martedì 28 aprile 2009


Rompere le linee: cercare la discordanza, l’incoerenza. Dentro la forma unica si disegnano delle sonorità particolari, delle singolarità irriducibili: l’esplosione di una risata che scivola, incontenibile sembra, gioiosa, giubilatoria, esplosiva nei suoi diversi gradi di intensità fino a toccare il gemito e il pianto.
L’emozione distaccata dalla sua semplice origine, interrogata sotto diversi aspetti e in temporalità differenti può esprimersi, deformarsi o instaurare una dinamica complessa di eventi su una scena.
Cosa ci mostra, ci svela, ci rende al più fuori di noi stessi
Cosa ci mette in pericolo, a rischio, al più dentro delle nostre paure, dei nostri demoni interiori,
li' in quel punto dove diventiamo vulnerabili, incapaci di reagire, piegati su noi stessi e,
per questo, tanto più ricettacoli di quello che passa intorno a noi in uno spazio-tempo abitato che chiamiamo esistenza.

Ed allora, é come se quell’ errore perpetuo, quella smagliatura impercettibile nella rete,
quella cosa dell’ordine della dissonanza, dello “scarto ”, dell’aritmia piuttosto che della sincronia, _quel non poter stare dentro gli schemi, evadere la forma, deridere la serietà della cosa,
la monumentalità dell’immagine ricevuta_ allora é come se quello scarto di fondo scavasse uno spazio di singolarità nell’unisono di voci, nel modo di reagire, di muoversi, di rispondere,
nella differenza minimale che fa l’unicità di una singola presenza.

sabato 25 aprile 2009














Il mare penetrava allora dallo spessore dei capelli fino alla memoria.” M.Duras



Appropriare luoghi di sensazione,
zone d’esistenza fluida dove il mondo esterno e quello interno si confondono in un’ espressione unificante dei sensi.
Infrangere i limiti tra realtà e visione,
tra il movimento e l'immobilità,
nella parola o nel silenzio, per appropriare questi stati singolari d'esperienza.

Estate: l’immagine di braccia nude, la nudità di corpi esposti al calore del sole,
la pelle che trasuda in colori accesi, vivi, brillanti.
Frutti maturi: pesche rosse, meloni gialli, il rosa di angurie al culmine della loro maturazione;
la luce estiva, la piena luce del mezzogiorno:
il mare, l’acqua ovunque.
Immergersi, tornare a distendersi al sole.

La sensualità di corpi abbandonati al piacere dei sensi,
complici di carezze e baci, colmi di tenerezza e indolenza,
avvolti nel calore languido dell’estate.

martedì 21 aprile 2009



La perennità contro la distruzione. Fa un po’ paura pensare alla transitorietà di tutto, alla dissoluzione di un volto, di un linguaggio, di una forma di fronte agli occhi;
e vedere che quello che pensavi di possedere, d’essere, di significare,
vederlo cadere così, ai tuoi piedi, come una pozzanghera d’acqua, come la tua immagine dissolta di fronte a te negli specchi.


Il soffio e il grido,
il respiro e il pianto,
la forza e la delicatezza,
la paura e la sfrontatezza,
l’audacia di chi non respira, non riflette e si getta a capofitto del momento facendosi male,
la codardia di chi indugia troppo e resta immobile di fronte all’azione.

Cerchi la sensualità del tuo essere femminile aperto, espanso, gioioso, che si riveli al mondo senza riserve: il fare dell’amore e insieme la violenza del suo desiderio


Vuoti a riempire, a cui dare forma, da danzare anche; panni sporchi da lavare,
magliette sudate, fatte dei nostri errori, dei nostri sudori, de nostri liquidi corporei, umori e sbavature fuori dai contorni…

Questa magia bianca, la musica…
Il suo viaggio ogni volta ci porta ad attraversare noi stessi,
strati sovrapposti di vita, d’esperienze, di memorie,
buchi neri, cicatrici, cuciture non ben suturate;
le fessure, gli spiragli, lì dove la cosa trasuda, scivola, scorre fuori,
e piange lacrime e sale senza parole.
Tutto può passare attraverso la musica, qualcuno ha detto…


sabato 18 aprile 2009

Dall’incontro con una pièce di Butô...


Spazio enigmatico e misterioso quello il butô scava, apre, lascia affiorare lentamente attraverso la scena: come tornassimo attraverso la danza al segreto, al mistero, all’indicibile celato nelle cavità del “corpo oscuro”.
Viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio:
lo spazio virtuale che il danzatore-poeta ridisegna ad ogni istante attraverso una geografia di gesti immaginari, passando per l’emissione della voce, dal grido al respiro.


Lo strato impalpabile del bianco liquido di cui si ricoprono i corpi nudi, i crani rasati come avessero perso ogni segno della loro precedente individuazione;
come cercassero volutamente questa specie di perdizione o stato di non-esistenza nel ritorno all’atto di una nascita mai conclusa. E’ quello che vediamo in scena nel butô dove i corpi sembrano evocare, anche fisicamente, questo stadio embrionale di un’increato non-creato del
mondo.
Il corpo trasparente, incostituito dell’origine é preso
nell’atto di nascere a sé stesso o forse prigioniero nello stato di un’eterna non-nascita e come avvolto nella materia,liquida, vischiosa trasparente del prima: tale la patina bianca e quasi invisibile che ricopre la pelle nuda dei danzatori.



Depossessione, perdita del sé: lasciare cadere, a poco a poco, le stratificazioni, le barriere, gli strati multipli di immagini sovrapposte che compongono l’apparente integrità del nostro essere ideale.

Una scena nuda immersa nel nero, rotta da cerchi di luce lunare entro i quali si muovono i corpi, ognuno in un microcosmo a sé. Oltre il tempo e lo spazio presenti, oltre l’ energia negata di un soggetto, d’un’esistenza, di una forma un’altra dimensione emerge qui : lo spazio di una luce riflessa che dissolve lentamente nell’oscurità dove gli esseri e le cose cominciano a prendere vita come se qualcosa di strano, di invisibile e segreto si animasse in loro. Come se gli spiriti dei morti o dei “révenants” tornassero in vita attraverso la loro carne; sempre e comunque le forze animate che abitano questo mondo fantasmatico delle origini.


Il linguaggio gestuale, corporeo di questi danzatori é estramente potente, chiaro, nitido: presente d’una presenza totale nella lacerazione intima e dolorosa di gesti individuali come nelle parti corali sviluppate in un unisono di voci . Ora sono figure contratte, irrigidite fino all’inverosimile,
in altri momenti, forme fluide, ondulatorie grazie al movimento continuo della colonna vertebrale, dalla spalle al bacino.
Cerchi di luce disegnati da gesti strani, da corpi contorsionati, da movimenti lenti che li distorcono, li irrigidiscono li contraggono, ora li piegano in forme sinuose, morbide, ondulatorie.
E ancora sono le espressioni deformate fino all'inverosimile dei volti. Grido incomprensibile di un dolore senza nome; il tormentarsi di fuori di corpi silenziosi di dentro.


La danza, allora, com’é usata nel butô? nella sua possibilità infinità di un linguaggio fisico, cinestetico e teatrale. Ritrova la parola-battito, parola-corpo orchestrata perseguendo su una linea unitaria collettiva oppure nell’esplosione dolorosa di singoli micro-cosmi in sé. La cosa che viene fuori a tratti come per una deflagrazione violenta e esplode in intermittenze senza sapere come ne perché.
Quello che sembra dirci il butô infine, é che il primo luogo del teatro é il corpo. E’ li’ che si ritrova quella “crudeltà” convocata da Artaud nella sua visione di un teatro come affermazione di una “terribile e d’altronde ineluttabile necessità”[1]:
“dilatare il corpo della mia notte interna, del niente interno che é il mio io, che é notte, niente, irriflessione ma esplosiva affermazione che c’é qualcosa al quale fare posto: il mio corpo”(51)
E ancora, la danza é usata qui nella sua possibilità infinita di linguaggio teatrale.
Essa é potente e esplosiva riaffermazione di un gesto ancora insottomesso, quando emerge spontaneo, involontario, violento come un grido.
L’uso primo e potente di un linguaggio che infine agisca, renda presente, faccia vedere convocando attraverso una dimensione teatrale nel corpo.
Il teatro é già in questo corpo messo in scena prima di ogni altra significazione.

Secondo Hijikata: “ il butô é un corpo che sta disperatamente”.
Strati di polvere come memorie sedimentate nel passaggio continuo del tempo.
Queste tracce sono cio’ di cui il butô va alla ricerca: uno spazio-tempo altro entro il quale una memoria arcaica e vivente possa ricominciare a esistere e prendere forma.

Un danzatore al centro di una scena vuota, immerso nelle ombre della propria oscurità.
Un corpo preso in un’immagine incomprensibile di sé : estraneo, irrisorio, inquietante a prima vista.
Li’ é dove la danza butô inizia.





[1] Antonin Artaud, « La question se pose de » in Pour en finir avec le jugement de dieu, Gallimard.

martedì 14 aprile 2009

Souffle



Il fluire inconsapevole di un respiro primordiale
supera le barriere della coscienza nel suo richiamo agli strati più arcaici della memoria corporea.
Parlare, tacere, sussurrare, urlare, gridare, mormorare;
canticchiare, sospirare, inspirare,
ansimare, sentire in qualsiasi forma il mormorio incessante del linguaggio.
Tutto passa attraverso la voce, emissione del corpo: un corpo-parola ma anche un corpo-presenza,
in atto attraverso il suo respiro, dentro il suo movimento.

Forse una delle cose più antiche e primordiali che l’uomo ha scoperto di possedere...
Il gesto rivelatore di un corpo rappresenta sé stesso attraverso il fare del linguaggio, un fare quotidiano portato qui su un piano rituale.
Qualcosa di semplice e primordiale come le impronte di mani lasciate sulle grotte preistoriche agli inizi della storia;qualcosa di sempre esistito, scritto là dall’inizio, ma rimasto come occultato per secoli e che ritroviamo nella commistione di identità e di forme, nel fare impuro del teatro contemporaneo.

La durata interiore e quella esteriore ... coincidono mai nella vita come su una scena?
in quale relazione si trovano? Come cambia un’azione vista dall’esterno e vissuta dall’interno, cioè come quell’energia dinamica, quell’eccitazione pulsionale che muove e fa muovere, quel ritmo velocissimo che d’un tratto sento battermi dentro, che cosa si vede al di fuori di tutto questo quanto resto lì, preso nell’immobilità di un gesto nello spazio;
Quanto é efficace all’esterno questa azione e come posso renderla ancora più efficace, condurla al massimo della sua portata, nel pieno del suo potenziale espressivo perché essa possa essere ricevuta, compresa e pienamente raggiunta nella sua totalità ?

Lasciarsi cadere, dissolvere al suolo fino a divenire uno con esso- un “partner invisibile”.(M.Wigman) Espandersi nello spazio, allungarsi oltre i limiti della propria pelle poi, ridivenire piccoli, rannicchiati al suolo, ripiegati su sé stessi e come preda di forze estranee, aggredenti.
Intensità ma anche tensione immobilizzante.
Questa energia fluida che sento scorrere in maniera disordinata, pericolosa, incontrollata a volte per poi lasciarmi nudo e vuoto, in uno stato di dispersione mortale: “vedo disciogliermi in acqua fuori”; sono liquido, trasparente, diffuso dentro gli esseri e le cose e la morte, allora, é questa macchia lenta e incolore che ora mi prende, m’afferra e lentamente mi divora.




venerdì 10 aprile 2009











Projection : pousser la chose jusqu’au bout, voir où elle va vous conduire , franchir les limites du soi. Vedere nella proiezione del sé oltre l’attimo presente

Vedere dove sono i limiti, dove va a finire un gesto spinto ancora e sempre più lontano.

Proiezione oltre il sé: uscire dalle trappole mentali dove restiamo troppo spesso imprigionati, sottomessi ai limiti fisici e psichici di un interno che non riesce a liberarsi, a espandersi, a gridarsi fuori.

Un pensiero si libera dal corpo attraverso l’esperienza che facciamo del movimento, dentro la musica anche, quando siamo percorsi, abitati dal suo respiro. Scopriamo ad ogni istante un’infinità di cose attraverso questo attraversamento del nostro essere corporeo. C’è una forza spirituale, un significato più ampio che le cose assumono dal momento in cui non è più il semplice imitare una forma dall’esterno, apprendere una tecnica, uno stile . Un pensiero si rende indissociabile dal corpo,dal movimento, dal respiro poetico di ogni singolo gesto; è una sorta di sguardo più ampio, inclusivo, che tesse legami tra i differenti linguaggi e modi d'espressione per dare forma alle impulsioni che attraversano il nostro "essere in vita". Ne faccio l’esperienza attraverso la pelle, la carne, e questo scatena un pensiero, un sentire, la percezione portata all’ennesima potenza da tutti i sensi risvegliati nell’atto creativo.


E’ un corpo che pensa,che vive e esiste nell’atto di dare forma a sé stesso; allo stesso tempo, è un pensiero che si incarna, è una sensibilità che prende corpo attraverso la materia animata dal movimento.

Come si può ancora significare in questo modo, come si può ancora assumere pienamente quella figura, quell’abito, quel ruolo, quella forma ideale, o maschera, dopo il corpo glorioso decostruito a poco a poco attraversando la storia, la psicanalisi, la filosofia, il linguaggio, nell’esperienza dalla modernità ai giorni nostri? Eppure resta ancora qualcosa che vale la pena d’essere salvato di questo linguaggio, oltre la forma ideale del soggetto o del discorso: quello che fa della poesia la poesia, la sua forza, la sua intrinseca bellezza, il potere della sua interna espressione messo al servizio di un pensiero, di una visione del mondo, dell’esperienza singolare di ciascuno di noi nelle infinite forme in cui riusciamo a investirla, a metamorfizzarla.

martedì 7 aprile 2009


Il movimento nello spazio sposta la nostra percezione di...

Scopro il tempo come qualcosa di assolutamente soggettivo, interiore, effimero; lo misuro attraversando ogni giorno, da un luogo all’altro della città quando mi sposto per una ragione reale o immaginaria, nell’incontro con sconosciuti sulle metro’ affollate, attraverso i loro volti, anche quello é un altro modo di sperimentare il tempo; soffermandosi su un volto che ti colpisce oppure spostandosi dalla sensazione che uno sguardo o un’altro possono evocarti.

Attraversando le strade, perdendomi nello spazio sconosciuto di una città straniera senza più sapere dare un senso agli eventi del mio presente, in quelle momentanee cadute_ scopro questo volto interno, divorante del tempo misurandolo attraverso lo spazio che percorro_ lo spazio interiore, le voragini che s’aprono, allora, nel mio corpo_ quando sono inghiottito nella perdita interiore e l’immagine si discioglie liquida negli specchi come fosse qualcun’altro a esistere al mio posto…quando vivo in questa temporalità interiore stravolta, dilatata, immobilizzante, oppure che gira come un turbinio folle, inarrestabile dentro il mio corpo.

Lo scopro in quelle temporanee cadute, nel momento preciso dello smarrimento e solo dopo, con la coscienza che viene nell’ “aprés-coup”. Lo scopro misurandolo in quella distorsione della percezione, precipitando in me stesso, a vagare in un labirinto di strade senza fine.

domenica 5 aprile 2009


Ogni arte cerca una radice, si sposta sottilmente verso una frontiera mobile,
un limite instabile, qualsiasi esso sia da un linguaggio all'altro,un limite mai dato ma che sempre si allontana man mano che ci avviciniamo e gli tendiamo la mano come in un gioco di specchi deformanti, d’ombre che ci chiamano e ci spingono indietro a uno stesso tempo.
La poesia ritorna alle radici della lettera; in teatro si prende quel fantasma alle radici e lo si mette in scena fino a che il linguaggio risuoni insieme ad esso nello spazio.
La danza é a uno stadio ancora più primitivo perché scava alle radici dei corpi nei loro modi d’esistere, di ricordarsi, di entrare in relazione gli uni con gli altri, in tensione anche tra loro.
Riporta “l’avvenimento”
[1]dell’esserci in un tempo e in uno spazio reali;
restituisce visibilità, potere, autonomia al nostro corpo anche al rischio di sottrargli temporaneamente la parola.
Lavora con il “sentito”, il “percepito”, il muovente, il mosso, il rimosso, il trattenuto di tale avvenimento.
Luogo in cui il corpo si rivela sensibilmente;
un corpo a cui “accade”
[2] d’essere attraverso la danza.

Lo stesso respiro primordiale nella voce, nella scrittura, nella danza.
Siamo messi di fronte a una certa impossibilità: continuare a vivere e a muoverci malgrado questa impossibilità, si, a muoverci esattamente prendendola di contropiede questa forza restringente, un’ impossibilità che non si sa nemmeno come dirla se non_
la vaga sensazione di qualcosa, sensazione che ci lascia vuoti, delusi, scostanti, feriti.

Ci troviamo di fronte a questa cosa dell’ordine dell’impossibilità, là dove non ci sono parole_ dove parlare e tacere si scambiano vicendevolmente.
Abbiamo troppe parole e nessuna forma a prestargli.
Siamo messi di fronte a questa impossibilità;
barriere si ergono da ogni parte ai nostri piedi,
la forza d’inerzia ci inghiotte lentamente.
Resta un’apertura improvvisa, rivelatoria, gioiosa: quando il movimento resta un’apertura del corpo preso di fronte alla sua impossibilità; come prendendola contropiede questa cosa che ci lascia immobili, feriti ed é li’ tutto il tempo.
Una ligna virtuale di scrittura messa in gesti: inventiva, innovativa, via d’uscita, di soccorso d’avanti all’impossibile, l’indicibile.


[1] Cfr. Laurence Louppe, Poétique de la danse contemporaine, la suite, Bruxelles, Contredanse, 2007
[2] Ibid ;,

mercoledì 1 aprile 2009















Richard Avedon
: « Il punto é che non puoi raggiungere la cosa stessa, la vera natura del soggetto strappandolo dalla superficie. La superficie è tutto quello che hai. Puoi solo andare oltre la superficie lavorando sulla superficie, con la superficie. Tutto quello che puoi fare è maneggiare ( attraverso il gesto, il linguaggio, l’espressione)in maniera radicale ma corretta”.


Instabile, intensa, allucinatoria, l’esperienza della fotografia in questo va e vieni tra realtà e finzione; insieme io e la macchina, nel nostro potere di fare e distruggere. Le foto, infine, assumono una presenza terrificante e meravigliosa oltre il mio volere”.


La macchina fotografica diventa testimone silenzioso dell’intenso faccia a faccia che passa tra il fotografo e il soggetto. Affacciarsi all’obbiettivo per guardare quello che non si é mai visto: non la mia proiezione sull’altro ne la persona che è là nell’atto di guardarmi ma il momento della nostra duplice, autentica connessione”.

Riduzione, stilizzazione: “ho lavorato su una serie di no: no alla luce perfetta, no alla composizione apparente, no alla seduzione delle pose o della narrativa. E tutti questi no mi hanno portato a un si: uno sfondo bianco, la persona che mi sta di fronte e la cosa che possa tra lui e me”.

L’istante che la foto è presa muore”. Una piccola morte dell'immagine, l’erotismo insito nell’atto del guardare, nel farsi strada dello sguardo alla visione.


Essere umani significa essere densi, mutevoli, contradditori, intensi”[1], presenti in questa complessità, in questa duplicità tra l’alto e il basso, l’animalità che ci salva e quella che ci distrugge. Vivere insieme con la luce e l’ombra, essere insieme socievoli, sociali, avidi di vita,
del mondo e allo stesso tempo soli, tragicamente lasciati a sé stessi a seguire la propria voce interiore, tirannica, distruttiva, senza difese per non esserne sopraffatti.
Essere energia, spinta verso l’avanti, gettati fuori in un futuro aperto e sconosciuto e, insieme, piegati su se stessi, incapaci di reagire, schiavi dei propri circoli interni di senso.
Connessi alle forze animate dell’universo come da un’energia che circola tra gli esseri e le cose: un’esperienza emozionale che va a toccare qualcosa di primordiale, molto antico. “Trattando con la luce una vita intera come non avere la percezione di questo mistero”[2].
Perché l’immagine non deve chiudere ma lasciare aperto il soggetto, come qualcosa che supera il carattere individuale, prettamente personale del momento che l’ha generata. Un insieme di tratti accidentali e assoluti; una superficie incisa di luce.

In uno spazio e un tempo dato siamo insieme un questa connessione totale con il grande respiro: “un’arma tra le nostre mani”.

[1] Estratti di un’intervista realizzata dal fotografo americano Richard Avedon pubblicati sul catalogo Richard Avedon, Portraits, New York, 2002.
[2] Ibid.