sabato 18 aprile 2009

Dall’incontro con una pièce di Butô...


Spazio enigmatico e misterioso quello il butô scava, apre, lascia affiorare lentamente attraverso la scena: come tornassimo attraverso la danza al segreto, al mistero, all’indicibile celato nelle cavità del “corpo oscuro”.
Viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio:
lo spazio virtuale che il danzatore-poeta ridisegna ad ogni istante attraverso una geografia di gesti immaginari, passando per l’emissione della voce, dal grido al respiro.


Lo strato impalpabile del bianco liquido di cui si ricoprono i corpi nudi, i crani rasati come avessero perso ogni segno della loro precedente individuazione;
come cercassero volutamente questa specie di perdizione o stato di non-esistenza nel ritorno all’atto di una nascita mai conclusa. E’ quello che vediamo in scena nel butô dove i corpi sembrano evocare, anche fisicamente, questo stadio embrionale di un’increato non-creato del
mondo.
Il corpo trasparente, incostituito dell’origine é preso
nell’atto di nascere a sé stesso o forse prigioniero nello stato di un’eterna non-nascita e come avvolto nella materia,liquida, vischiosa trasparente del prima: tale la patina bianca e quasi invisibile che ricopre la pelle nuda dei danzatori.



Depossessione, perdita del sé: lasciare cadere, a poco a poco, le stratificazioni, le barriere, gli strati multipli di immagini sovrapposte che compongono l’apparente integrità del nostro essere ideale.

Una scena nuda immersa nel nero, rotta da cerchi di luce lunare entro i quali si muovono i corpi, ognuno in un microcosmo a sé. Oltre il tempo e lo spazio presenti, oltre l’ energia negata di un soggetto, d’un’esistenza, di una forma un’altra dimensione emerge qui : lo spazio di una luce riflessa che dissolve lentamente nell’oscurità dove gli esseri e le cose cominciano a prendere vita come se qualcosa di strano, di invisibile e segreto si animasse in loro. Come se gli spiriti dei morti o dei “révenants” tornassero in vita attraverso la loro carne; sempre e comunque le forze animate che abitano questo mondo fantasmatico delle origini.


Il linguaggio gestuale, corporeo di questi danzatori é estramente potente, chiaro, nitido: presente d’una presenza totale nella lacerazione intima e dolorosa di gesti individuali come nelle parti corali sviluppate in un unisono di voci . Ora sono figure contratte, irrigidite fino all’inverosimile,
in altri momenti, forme fluide, ondulatorie grazie al movimento continuo della colonna vertebrale, dalla spalle al bacino.
Cerchi di luce disegnati da gesti strani, da corpi contorsionati, da movimenti lenti che li distorcono, li irrigidiscono li contraggono, ora li piegano in forme sinuose, morbide, ondulatorie.
E ancora sono le espressioni deformate fino all'inverosimile dei volti. Grido incomprensibile di un dolore senza nome; il tormentarsi di fuori di corpi silenziosi di dentro.


La danza, allora, com’é usata nel butô? nella sua possibilità infinità di un linguaggio fisico, cinestetico e teatrale. Ritrova la parola-battito, parola-corpo orchestrata perseguendo su una linea unitaria collettiva oppure nell’esplosione dolorosa di singoli micro-cosmi in sé. La cosa che viene fuori a tratti come per una deflagrazione violenta e esplode in intermittenze senza sapere come ne perché.
Quello che sembra dirci il butô infine, é che il primo luogo del teatro é il corpo. E’ li’ che si ritrova quella “crudeltà” convocata da Artaud nella sua visione di un teatro come affermazione di una “terribile e d’altronde ineluttabile necessità”[1]:
“dilatare il corpo della mia notte interna, del niente interno che é il mio io, che é notte, niente, irriflessione ma esplosiva affermazione che c’é qualcosa al quale fare posto: il mio corpo”(51)
E ancora, la danza é usata qui nella sua possibilità infinita di linguaggio teatrale.
Essa é potente e esplosiva riaffermazione di un gesto ancora insottomesso, quando emerge spontaneo, involontario, violento come un grido.
L’uso primo e potente di un linguaggio che infine agisca, renda presente, faccia vedere convocando attraverso una dimensione teatrale nel corpo.
Il teatro é già in questo corpo messo in scena prima di ogni altra significazione.

Secondo Hijikata: “ il butô é un corpo che sta disperatamente”.
Strati di polvere come memorie sedimentate nel passaggio continuo del tempo.
Queste tracce sono cio’ di cui il butô va alla ricerca: uno spazio-tempo altro entro il quale una memoria arcaica e vivente possa ricominciare a esistere e prendere forma.

Un danzatore al centro di una scena vuota, immerso nelle ombre della propria oscurità.
Un corpo preso in un’immagine incomprensibile di sé : estraneo, irrisorio, inquietante a prima vista.
Li’ é dove la danza butô inizia.





[1] Antonin Artaud, « La question se pose de » in Pour en finir avec le jugement de dieu, Gallimard.

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