martedì 9 novembre 2010

Jean Baudrillard, "Perché l'illusione non s'oppone alla realtà", da FOTOGRAFIE 1985-1998, (Edizione Ostfilden 2000)


Jean Baudrillard: “La fotografia è il nostro esorcismo. La società primitiva aveva le sue maschere, quella borghese i suoi specchi, noi abbiamo le nostre immagini.”



“Il passaggio all’atto fotografico. Acting out: insieme azione, messa in scena, performance filmica. Si espelle, ci si sbarazza di qualcosa. La foto è essa stessa, nei suoi momenti felici, un “acting out “, un passaggio all’atto verso il mondo, un modo di coglierlo espellendolo e senza dovergli dare un senso.”





Ogni viso è già un passaggio all’atto. Si espelle la vita nei tratti del viso, del proprio corpo o della scrittura. Trovare l’atto fotografico ( o poetico) equivalente a questo “acting-out”, a questa espulsione dei tratti,
ben diversa dall’espressione psicologica, è l’operazione più delicata che esista”.



















"L'oggetto é per un certo tempo ancora il luogo vivente della sparizione del soggetto. Fotografare cambia il nostro paesaggio mentale », cioé quello che vediamo, che riusciamo a penetrare attraverso l'immagine supera l'orizzonte della nostra volontà di rappresentazione, non é atto di introspezione psicologica, né pura preoccupazione formale verso una presunta oggettività delle cose.
Il « divenire-immagine del mondo é un divenire a-morale », impersonale, discontinuo della visione fotografica; é un restituire quello che si impone come un’apertura inattesa ai sensi, quello che si dà malgrado sé come un’ insistenza percettiva, una metafora impersonale, senza soggetto,
caricata di linee di intensità, di forme riflesse nell'epurazione della luce o nel suo oscuramento .

« Il miracolo riflesso dell'atto fotografico », « scrittura automatica dell'evidenza del mondo»: linea di scissione, di frattura nel quadro della figurazione; tale l'evidenza perfetta d'un dettaglio, minuscolo, inutile, insensato, che pure puo' salvarci dal non-senso generalizzato, deludente della visione d’insieme.


L’immagine é catturata nell'immobilità di un momento fissato nel tempo e nello spazio;
una morte simbolica, annunciata della cosa in cambio della sua risorgenza fotografica.
L'oggetto scompare, il soggetto anche, eclissandosi dietro l'obbiettivo e in questa
« sparizione reciproca » dei due si opera la trasfusione, la metamorfosi dell'atto poetico.
L' immagine si dà come « un'evidenza pura, senza intercessione, concessioni, fioriture ».
Non parla di realtà ma di quello che resta indecifrabile, estraneo in ciascuno di noi,
il “folle genio della realtà, felice o miserabile”, umano o disincantato che non vuole testimoniare di nulla.
L'avvenimento qui non ha propriamente luogo; « l'avvenimento é il momento fotografico stesso», la cosa che si rivela senza svelare propriamente il senso,
l'eterna metafora rubata al luogo, illuminata nello spazio di un istante, nel tempo d'un dettaglio,
il soggetto estraniandosi, l'oggetto retrocedendo, « guardando altrove » in questa irruzione insperata, inattesa, incomprensibile dell'Altro.

Il contro-transfert prodotto dalla fotografia quando riesce veramente a toccarci, passa dalla proliferazione anonima d' immagini nell'attualità del quotidiano , dalla prostituzione spettacolare delle medesime alla forma-segno, alla traccia non-mediata del poetico.
Si potrebbe parlare di « punctum », con Barthes come del momento decisivo, incisivo, ferente dello scatto fotografico, ma anche differentemente, del passaggio percuotente, percettivo che quella stessa immagine evoca in chi la riceve . Per Baudrillard si tratta di « liberare il reale del suo principio di realtà perduta », da un presunto realismo che si limita a mostrare « quello che é e non dovrebbe essere »; foto moralizzante, sdoppiata dalla verosimiglianza, sottotitolata dal senso comune, fino a re-investirla d'una dimensione « ironica, fatale, spirituale o cinica ».




Attraverso l’immagine (fotografica /poetica) il mondo impone la sua immediatezza visiva, negazione di un reale scomodo, iniquo nel suo complesso, per far apparire una discontinuità significante di frammenti, sorti come la possibilità di un’altra versione.

Voler incrinare, produrre una fessura, voler destituire lo specchio trasparente, ideale, apparentemente innocuo della rappresentazione dando spazio all’anti-filosofia della materia,
alla de-connessione degli eventi, alla successione aleatoria degli avvenimenti.

L’atto fotografico é un confronto feroce, face à face violento, duello all’ultimo respiro,
il più arduo che si possa immaginare , tra l’obbiettivo e l’oggetto, tra il punto di vista volontaristico, la ricerca d’una somiglianza, la volontà di imporre una visione
e l’evidenza pura, inconfutabile, anti_concettuale dell’immagine come avvenimento.

L'irruzione del discontinuo ,dell’aleatorio, dell’estraneo delle cose,
arresto istantaneo sul mondo,
l' anti-rappresentazione dell'oggetto,
la sparizione della cosa reale in sé,
lo scarto rispetto a un senso comune,
l’eclissi del soggetto che impone uno sguardo.
Lasciar posto al “divenire-immagine di”

“Chi fotografa deve saper trattenere il respiro, fare il vuoto nel tempo e nel corpo perché la superficie mentale sia tanto sgombra quanto la pellicola.
Fare il vuoto in sé e intorno a sé in una specie di occlusione iniziatica”. Non proiettare direttamente la soggettiva nell’immagine ma lasciar produrre il mondo come "avvenimento singolare, intensivo, senza commenti”.
Sarebbe dunque questo momento di “suspense, di siderazione a-temporale”, d’immobilità nell’istante, d’arresto sul fenomeno, l’arresto propriamente dell’immagine fotografica.











Immagini fotografiche di André Kertész

Polaroid:
11 aprile 1979
26 gennaio 1980
17 novebre 1979
17 agosto 1981




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