mercoledì 23 aprile 2014

Su “Distante prossimità”, alla galleria "Centrale for contemporary art", Bruxelles












Distant proximity” nello strano paradosso del titolo scelto per l’esposizione alla galleria “Centrale” d’arte contemporanea di Bruxelles è un rapportarsi al mondo esterno “vicino e distante” secondo una misura data dallo sguardo di ciascuno di questi artisti nei loro video, immagini o installazioni; come nel lavoro di Lauren Moffatt, emblematicamente, una maschera-telecamera al centro del video separa e protegge dallo sguardo intrusivo di un esterno moltiplicato da una moltitudine di occhi tecnologici di video-sorveglianza e, allo stesso tempo, permette d’ essere immediatamente in rapporto all’esperienza, all’atto o al momento del vedere attraverso le forme o le sembianze del mondo fin dentro la tessitura della sua materia. Filma l’avvenimento d’uno sguardo portato sull’altro, in uno strano posizionamento d’un di-dentro di-fuori tra quello si presenta, mi guarda del mondo e ciò che d’ esso s’apre in me, mi risveglia, rimanda al mio proprio interno vedere. Il video gioca su questa interfaccia tra il guardare e l’essere guardati dall’esterno; una donna è filmata nell’atto schermato d’un guardare il mondo attraverso un dispositivo che la separa, la isola dal contatto diretto agli individui o alle cose e, insieme, le dà accesso a una strana prossimità con le medesime data nell’esperienza percettiva d’un “sentire”  attraverso la materia del mondo.


Da questi molteplici posizionamenti sul reale nascono lavori differenti, differiti rispetto a una realtà impossibile a darsi come entità di fatto, immutabile e “oggettiva” ma, invece, prodotta o meglio disegnata e costantemente ridefinita a partire dalla nostra attività percettiva, dai nostri sensi nell’avvenimento unico, ogni volta irripetibile, d’un incontro con il visibile. Diversi modi di guardare il mondo per questi artisti passano attraverso l’ esperienza conoscitiva del loro sguardo in una misura di distanza o di prossimità, di avvicinamento pur nella separatezza fisica alle cose, oppure in una voluta messa a distanza da qualcosa che è lì intimamente presente in loro, troppo vicino eppure non localizzabile, estraneo ma in una strana, intima soggiacenza. Qui, tutto questo è mediato attraverso il filtro dell'immagine nelle sue molteplici versioni di realtà provenienti dai nostri sensi.





Nella mostra le immagini video o fotografie di edifici urbani visti come forme massicce, solitarie su squarci desertici in cemento si alternano alle architetture nate da materiali di recupero, da detriti che danno vita a misteriose installazioni: reticoli di strade, città o mappature astratte di territori reali o immaginari.
Sono indici formali o sensibili colti sul territorio, disegni o video evocando un giardino o una dimora d’infanzia, infine creazioni di universi di “resistenza” abitati da immagini e suoni, da segni visivi e plastici di sopravvivenza in un mondo percepito come precipitando verso la propria distruzione .
Sono evocazioni della realtà, del proprio essere nel mondo come un rapportarsi allo spazio o all’altro secondo una distanza o una continuità definite dall’esperienza percettiva del mio sguardo, della mia “apertura corporea al mondo”:
Lo sguardo è gettato sull’altro, su ciò che aggredisce o spaventa, su ciò che attrae o ripulsa, o risveglia in noi altre memorie, altre sensazioni d’un vedere come un “sentire”, un entrare in contatto o in comunione con le cose attraverso un costante ri-aggiustamento del nostro obiettivo sull’esterno.
Avvicinamento, messa a distanza, deformazione ottica, sfocatura intenzionale, attenzione al dettaglio. Un volto in primo piano, nessuna oggettività, una presenza simulata, nessuna verità, l'occultamento quanto la tensione costante d’una rete di fili tesi fatti cortocircuitare tra il fenomeno percepito, lo sguardo e quello che supera l’intenzionalità nella mia interna visione. Un guardare attraverso i sensi, con l’intelletto o dall’intero spazio del corpo.


Lauren Moffatt  (Proiezione video tridimensionale in bianco e nero)

Nelle gallerie d’una metro di notte una donna è filmata, un casco-telecamera sul volto, nell’atto di guardare tutto ciò che la circonda, d’osservare la gente che l’osserva su treno in corsa nell’oscurità, poi in uno studio cinematografico su un sofà raccontandosi di fronte a un interlocutore invisibile .


Il set cinematografico è attraversato da linee tranviarie conducendo obliquamente fuori dalla scena, poi il primo piano è sul volto della donna.

La violenza del vedere e dell’essere visti”,
nei passaggi metropolitani di notte, nei cunicoli ristretti e senza respiro, nei vicoli ciechi,
nei passaggi al nero.
"Nulla a difendervi contro lo sguardo dell’esterno; l’immaginazione diventa ossessione".
Vede la sua pelle liquefarsi infiltrata, bucherellata, in una miriade di piccole aperture, spugnosa dissolvere al contatto con l’estremità, lo sguardo o i limiti degli altri corpi;
sente insinuarsi il loro pensiero attraverso il suo spazio abitato, è come divorata dal contatto al mondo. Per questo sceglie di disumanizzare la propria apparenza, rivoltare quella violenza , rifrangerla verso l’esterno prima che giunga a lei, farla rimbalzare e cambiare di segno, renderla inoffensiva del suo potere distruttivo e rimetterla in circolo semplicemente come carica elettrica mossa fluidamente dall’una all’altra direzione: il pensiero, i sensi, il risvolto interno, le pieghe esterne del suo io .
Una maschera, uno schermo simile a uno specchio in acciaio con una telecamera filtra tutto quello che le passa attraverso. Come una seconda pelle fortificata.


Guarda la gente sulle metro, svia lo sguardo, poi, paradossalmente loro sono invitati a guardarla a loro volta. Quello che vedono è un altro volto, uno schermo, una parete traslucida e rifrangente. Treno in corsa di notte; l’immagine dall’interno d’una galleria o camera oscura mostra una percezione frammentata, sovrapposta ad altre impressioni di volti o ad altre figure sulla metro, proiettata contro i vetri neri. Nell' oscurita' i corridoi proseguono all’infinito, sfumano perdendosi nelle gallerie sotterranee dei cunicoli metropolitani.










Nicolas Moulin








 





L’osservazione del paesaggio urbano e dei suoi sintomi in una commistione di elementi storici, architettonici o di suggestioni fantascientifiche . Le visioni di città desolanti, impersonali, fredde, immerse nel grigiore d’una totale assenza d’umanità si alternano alle mappature astratte di reti di comunicazione, di grovigli di strade o di centri abitati. Le carte ridisegnano labirinti di linee colorate simili a mappe di radar satellitari o di rotte aeree. Divengono cartografie di cieli stellati, reti di comunicazione spaziale fatte di linee e punti, ora mappature cosmiche illuminate a luce elettrica da improvvisi bagliori in rilievo sulla densità delle linee del tracciato.






Nelle fotografie è l’onnipresenza di edifici inquietanti, megalitici, grigi in periferie di città viste fuori da ogni riferimento storico o da ogni reale identità geografica. Epurate d’ogni segno di presenza umana. Vediamo un edificio denominato “Grusshaus” erigersi, dominare all’interno d’un paesaggio risolutamente impersonale, non localizzabile in una realtà concreta, in un momento storico definito. E’ restituito come una costruzione di parti interscambiabili simile al montaggio lego di mattoncini grigi in diverse forme e dimensioni arrivando a comporre l’ edificio in un parallelepipedo astratto, tridimensionale fatto di riquadri traforati, di pieni e di vuoti  in un diagramma plastico della realtà. La sua struttura asettica, forzatamente grigia è restituita come una concrezione necessariamente atona, in cemento, senza cromia possibile nella sua dis-umanità o "dis-abitabilità". E’ un mondo ricondotto alle sue primarie strutture , una realtà che non concede spiragli all’individuo o il respiro di un'altra soggettività, volutamente messo a distanza, sentito come estraniante, forse immaginato in una sua possibile proiezione distopica del futuro.
Forme megalitiche prendono potere esse solo sull’immagine in una visione alienante che esclude d’ogni prossimità all’umano. E’ un disegnarsi di linee oblique al suolo sottolineate dalle circolari urbane delle strade e d’ altre linee che si ripetono verticali verso l’alto, poi sui marciapiedi, sui riquadri in cemento degli edifici, nelle ombre dei medesimi contro la densità grigia del cielo. I vertici, gli angoli concavi che si aprono tra i lati esterni delle architetture sono questi punti di densità dove di annidano cumuli di oscurità, dove ricadono e vanno a scomparire le ombre degli edifici contrapposti all’uniformità diffusa e atona dell’insieme.


Peter Buggenhout, "The blind leading the blind



Parte dalla cecità, dal non-sapere, dalla “non funzionalità” di materiali che sono resti di precedenti oggetti o forme, rottami dei medesimi, pezzi di ferro vecchio raccolti da depositi di cose in disuso che vengono qui ricomposti, rimontati, ri-saldati insieme in un’opera grandiosa e grottesca di ferro ossidato ricoperto di polvere, magnifica e spaventosa, attirante e respingente insieme nella sua forma singolare, imponente, anomala. Simile a una grande nave naufragata da un tempo storico remoto si ricompone in un altro tempo virtuale dei detriti del precedente; fa pensare a un carro armato posto lì a guisa di grande monumento celebrativo magnificente del passato, ma qui fatto a pezzi dal prima, di mille pezzi di metallo ricomposto, vestale divinità ricoperta di polveri voluta proprio come indice d’una temporalità stratificata in esso tangibilmente.


Gli oggetti sono intrisi di memoria perché appartenuti ad altre epoche, ad altri individui, portatori loro stessi di questo filtro distanziante del passato, d’una loro intrinseca esistenza in rapporto alla prossimità di un nuovo presente. E’ materia-memoria quella che compone questa forma complessa, immensa, sfaccettata e quasi aberrante; è una materia intrisa di polvere come della densità del passaggio del tempo, come d’una durata data dal nostro rapporto alle cose, nelle relazioni simboliche o affettive che con esse stabiliamo. Dislocazione d’ apparenza, la scultura è scintillante ribollire di materia prima d’ogni altra definizione, la polvere, viscerale intrusione della medesima a contatto con l’ amalgama ossidata del ferro da cui poi emergerà la forma finita. La distruzione porta alla costruzione d’una nuova densità di cosa emersa per assurdo come opera; appare come un montaggio incongruo di parti, carro armato di residui e polvere, opera residuale e potente di cui la carcassa e insieme la forma in ebollizione misura da una parte la distanza prodotta dal filtro temporale – la corruzione del tempo o del vivente sulle cose- e dall’altra la prossimità con cui esse continuano a ripresentarsi, emergere e ribollire del loro sostrato di materia-memoria, a ricomporsi infine in nuove forme, in una continuità, in una metamorfosi, in un circolo tuttavia dal passato al presente e viceversa.








 








Valérie Sonnier “ La casa d’infanzia e il suo giardino selvaggio” (video e disegni)






Ogni vita contiene in sé il sostrato di un’altra vita, d’una vita passata, come dentro una casa abbandonata il fantasma o lo spirito della vita che in precedenza l’abitava . La memoria si impone nella sua inquietante stranezza, perturbante, per quello che guardando rimanda al nostro sguardo, per quello che d'essa s'apre fino a noi, invia, ci guarda o ci ri-guarda dai sepolcri inbiancati del nostro non-vedere.






Passi sulla neve, lampi improvvisi e pioggia a fiotti, nell’immagine video, ticchettante e ininterrotta cadono per dare accesso al giardino misterioso, a questa dimora antica e perduta dell’infanzia tra i grovigli di selva e l’interno illuminato nell’oscurità circostante. Nell’immagine sfuocata in tonalità di bianco e di nero la casa appare svuotata, completamente deserta con le grandi vetrate aperte sul giardino e tende di trine alle finestre. Al passaggio del vento è filmata in chiari-oscuri improvvisi, in rifrazioni di luce assoluta rimbalzando negli spazi vuoti, negli angoli prima lasciati all’oscurità, attraverso i pochi mobili rimasti, dallo studio alla libreria, uno specchio ovale, pochi oggetti. Porte e finestre aperte, il vento passa, arriva come una folata improvvisa, violenta, inaspettata spazza via ogni cosa conducendo direttamente al giardino. La casa e' ora vista dall’esterno, porte e finestre aperte, tende svolazzanti, solarizzata negli intensi chiari-oscuri, abitata da spettri, attraversata dal vento, abbandonata al groviglio di cespugli, avvolta, infine, in surreale presenza.



Michel Mazzoni

Il mio sguardo sottomesso a una realtà che tendo a pensare come oggettiva, immutabile si scontra contro l’intensità di quello che vedo non volendo vedere, di quello che fotografo non volendo fotografare, di quello che scrivo non volendo scrivere. L’inconscio ottico emerge contro all’intenzionalità del vedere e nella sua immediata periferia: è il compromesso tra l’immagine oggetto e l’immagine in quanto “esperienza percettiva”, avvenimento della coscienza, sguardo gettato nell’ apertura immanente della sensibilità dal corpo al mondo.
Tracce indiziali lasciate dall’uomo al suo passaggio sulla terra, nell'avvenimento del suo esserci, essere nel mondo attraverso segni e tracce sul suo spazio abitato sono le impronte storiche come tangibili memorie volutamente iscritte nelle architetture date, donate o “abban-donate” sul territorio ma anche i lasciti, i residui, ogni vettore di presenza comparendo in margine, de-territorializzando le asserzioni precedenti attraverso un baluginare di minuscole tracce, irrisori segni che ci salvano come fulminei bagliori nell' oscurita'.

Un ramo d’albero scintillante nel contro-luce d’ombra,
un chiarore lunare a mezzanotte, impronte su neve,
tracce di cespugli disseminati come baluardi in una radura deserta, passaggi elettrici d’auto viste a distanza nella notte, passaggi di individui sulle strade.
Vediamo scie planetarie di luce degli aerei nella notte,
edifici o architetture sul territorio, radar-antenne cellulari.
Un rullo di cemento coperto di fango liquido imprime le proprie impronte al suolo al passaggio.

Una strada conduce come una via dritta a un unico punto di fuga.
Una piccola crepa sul muro o sulla pelle, un taglio su un foglio di carta, un sigillo su una superficie.
Granuli di sabbia al suolo su una distesa desertica, tracce di gravità, del peso dell’uomo sul territorio, indici di presenza. Sferici, centripeti o a spirale, concentrici oppure elevandosi in verticale sono punti o strappi, interruzioni sulla continuità del vivente.








Christine Wilmes et Patrick Mascaux “Sopravvivenze”


I luoghi desertici, i luoghi che esistono in margine del mondo, in rottura con il tempo attuale, i paesi che si situano fuori dall’epicentro della geopolitica mondiale, i quartieri periferici che circondano il groviglio frenetico e rumoroso delle nostre città, i luoghi anche che appartengono a una distanza geografica o temporale nella nostra memoria, e ancora questi siti industriali abbandonati, perduti, lasciati a loro stessi che poi proliferano di nuova vita nelle nostre città restano materia di fondo per il lavoro di questi artisti. Incarnano in loro stessi la questione della sopravvivenza, divengono per primi, simboli e luoghi di sopravvivenza o di resistenza dove si iscrive un altro divenire per l’uomo rispetto alle nostre società sature di cose, di oggetti, di merci, di slogan, di messaggi pubblicitari nell'esubero di presenza, di produzione, di consumazione. Incarnano il potere del tempo di distruggere e ricreare gli elementi del mondo, il potere delle cose di auto-trasformarsi, lentamente di seguire i propri cicli di distruzione e rinascita, il potere d’un deserto di rivelarsi pieno di risorse, d’un silenzio di rendersi assordante, d’un rumore inudibile.

Survival”

Un incendio: le fiamme divampano sullo schermo, tutt'intorno. Il fuoco cresce, divampa, esplode;
le fiamme sono ovunque, lasciano intravvedere tra loro lembi di cose, tra la massa di fumo e di polvere grigia lembi di cespugli, uomini in fuga, lo stato di perdizione delle loro menti. Gesti frenetici, convulsi, gridando in prossimità dell'esplosione. Le fiamme sono viste come questa inferno pervasivo nei suoi lembi e punte salendo verso l'alto. Prendono vigore al contatto con l'aria, con l'ossigeno dell'atmosfera, una fornace ardente in un firmamento che diviene fiume di fuoco, un'ascesi di materia incandescente, bruciante e luminosa, rosso fluido-esplosiva frammista a fumo e polveri.
Vortice in ascensione del fuoco, bruciante combustione ovunque e poi grigio fumo a ricoprire ogni cosa della scena. “Survival” è questo inferno in primo piano frammisto, ancora, a profili di uomini in fuga sullo sfondo, inerti dibattendosi contro le fiamme.
Ci sono nuvole di fumo esposte in primo piano insieme all'incendio verso l'alto nella combustione.
Evento misterioso, quasi metafisico delle fiamme pervasive sul video, esso è filmato come il mistero d'un fuoco sacro, originario, prometeico quasi, quel fuoco rubato agli dei per essere donato agli uomini come scintilla divina, il simbolo del loro potere sulla terra affermato a mezzo di un nuovo sapere al prezzo dell'ira e della vendetta delle divinità. Fuoco sacro brucia e purifica, arde e rigenera, distrugge e ricrea nel passaggio violento della combustione.

 

Si erge in mezzo alla savana, con pochi frutti, pochi arbusti sottili e dissecati, grazioso, solitario, “survivant”, resistente: figura dei margini e della sopravvivenza del mondo.
Unisce la cartografia del territorio a una forma ripiegata su sé in un minuscolo riquadro di terra d'un mondo remoto, visto nella distanza come in uno scorcio di viaggio. Deserto prolifico, riempito di risonanze, di eco e sopravvivenze della memoria; l’alberello compare nel suo letto di terra e di pietre coperto di piccoli sassi, di fango e d'arbusti.

La terra rossa del deserto, arsa e dissecata dal sole, la terra piatta e brulla, senza nome della savana è vista in primo piano, sullo sfondo un corso d'acqua, un rigagnolo divenendo un fiumiciattolo al suo retro.
 Savana, paesaggio raso al suolo: a metà è un cielo immobile, calmo, blu striato di rigature della stessa tonalità incombente sulla terra, a metà la terra ardente e rabbiosa, immobile e brulla come una distesa di gesso solidificata, compatta, densa ai piedi. Al centro il piccolo albero si erge con i suoi ramoscelli, arbusti, pietre e foglie al suolo, resistente, vivente, “sopravvivente” in questi luoghi desertici d'acqua scivolando via lontana e di cieli incombenti sul suo dorso. La terra rossa nutre le sue radici e i suoi frutti mentre l'albero solitario, scintillante come un miraggio d'acqua e di verde rigoglioso, di vegetazione nel pieno dell'aridità del deserto appare come una visione in mezzo al nulla.















 















mercoledì 2 aprile 2014

Su danza e derive da “Drift” di Cindy Van Acker ( visto al Teatro D. Fabbri, Forli', marzo 2014)




















Drift: dall’inglese “deriva”, deriva di continenti, di ghiacciai, di lembi di territori staccatisi dai blocchi compatti, solidi e monolitici dei medesimi per essere trasportati a riva dalle correnti.

Detriti di ghiaccio trasportati a valle attraverso i corsi d’acqua galleggiano alla deriva in mezzo ai pezzi disciolti di antichi massi, insieme a schegge d’altri materiali nel granitico sgretolarsi della roccia in polveri o granuli della medesima.“Drift” è anche la forza che sottende tale movimento del derivare, dell’essere portati lontani dalle correnti, del partire in quel megalitico disperdersi trascinati verso una moltitudine di direzioni contrastanti, tra i fiotti galleggiando non si sa bene verso quale direzione.
Dunque in olandese è “impulso” o impulsione innescata come motore primo e innegabile portando, tuttavia, lontano dal proprio punto d’origine, giustamente l’impulso trasformato, riconvertito, epurato, ricondotto a pura geometria astratta; è la “collera” come la rabbia o l’ardore, la forza interiore che dalla propria radice pulsionale e inconscia lentamente s’impone come matrice e linea-guida conducendo all’affioramento del segno, della linea come tessitura coreografica.


Perché la scena in “Drift” è lasciata alla pura astrazione dei suoi elementi, una geometria dello spazio costruita da un’architettura astratta e assolutamente epurata di linee disegnata dalle danzatrici nelle loro rigorose partiture, il tessuto sonoro costruito da una base elettronica dominante, pervasiva in accordo diretto alla ritmica interna dei corpi nel movimento; infine la scenografia appare come quel corpo di luce o della sua totale assenza che costruisce la dimensione tridimensionale e visiva della scena. 

Un’attenzione particolare è data, tuttavia, pur nell’astrazione del linguaggio, all’aspetto plastico e organico della materia, quella dei corpi come delle cose o del loro contatto nella danza, l'attenzione data al toccare della pelle al suolo, all'imprimersi dei muscoli, delle ossa o degli arti contro le micro-superfici dei tessuti o del legno, nella percezione dei micro-movimenti che compongono aspetto organico della danza: una danza all'impronta dei corpi sulla materia nel contatto tattile e percettivo con la medesima.




Cubi neri, squadrati dall’ inizio si spostano o si ricompongono in altre forme astratte simili a tavoli, armadi, scatole o teche dove i corpi si insinuano, affondano, scivolano in immersione spettrale. Corpi macchinici, ipnotici, disumanizzati nella ripetizione appaiono in contorni sensualmente ritagliati sulla vibrazione oscurante del nero su nero o del puro riflesso d’un verde smeraldo elettrico, magnetico, in linee di luce sferzanti sul fondo, sui blocchi neri o sul nudo legno del suolo.

 Sottomessi ai loro ritmi interni come all’ineluttabile congegno ritmico della scena, li vediamo scivolare tra i blocchi e gli oggetti, infiltrarsi dentro i vani vuoti dei medesimi, girarvi intorno, scorrere tra pezzi alla deriva e poi essere come catturati, presi, prigionieri dentro una loro interna ritmica, ripetizione compulsiva nell’accelerazione o più spesso nel rallentamento d’una frase che si impone estenuante alla segreta compulsione interiore.




Come afferma la coreografa: “ Il mio linguaggio é totalmente epurato d’ogni emozione, c’è come un’evidenza di linee a confronto con altre materie: la luce, la musica”. 

La deriva non è mai puramente personale, identitaria o di singole presenze su scena ma è deriva controllata di linee nella geometria dello spazio, nelle tracce epurate che in esso s’inscrivono attraverso punti d’arresto, d’entropia verso cui è portato il movimento o d’accumulazione per segmenti coreografici ripetuti. 
La deriva sono i blocchi neri visualizzati come tombe di corpi intrecciati a linee di ghiacchio,
è scatola nera gettata al fondo dell'oceano, è l’atmosfera ipnoticamente intagliata in segmenti di luce fredda a neon;
 è l’essere rinchiusi in spazi ristretti e soffocanti, murati dentro nell’oltre-nero, nell’insabbiamento dei corpi mentre una luce fredda li assale, dismunana, distanziante. 
Visualmente discende come un piano metallico dal riflesso tagliente, argenteo-incisivo.

Schiaccia le figure fino a riassorbirle, farle scomparire, lasciarle alla loro graduale dissoluzione nel punto-limite d’ un nero assoluto. La crudeltà di quella luce pallida, agghiacciante, metallica riflette contro i corpi in forme d’automi, chiusi ciascuno in una propria sfera di cristallo, prigionieri e come irretiti da questo ritmo ipnotico, d’una stessa frase portata all’estenuazione.

 In questa prima parte, essi restano separati, ognuno in una zona della scena e senza contatto alcuno con l’altro, prigionieri, rinchiusi nella propria bolla di spazio-tempo ritmico che è anche quello interiore del proprio essere-in-movimento. 
Ed è come se la tessitura del corpo sonoro conduca, essa sola, a questo meccanismo senza via d’uscita, a questo cerchio esasperante, neutrale e feroce,
 al suo punto-limite di dissolvimento senza via di ritorno e la lotta fredda o la glaciazione infernale restino iscritte in un impulso contenuto, in una deriva controllata, in uno slancio reso alla sua totale epurazione su scena.


Cosi’ le figure scompaiono in questo riassorbimento della materia-corpo nel fondo oscuro, in questo progressivo venir meno della luce o d’ogni riflesso al movimento mentre blocchi neri si ricompattano in un’unica massa a lato della scena sancendo una fine del pezzo o forse l’attesa d’un nuovo inizio.












Un rovesciamento cromatico a questo punto avviene e  il lavoro si impone nel bagliore accecante prodotto da linee epurate e costruzioni geometriche d’ una bianchezza artificiale resa incandescente dall'effetto di controluce. Rombi, triangoli bianchi nell’evidenza visiva delle loro forme s’impongono sulla pesantezza del nero al ritagliarsi di grandi triangoli bianchi in una luce alogena, artificiale, poi al loro scomporsi in parti per lasciare spazio alle danzatrici.

Riemerse, avanzano frontalmente, à plat, sottili e trasparenti come sagome nel controluce netto del bianco sul nero verso il proscenio fino ad ricondursi all’evidenza prima delle loro linee essenziali. I loro contorni astratti ridisegnano in un tessuto calcolatissimo di forme un'epurata geometria di chiari e di oscuri. 
In questa parte, danzando le due sagome giungono ad accordarsi e a riflettersi l’una nell’altra in uno sdoppiamento speculare dell’immagine, a ricomporsi in linee geometriche, in figure della continuità o della simmetria, infine in una geometria di linee ascensionali ritagliate sul controluce del nero.