La “visione periferica”, filo
conduttore del festival “Danza Urbana 19”appena conclusosi a Bologna è uno
sguardo aperto, espanso, esteso sui luoghi della città attraverso la danza che
sceglie di non focalizzarsi sui centri d’arte, sulle scene o i luoghi
performativi per eccellenza ma che decide invece di includere nella propria
estetica spazi periferici o zone decentrate, quartieri in fase di
riqualificazione o siti abbandonati e in provvisoria ri-occupazione del
paesaggio urbano. La danza a Bologna decide di gettare uno sguardo su ciò che è
la città stessa nel suo divenire, nei sui limiti di agglomerato urbano e nel
suo potenziale di progettualità là dove
l’idea del cammino o dell’attraversamento fisico ed esperienziale dei luoghi permane come il gesto primo che
conduce a vedere, sperimentare o a prendere atto in prima persona di tale prospettiva
dislocata.
Partendo dal punto di vista focale del
nostro sguardo normalmente la nozione di centro, d’una piazza, d’una città o
d’un qualunque nucleo abitato, perfino
del nostro corpo, si oppone a quella di periferia, di bordi o di estremità. I centri sono normalmente identificati
con i “luoghi storici” per eccellenza
d’una città : le università, le chiese, le piazze, i musei, i monumenti detentori
d’una memoria collettiva iscrivendo nel territorio
traccia architettonica che permane nel tempo . Tuttavia, il centro rappresenta,
anche, storicamente uno spazio pubblico e di potere: là dove le persone
abitano, transitano o lavorano, si
incontrano e polarizzano energie, attività, alleanze o scambi commerciali; là dove si incrociano i punti nodali di
comunicazione nelle infrastrutture o nei trasporti, simbolicamente i punti nevralgici di relazione. I centri identificano anche
storicamente i nuclei di potere, la permanenza delle istituzioni e dei governi
ufficiali nella storia, le facciate imbiancate o i luoghi di silenzio delle
autorità, gli organismi di controllo o coercizione d’una legge che spesso non
si identifica con i reali bisogni dei cittadini.
A tali spazi pubblici saturati di
prescrizioni dei centri urbani dove tutto è definito, vigilato da telecamere, codificato
da una geometria inequivocabile di norme lo sguardo periferico scelto per questa “visione” di danza urbana risponde con
un punto di vista espanso e de- focalizzato sulla città che tiene conto,
appunto, delle aree periferiche, dei quartieri in espansione nelle periferie
urbane, dei movimenti di riqualificazione di antiche aree industriali o di
edifici in disuso, di tutti quei non-luoghi che nascono come occupazioni
provvisorie o abusive, non-istituzionali della contemporaneità.
Consideriamo una visione d’insieme del centro di Bologna: due modelli planimetrici si scontrano qui nella definizione del suo piano architettonico, quello ortogonale di derivazione romana e quello a raggiera della conseguente espansione medievale. Piazza Maggiore si definisce come il punto focale della città, centro nevralgico per eccellenza, con l’imponente basilica di San Petronio della fine del XIV secolo dai portali magnificenti intarsiati da Jacopo della Quercia e la fontana del Nettuno al centro: il Dio del Mare dalle forme imponenti scolpite in lucido bronzo vi appare circondato dai suoi putti alati; getta il suo sguardo sulla piazza come divinità solenne e aurea, sorvegliando dall’alto, il dito della mano destra sollevato a giudizio perentorio su casuali passanti e cittadini. Gli ampi portici ereditati dall’architettura medievale disegnano il contorno della città in archi a tutto sesto, regolari e leggeri, simmetricamente scanditi da pilastri e colonne che controbilanciano la natura aerea delle arcate aprendo sulle vie principali della città uno spazio mediano di incontro tra il pubblico e il privato: zone di espansione delle attività commerciali o degli scambi sociali, zone di transito o di passeggio cittadino dove i turisti incuriositi si soffermano d’avanti alle vetrine dei negozi colmi di succulente specialità bolognesi; divengono infine occasionali ripari per i pedoni distratti, sprovvisti di ombrello durante scrosci di piogge impreviste. Dunque l’immagine del centro della città si espande e si apre a raggiera a partire dalle due strade principali adiacenti a Piazza Maggiore fino alle varie porte che ancora costellano i tratti delle mura medievali. Della piazza sono i suoi palazzi rossicci e ocra per il colore dei singolari mattoni, delle arcate a tutto tondo o ogivali, delle finestre bifore, degli smerli_ il Palazzo di re Enzo, dei Podestà o Comunale_ rosso il colore delle tende che ne ricoprono le finestre a stendardo in esterno, rossicce in laterizi le insegne delle famiglie senatorie che qui governarono tra il ‘500 e il ‘700, rosso, ancora, decisamente il colore della sua identità politica storicamente e per tradizione. Antico il centro di Bologna, costellato in passato dai palazzi e dalle torri gentilizie- due le più famose a simbolo della città - dalle corti e dagli edifici universitari del più antico ateneo d’ Europa, oggi appare in soqquadro, soggetto a lavori di ristrutturazione e rifacimento di alcune aree urbane, via Indipendenza per esempio chiusa alla circolazione di auto e mezzi pubblici. Oggi il suo volto appare più che mai meticcio, mischiato, impuro miscuglio di migranti, flussi migratori di diverse provenienze, di gente in transito per affari o spostamenti, di studenti arrivati nell’eterna città universitaria, e poi ancora trasudando sui margini quegli esuberi non riassorbiti del mondo capitalista quali i marginali, i mendicanti, i clandestini o i barboni senza alloggio, gli illegali transitando in diversi traffici nelle strade.
I termini di margini e centro, periferia e nucleo di potere appaiono in questo modo sfumarsi, rendere meno netti i propri confini perché la città diviene sempre più uno spazio meticcio, soggetto spesso anche nel centro a condizioni di degrado e di incuria di alcuni dei suoi siti storici per mancanza di fondi o d’una progettualità sostenibile da un punto di vista architettonico. Allo stesso modo, in pieno centro, luoghi abbandonati o lasciati in degrado da anni sono stati soggetti a movimenti sociali di occupazione o riappropriazione cittadina come nel caso di Labas dove si è tenuta l’ultima parte del laboratorio di danza urbana; l’ex caserma Masini è oggi aperta al pubblico come spazio politico e sociale di occupazione provvisoria in attesa di un suo possibile rilancio da parte delle amministrazioni comunali. Una visione periferica è già qui, in questo sguardo gettato su un margine che può diventare un nuovo centro di potere se per centro intendiamo un luogo di identità e radicamento, un luogo dove inizia a esprimersi una presenza significante e a iscriversi una traccia comunitaria o collettiva.
Possiamo ri-significare un luogo a partire dalla nostra presenza o posizionamento in esso, cambiare il destino d’un luogo e aprire nella città spazi di scambio e connessione sociale per interrogare il presente e produrre consapevolezza al di fuori dei luoghi tradizionalmente consacrati alla politica o al sapere? Un modo forse per rispondere alla precarietà del presente, al destino annunciato d’una generazione “no-future” appare quello di riscattare la nostra ricchezza umana e sociale attraverso la creazione di spazi di pensiero e di idee, democratici e comunitari. Questo l’intento di Labas che ha riappropriato tale luogo inagibile del centro restituendolo alla collettività come spazio comune di circolazione di idee e di sperimentazione di linguaggi in attesa d’una sua possibile riqualificazione. Questo l’intento delle azioni svolte verso un rilancio dei quartieri marginali e periferici dell’anello che circonda il nucleo urbano bolognese, questo l’intento del pensare a un’architettura sostenibile per una città, questo l’intento dei movimenti in favore dei diritti umani contro la precarietà delle fasce sociali più esposte e verso una democratizzazione degli spazi collettivi, questo forse, infine, anche il senso degli spettacoli, degli incontri e o delle azioni performative svolte nello spazio urbano attraverso la danza in questi giorni a Bologna.
Sul
progetto e il workshop “Dancing around the world”
“Dancing around the world” è un
progetto performativo della durata d’un anno ideato dalla coreografa
statunitense Nejla Yatrin e dal videasta Enki che, spostandosi in venticinque
città nel mondo, prevede la creazione di performance “in situ” in seguito a un
periodo di residenza di due settimane nel corso del quale si esplora la
connessione esistente tra individui, movimento espressivo e ambiente.
Coreografie specifiche sono state
create sulle strade o negli spazi pubblici di New York, Berlino, Avignone, Istanbul,
San Salvador ecc. Le diverse comunità coinvolte nel progetto hanno dimostrato
l’impatto straordinario che la danza può avere sui luoghi pubblici e sulle
persone al punto di riuscire a modificare la percezione che gli individui hanno
degli spazi pubblici. Le diverse città sono divenute luoghi di consapevolezza
attraverso l’azione e la conseguente riflessione perché hanno permesso alle
persone di sperimentare direttamente che cosa significhi riscoprire uno spazio
abituale e percepire in esso un potenziale d’azione inimmaginato. Ciò ha
portato in luce alcune questioni centrali al progetto quali: “che cosa
significa la libertà di movimento, che cosa muove e fa muovere gli individui, che cosa li
connette in quanto esseri umani nella differenza specifica d’ ogni realtà
sociale, d’ ogni assetto politico , in quale misura si determina o si è
determinati dall’ambiente, si crea o a si subisce lo spazio, lo stato di cose
nel quale si vive. La danza attraverso questo progetto_ le improvvisazioni, i
workshop, l’evento conclusivo pubblico e la documentazione video fotografica
del medesimo_ si è rivelata come una pratica artistica, attraverso il movimento,
capace di creare interazione tra le persone, gli individui e l’ambiente, di
contribuire ad arricchire il tessuto sociale e collettivo d’una città. Il suo
linguaggio si è rivelato , infine, come uno strumento capace di dare potere a
una collettività, dimostrando come un’azione o il movimento espressivo di un
gruppo può incidere sulla percezione dei luoghi, sull’ambiente sociale ed eventualmente influenzarlo, o comunque
contribuire a produrne uno sguardo critico, distanziante. Anche a Bologna
l’azione performativa o, in ogni caso, il punto di vista d’una “periferica
visione” per la danza urbana si è reso
strumento d’un potere contro-discorsivo, d’una forza critica e di riflessione
che ha aperto la discussione su determinate dinamiche di potere e scelte di posizionamento
singole o di gruppo: centro e margini, abitabilità e precarietà sociale,
potenziale umano e sostenibilità per le nostre città contro il degrado oggi soggiacente,
infine l’affermazione di spazi di creatività e pensiero contro un’astenia
diffusa e un dis-funzionamento sociale asfittico.
Il progetto ha dimostrato come il
linguaggio artistico attraverso la danza può contribuire a rendere una città
spazio di scelta e non di destino, stabilendo una connessione diretta tra
l’ambiente e le persone che la abitano o semplicemente ne imprimono una traccia
al passaggio, coreografica e significante.