchio della nostra esistenza.

“La nostra società nutre il proprio bisogno di sicurezza con l’istinto d’accumulazione”; bisogno d’assicurarsi, d’auto-garantirsi una profusione, un benessere, una saturazione materiale fino a toccare il gusto dell’eccesso, del consumo fine a sé stesso nel puro piacere, dell’ inutile spreco per il semplice bisogno di sentirsi cautelati, garantiti, preservati, auto-sufficienti nel proprio microcosmo autoreferenziale.
“Non ho trovato il principio d’accumulazione, è esso stesso che m’a trovato”, guardandosi intorno, lo si trova ovunque nella realtà. Le vetrine dei negozi ricreano cosmogonie in miniature d’oggetti di lusso o di beni di consumo. E ancora, negli scaffali stracolmi di cibo dei supermercati, nelle catene di distribuzione di massa, nella profusione di merci a basso costo, nella produzione seriale, nel sovra-peso dei corpi, nella ricchezza dei piatti, infine nelle pile di scorie, negli accumuli di residui, rifiuti difficilmente smaltibili che gravitano ai margini delle nostre società industriali.
Diventa anche la percezione inquietante nel nostro mondo, dell’invasione d’una massa di scorie tossiche, velenose, difficilmente liquidabili, potenzialmente distruttive come corpi estranei, nocivi gravitanti intorno alle nostre vite.

“Con le accumulazioni spero di tradurre anche le inquietudini sorte dalla riduzione degli spazi e delle superfici”, il restringimento dei nostri spazi vitali, abitabili, delle risorse prime che nutrono la terra, dell’acqua che beviamo, dell’ossigeno che respiriamo, nei lager moderni, l’invasione di ferro e cemento, le nostre secrezioni industriali, le scorie tossiche, radioattive seppellite al fondo degli oceani, potenzialmente tumorali, i fanghi, i liquami viscidi, oleosi che inquinano le nostre acque, i veleni e i rifiuti ordinari, i composti organici, le vernici tossiche, l’arsenico e il piombo.
“Vorrei arrestare la velocità, l’esplosione, la parcellizzazione, le particelle ricondotte al tempo, gli incidenti o gli accidenti dove il caso è sempre lo stesso e ancora una volta diversamente ripetuto






Le Accumulazioni in Arman
: l’oggetto preso nel processo di moltiplicazione può vestirsi d’un’aurea ironica, drammatica, parodica, opprimente o sovversiva; oppure essere semplicemente riassorbito, portato in rilievo dalla superficie. “Ho sempre preteso che gli oggetti si compongano da soli, per sé stessi. La mia composizione consiste a lasciarli comporsi… Il caso, nella misura in cui funziona su leggi universali, quella della quantità per esempio, non è più casuale ma diventa condizionabile. La mia materia prima di composizione.”

Home sweet home, è un’accumulazione asfittica di vecchie maschere d’ossigeno costruite in metallo, maschere-simulacro del viso con tubi di plastica e ferro gravitanti pesantemente verso il basso. Movimento discendente tendente all’entropia, ipostasi o ristagno di fluidi sanguinei e liquidi linfatici nell’organismo.

La collera sale misurata da un’accumulazione di manometri, strumenti ad alta pressione; lancette girano al contrario, sempre più velocemente, la temperatura interna al sistema sale. Pressione massimale, esplosione imminente. Misuratore di intensità: pressione interna, arteriale, venosa, ipertensione, ipersensibilità meccanismo lanciato a velocità folle, sconsiderata,
raggiunge un punto di non ritorno, e li’ s’arresta al culmine, prima di deflagrare, rovesciarsi come l’ultima goccia d’un vaso. E lì è arrestato su un supporto di legno e plexiglass.

Accumulazione di corni apocalittici d’avvertimento, ferri da stilo fusi e a metà re-incollati insieme in una massa plastica fredda, bombolette di insetticida per dissecare insetti,
bruciatori a gas, bunker, fornellini da laboratorio, orbite e contro-orbite,
toraci, braccia o arti di bambole in stracci, manichini, materie dure, pesanti in vetro, ferro e acciaio. Ruggine del ferro, lacerazione di stracci,
orbite tentacolari che si dis-orbitano, meccanismi che perdono le molle allentandosi dal centro, dis- funzionamenti di sistemi.

martedì 9 novembre 2010

André Kertész, Retrospettiva, galleria Jeu de Paume, Parigi










































(Martinique 1972)
(Nuotatore sott'acqua, Ungheria 1917)



Il fondale acquatico come matrice della terra s'apre in crepe irregolari sull' alveo bruno.
Il corpo è assimilato a una creatura marina, acefala,
mollusco, anfibio, o vertebrato d’acqua in un ritorno allo stadio primordiale realizzato attraverso l'immersione in questo fondale blu, oceanico, in movimento.
L'impressione è ancora più forte nella sovrapposizione del negativo originale su placca di vetro, nell’effetto indaco sul tiraggio argenteo.

Lo sdoppiamento utilizza il riflesso d'acqua attraverso il viso del fratello, completamente immerso tranne che nella testa.
Nel gioco di rispecchiamenti nati dall'illusione ottica, sé stesso é visto nel riflesso rovesciato dell'altro, sdoppiandosi in una figura gemellare, identica, volto a volto rovesciata dall'altra parte dell'acqua.
Alter-ego ripreso in auto-ritratto, visto dal basso verso l'alto: duplicità, complessità irriducibile dell'essere umano,
perenne ricerca dell'altro, insolubile, mai soddisfatta,
come l’eterna spirale del desiderio volgente su sé stessa, poi verso l' esterno
nella nostalgia d'una completezza perduta.


Jano appare come puro profilo in controluce: é figura d'ombra contro il riflesso della tenda solarizzata in una sorta di sospensione/ intermezzo metafisico.
E' visto in aria nell'atto di volare, satiro folle nell'incantamento della danza ,
nel sortilegio della parola.
Figura iconoclasta, Icaro si getta dall'alto, troppo vicino al carro solare, bruciandosi le ali, schiantatosi al suolo violentemente.

L'ungheria prima della guerra, scene di paesaggi rurali;
bambini gitani, piedi nudi sulla terra umida rivoltata di zolle.
Malvestiti, accovacciati contro il muro esterno d' un edificio,
la casa immersa nell'aridità della terra circostante, il paesaggio deserto intorno.
Campi, solchi sulla terra,
bambini laceri, piedi nudi.
Leggono seduti sul muretto esterno d'una casa nell’aridità della campagna circostante.

La polvere si solleva a fiotti,
avvolge, invade l'immagine nel pieno del movimento vorticante.

Circoli d'acciaio, infernali, sono impressi come ruote gigantesche di macchine al suolo, macchine per produrre bitume.
Gli uomini al lavoro. Nebbia del fumo, della polvere che si solleva a tratti;
ghiaia o strato sabbioso, invisibile in primo piano, avvolge come un manto incandescente l'immagine.

De-realizzazione: uomini come ritratti virtuali, dislocati, trasformati in riflessi l'uno dell'altro.












Dislocazione poetica prodotta dall' immagine come l'invenzione d'un altra scena.
Libera il reale dal principio di realtà “perduta”, estrania gli oggetti; si lascia produrre in una forma di “scrittura automatica”, impersonale, riflessa della sensualità del vivente.

Nelle vetrine manichini femminili appaiono come forme animate, plastiche, perturbanti allo sguardo.
Panni stesi divengono figure fantomatiche, bianche, svuotate di reale presenza fluttuando in sospensione dolorosa sui vicoli, tra i muri degli edifici.
Cavalli di legno dalle gambe rovesciate e manichini di donne a sovrastarli. Nell’illusione ottica la vetrina é re-inquadrata come una cartolina postale.

Una camera dimessa nello squallore di pareti scrostate dall’umidità. Una gamba di legno giace su una coperta di stracci laceri, in un letto sgangherato; numero tredici sulla parete frontale dell' hôtel.

Foto-ritratto d'epoca su fondo bianco di giovane donna dallo sguardo malinconico, distante, inavvicinabile.
Mani sfiorano cartelle o libri, dettagli di dita, mani femminili, affusolate.

Interni d'atelier, scorci di dimore d'artista, parlano dal luogo della loro assenza. Colgono squarci d’ individualità in un’accumulazione discontinua d’oggetti, in una serie aleatoria di dettagli  ritagliati e re-inquadrati insieme in tagli obliqui .
Parlano, di volta in volta, il linguaggio del geometrismo , dell’eclettismo poetico,
del costruttivismo, dell’astrazione o dell’epurazione modernista della figura.

Ritagliare e re-inquadrare per dare forma a uno spazio percettivo inedito.
Far retrocedere il corpo di fronte all’obbiettivo, qui Ejzenštejn ripreso a distanza,
su un tappeto che si dispiega verticale come una pellicola filmica, in una sequenza di inquadrature a ripetizione evocando la dialettica del montaggio russo.

Statue, sculture primitive in legno di  Zadkine divengono squarci di nature morte componendosi con bicchieri, bottiglie o lampade d’atelier.

Studio d'artista: un disegno é appeso e stracciato di figura.
Schizzi, scarabocchi a matita su una parete grezza.
 Vi sono bambole, cornici vuote appese , dondolanti da un chiodo sul muro;
vi sono teste di fantocci, manichini senza corpo di varie dimensioni accatastate sul tavolo di legno.
Vi sono scatole di colori, acquarelli, fogli e matite, gessetti spezzati, carboncini.
amalgama di pigmenti colorati.

Accumulazione: evocazione sensuale di materia, illusione di presenza.



Un uomo al lavoro vicino alla stazione S. Lazare é sorpreso a riposare mentre un manichino sospeso nel vuoto sopra di lui con una borsa da viaggio alla mano é come camminasse su un filo.
Funambolo scivolando via silenziosamente, dietro di lui, rimasto immobile, seduto a meditare.

Pecore bianche su fondo neutro, in primissimo piano. Si accovacciano, chiudendosi a crocchio fino a costituire un’unica forma composita, un cerchio per ripararsi dall’esterno, strette l’una all’altra.
Umanizzate, assumono una sembianza antropomorfa, occupano tutto lo spazio della foto con le loro schiene larghe, pasciute, il manto bianco, soffice di pelo in primo piano.

Un’ acrobata sospeso in aria, la testa rovesciata al posto dei piedi, il corpo in verticale assorbito in un complesso gioco d’equilibrismo su una scala composta da un montaggio di sedie verticali di fronte a un pubblico attento, sorpreso. Si lancia verso l’alto e, da una ringhiera sovrastante, una figura in controluce si sporge verso il basso in una sorta di sdoppiamento, continuità, complementarietà paradossale tra i due.

Tavolo di legno "a plat" in primo piano, una sedia, le rigature d' una panca.
Gioco di carte solitario.  Tutta l’attenzione é concentrata
sulle mani della bambina intenta a disporre meticolosamente le carte per ricomporre, nel silenzio del luogo, il senso perduto del gioco, l’immagine rubata.

Scena vista dall’alto scrutando il soggetto a sua insaputa.
Volto celato,immagine sottratta, destituita/restituita senza commento.
Forme geometriche a raso dell’obbiettivo, gioco di carte scoperto.
Illuminare le cose nella loro estraneità, sottrarle al senso comune, dematerializzarle, reinvestirle della loro aurea perduta.






Trasfigurazioni poetiche. I tetti di Parigi, sollevandosi verso l’alto, verticali nell’oscurità, aprono a un mondo parallelo, sopraelevato, disabitato sopra il livello usuale.

Scorcio di strade, square Jolivet di notte. Qui è la luce dei lampioni, irradiando dal centro sulla ghiaia, a creare anagrammi incomprensibili di segni, cerchi, spirali o giochi d’ombre,
simboli, sembra, provenienti dalla tradizione mistica o cabalistica.

Le sedie nei giardini del Lussemburgo contro la ringhiera e sullo sfondo dei cespugli si sdoppiano al suolo in figure strane, in forme incomprensibili, in geometrie di simboli aprendo al mondo segreto della percezione.

Le corde sono slegate, divincolate, lasciate cadere al suolo disordinatamente come una massa disfatta di fili rotolanti a terra in tutte le direzioni. Scivolano alla rinfusa, a ridosso della sabbia ,contro la balaustra che conduce dalla passerella al litorale.

Vari soggetti sono ripresi dall’alto in improbabili scorci a loro insaputa.

Il cercatore d’ombre, un profilo in controluce sul muro, una mano che scrive su un foglio,
l’ombra d’una ruota di bicicletta che traccia il selciato sabbioso; alberi contro una muraglia discendente a ridosso d’una scalinata.

L' ombra d'un piatto con forchetta impressa su vetro;
l'ombra del sé,  profilo contro la luce esterna, obbiettivo alla mano.

Si vede nell’atto di guardare la realtà, di renderla visibile come sé stesso in una trasposizione costante,
una realtà dislocata, svuotata di reali presenze ,
destituita di senso e resa per cesure,  lasciti o eccedenze.





E ancora sono segni, simboli, figure,
oggetti in reticoli di metafore visive,
volti di sconosciuti trasformati in improbabili personaggi d'una nuova scena, ironica, poetica o vitale.
Un mondo dove tutto è trasfigurato, costantemente ricondotto a un’altra visione per il potere insito nella scrittura riflessa, nel processo di estraniamento dell’immagine fotografica.

Se come volevano i surrealisti “la bellezza sarà convulsa, esplodente-fissa, magica e circostanziale o non sarà” la realtà apparente, visibile ed esteriore lentamente si piega, si staglia, si lascia ricomporre secondo le sue leggi interne, la sua matrice segreta.

Parigi di notte d’estate in prossimità d’un uragano.
 L' elettricità é visibile, a pelle, palpabile si staglia dal cielo sullo sfondo dell’immagine in linee elettriche irregolari, frastagliate, cariche d' energia cortocircuitando quella artificiale che illumina la torre d’acciaio.

Città fantasma, sognata, obliterata e inventata in segni, simboli, e presenze viventi.
Continua trasmutazione di materia fatta d'energia, d’ombra e di luce.
Perchè tutto è , infine, pura materia fotografica per Kertesz.

Fotografie di André Kertesz:
Una finestra sul viale Voltaire, 1928
Distorsioni 98, 1933
Un vetro rotto, 1929
Atelier Isamu Nogushi, 1945
Parigi di notte, 1927
New York, 1937
Distorsioni, 144
Tour Eiffel, 1933

Jean Baudrillard, "Perché l'illusione non s'oppone alla realtà", da FOTOGRAFIE 1985-1998, (Edizione Ostfilden 2000)


Jean Baudrillard: “La fotografia è il nostro esorcismo. La società primitiva aveva le sue maschere, quella borghese i suoi specchi, noi abbiamo le nostre immagini.”



“Il passaggio all’atto fotografico. Acting out: insieme azione, messa in scena, performance filmica. Si espelle, ci si sbarazza di qualcosa. La foto è essa stessa, nei suoi momenti felici, un “acting out “, un passaggio all’atto verso il mondo, un modo di coglierlo espellendolo e senza dovergli dare un senso.”





Ogni viso è già un passaggio all’atto. Si espelle la vita nei tratti del viso, del proprio corpo o della scrittura. Trovare l’atto fotografico ( o poetico) equivalente a questo “acting-out”, a questa espulsione dei tratti,
ben diversa dall’espressione psicologica, è l’operazione più delicata che esista”.



















"L'oggetto é per un certo tempo ancora il luogo vivente della sparizione del soggetto. Fotografare cambia il nostro paesaggio mentale », cioé quello che vediamo, che riusciamo a penetrare attraverso l'immagine supera l'orizzonte della nostra volontà di rappresentazione, non é atto di introspezione psicologica, né pura preoccupazione formale verso una presunta oggettività delle cose.
Il « divenire-immagine del mondo é un divenire a-morale », impersonale, discontinuo della visione fotografica; é un restituire quello che si impone come un’apertura inattesa ai sensi, quello che si dà malgrado sé come un’ insistenza percettiva, una metafora impersonale, senza soggetto,
caricata di linee di intensità, di forme riflesse nell'epurazione della luce o nel suo oscuramento .

« Il miracolo riflesso dell'atto fotografico », « scrittura automatica dell'evidenza del mondo»: linea di scissione, di frattura nel quadro della figurazione; tale l'evidenza perfetta d'un dettaglio, minuscolo, inutile, insensato, che pure puo' salvarci dal non-senso generalizzato, deludente della visione d’insieme.


L’immagine é catturata nell'immobilità di un momento fissato nel tempo e nello spazio;
una morte simbolica, annunciata della cosa in cambio della sua risorgenza fotografica.
L'oggetto scompare, il soggetto anche, eclissandosi dietro l'obbiettivo e in questa
« sparizione reciproca » dei due si opera la trasfusione, la metamorfosi dell'atto poetico.
L' immagine si dà come « un'evidenza pura, senza intercessione, concessioni, fioriture ».
Non parla di realtà ma di quello che resta indecifrabile, estraneo in ciascuno di noi,
il “folle genio della realtà, felice o miserabile”, umano o disincantato che non vuole testimoniare di nulla.
L'avvenimento qui non ha propriamente luogo; « l'avvenimento é il momento fotografico stesso», la cosa che si rivela senza svelare propriamente il senso,
l'eterna metafora rubata al luogo, illuminata nello spazio di un istante, nel tempo d'un dettaglio,
il soggetto estraniandosi, l'oggetto retrocedendo, « guardando altrove » in questa irruzione insperata, inattesa, incomprensibile dell'Altro.

Il contro-transfert prodotto dalla fotografia quando riesce veramente a toccarci, passa dalla proliferazione anonima d' immagini nell'attualità del quotidiano , dalla prostituzione spettacolare delle medesime alla forma-segno, alla traccia non-mediata del poetico.
Si potrebbe parlare di « punctum », con Barthes come del momento decisivo, incisivo, ferente dello scatto fotografico, ma anche differentemente, del passaggio percuotente, percettivo che quella stessa immagine evoca in chi la riceve . Per Baudrillard si tratta di « liberare il reale del suo principio di realtà perduta », da un presunto realismo che si limita a mostrare « quello che é e non dovrebbe essere »; foto moralizzante, sdoppiata dalla verosimiglianza, sottotitolata dal senso comune, fino a re-investirla d'una dimensione « ironica, fatale, spirituale o cinica ».




Attraverso l’immagine (fotografica /poetica) il mondo impone la sua immediatezza visiva, negazione di un reale scomodo, iniquo nel suo complesso, per far apparire una discontinuità significante di frammenti, sorti come la possibilità di un’altra versione.

Voler incrinare, produrre una fessura, voler destituire lo specchio trasparente, ideale, apparentemente innocuo della rappresentazione dando spazio all’anti-filosofia della materia,
alla de-connessione degli eventi, alla successione aleatoria degli avvenimenti.

L’atto fotografico é un confronto feroce, face à face violento, duello all’ultimo respiro,
il più arduo che si possa immaginare , tra l’obbiettivo e l’oggetto, tra il punto di vista volontaristico, la ricerca d’una somiglianza, la volontà di imporre una visione
e l’evidenza pura, inconfutabile, anti_concettuale dell’immagine come avvenimento.

L'irruzione del discontinuo ,dell’aleatorio, dell’estraneo delle cose,
arresto istantaneo sul mondo,
l' anti-rappresentazione dell'oggetto,
la sparizione della cosa reale in sé,
lo scarto rispetto a un senso comune,
l’eclissi del soggetto che impone uno sguardo.
Lasciar posto al “divenire-immagine di”

“Chi fotografa deve saper trattenere il respiro, fare il vuoto nel tempo e nel corpo perché la superficie mentale sia tanto sgombra quanto la pellicola.
Fare il vuoto in sé e intorno a sé in una specie di occlusione iniziatica”. Non proiettare direttamente la soggettiva nell’immagine ma lasciar produrre il mondo come "avvenimento singolare, intensivo, senza commenti”.
Sarebbe dunque questo momento di “suspense, di siderazione a-temporale”, d’immobilità nell’istante, d’arresto sul fenomeno, l’arresto propriamente dell’immagine fotografica.











Immagini fotografiche di André Kertész

Polaroid:
11 aprile 1979
26 gennaio 1980
17 novebre 1979
17 agosto 1981