domenica 11 marzo 2018

Il senso de “La gioia” secondo Pippo Delbono ( all' Arena del Sole, Bologna)





















All’inizio di ogni spettacolo, afferma Delbono, c’è una scena vuota immersa nell’oscurità, uno spazio lasciato all’affiorare, al manifestarsi o emergere del teatro. Nel prologo a “La gioia”, pochi fiori innaffiati artificialmente spuntano dai vasetti di plastica al centro della scena quasi che l’attore volesse prendersene cura, farli crescere e diventare rigogliosi in mezzo all’oscuro vuoto circostante . Alla fine di tutto, invece, c’è un tappeto di foglie colorate, di humus e terra viva che letteralmente ricoprono e trasformano il palco in un suolo pulsante di vita, un campo fiorito e un arazzo di ghirlande discese dal cielo. Lì forse, in quel tragitto, nel susseguirsi di immagini, corpi e parole che riempiono e poi svuotano la scena, lì appunto è già delineato un senso possibile al suo teatro, una strada aperta e, ancora come afferma Delbono “ un tentativo, un viaggio verso quello stato o parola lì: la gioia”. Nulla di definito, dunque, dall’inizio dello spettacolo se non la voglia di  percorrere un cammino o aprire una via verso la risalita alla luce, all’ illuminazione interiore partendo da un punto che il regista definisce la morte, la caduta o il rapportarsi alla alla propria ineluttabile oscurità.

La gioia nella morte è secondo me un grande obbiettivo che bisogna darsi nella vita. E lo dico in un periodo della mia esistenza difficile, in cui sto combattendo contro i nemici, i demoni della mia testa. Ringrazio ogni giorno per il dono della vita, sono grato per le giornate in cui sono riuscito a lavorare, a creare qualcosa per lo spettacolo, persino a cantare. Spero che questo spettacolo mostri la coscienza che non si giunge alla luce se non si passa dal dolore perché gioia vuol dire anche sincerità, onestà con sé stessi, amare qualcosa di intimo, di profondo anche se è difficile amare sé stessi”. ( Intervista per Avvenire).






In una delle prime scene dello spettacolo egli afferma ancora: 
“ sono guarito perché so perfettamente di fare il pazzo”, quasi aggiungesse, accetto la mia parte di follia, di oscurità e “buio feroce” per usare una sua altra metafora teatrale mentre la maggior parte della gente solitamente la rimuove, la nega o l’oblitera. Simili a quei buchi neri che si intercalano al montaggio tra le varie scene Delbono decide di lasciar essere tali vuoti con la consapevolezza che “tutto non si può comprendere, spiegare razionalmente ricondurre a una ragione logica”: la vita, la morte, la rabbia, la follia. Dunque una sequenza di personaggi o maschere eclettiche, barocche e grottesche sfila in primo piano in una parata che diviene un vero e proprio “elogio della follia” : una donna in abito bianco nel controluce oscuro del fondo appare elettrizzata nell’isteria folle e gioiosa del corpo, poi una maschera gotica in nero si risveglia dal sonno della ragione, ora una cortigiana seicentesca lussuriosa e barocca dall’abito magnificente di broccato e la parrucca rosso scarlatta. Infine, sfila una figura ieratica, seria e pallida che ritornando dal regno dei morti distribuisce rose rosse agli spettatori. Delbono stesso appare qui in proscenio rapito da tale stato estatico, quasi in una esaltazione folle del corpo nell’urlo prima di essere rinchiuso da una gabbia metallica che discende inesorabilmente sopra di lui dall’alto. Lì, l’uomo si confessa, si piega o si lascia imprigionare dentro il dover essere di una ragione assolutistica e imperante o forse solo di quello spleen esistenziale_l'oscurità e morte dell’anima_in cui il poeta ricade non smette di ricadere dall’inizio del suo viaggio.



Abbattuta la barriera tra attore e spettatore, Delbono scende in platea, sussurra e raccolta, narra e dialoga con il pubblico; di lì assiste lui stesso a quel rivelarsi di vita sulla scena nell’incontro inaspettato con l’altro, la serie degli attori e compagni di viaggio da una vita, tutti a lui alter ego e da sempre testimoni della condizione di marginalità, sofferenza o fragilità umana. Si presentano e si lasciano raccontare uno dopo l’altro in una serie di quadri  ora intimi ora estroversi e fantasiosi. La verità del monologare intimo, di poesia, a tratti sommesso, dolce e avvolgente della voce accompagna, esplosivo ora nelle interpolazioni musicali o nei momenti di gioiosa follia esuberante e barocca del gruppo .

 I frammenti del poeta Kikuo Takano si alternano alle immagini di Delbono; il racconto di un uomo che triste e malinconico aveva perduto la via della luce pur possedendo tutto quello che poteva desiderare, poi la storia di un taglialegna che era diventato folle, perso a sè stesso a causa del proprio lavoro, cui fa eco la metafora di Takano di “una scatola vuota chiusa con un piccolo coperchio”. “Se provo ad agitarla tutto è silenzio, se provo ad aprirla non trovo nulla. Torno a chiuderla, la scruto ancora in silenzio torno ad aprirla. Meno male, è proprio così? E così si svela il niente che contiene, ne l’anima ne Buddha. Meno male. E’ proprio così? Finisco qui. È proprio così?”






Una panchina spoglia si illumina al centro della scena dove d’ un tratto compaiono Bobo e Delbono; simili a Estragon e Vradimir di beckettiana memoria siedono in attesa nell’oscurità. I due si domandano che fare, naufragati lì per caso sembra in quel deserto svuotato d'ogni presenza, si scambiano parole nel loro muto dialogare, si interrogano, non trovano risposte, pensano di impiccarsi ma poi restano lì ancora tutto il tempo ad aspettare mentre la scena si illumina a giorno e una serie di barchette di carta  sono distribuite qua e là da un passante.Delbono scivola via silenziosamente tra il pubblico. Bobo allora resta sullo sfondo della panchina ora decorata dai fiori e inizia un proprio discorso in una lingua incomprensibile, estranea o a lui sola; urla la propria verità, lascia o incide un segno, il proprio, lui un frammento di vita rubata a una inesorabile reclusione clinica, lui, un momento di intrinseca verità del teatro secondo Delbono.

Kikuo Takano, “Cielo”: “In quel tempo non mi chiedevo ancora il senso del cielo e della terra e avevo mani e piedi imbrattati di fango. In quel tempo felice era la mia parola, felice ero come quando la luce incontra l’acqua e il cielo incontra la terra. Felice ero come le foglie”





Una corte meravigliosa e grottesca, caricaturale e gioiosa, eclettica e fantasiosa di personaggi del sogno o dell’assurdo viene ora convocata sul palco, tutta la compagnia al completo; infine la scena si riempie di una distesa di fiori e foglie sulla quale ghirlande in composizione floreale dall’alto cominciano a discendere. Lì in quel prologo la voce evoca, richiama in un montaggio di frammenti poetici il risvegliarsi di un pensiero che troppo a lungo oppresso si eleva e, libero, “vibra come un fremito d’amore” accordandosi alle corde dell’universo. Il monologo parla allo spettatore, a ognuno di noi come a un singolo fiore della creazione perché si nutra di quell’atto d’amore, di cura che lo farà come il loto nella visione buddista rifiorire nel fango, percorrere il cammino dell’illuminazione e ritrovare la luce. Come si evoca nell’ultimo monologo de “la Gioia”: “L’amore infinito salirà nell’anima e il pensiero si eleverà libero e senza timore” quando la distesa di foglie e fiori lì convocata prenderà forza e vigore fino a rigenerarsi, ognuno nella propria inspiegabile unicità.