mercoledì 2 aprile 2014

Su danza e derive da “Drift” di Cindy Van Acker ( visto al Teatro D. Fabbri, Forli', marzo 2014)




















Drift: dall’inglese “deriva”, deriva di continenti, di ghiacciai, di lembi di territori staccatisi dai blocchi compatti, solidi e monolitici dei medesimi per essere trasportati a riva dalle correnti.

Detriti di ghiaccio trasportati a valle attraverso i corsi d’acqua galleggiano alla deriva in mezzo ai pezzi disciolti di antichi massi, insieme a schegge d’altri materiali nel granitico sgretolarsi della roccia in polveri o granuli della medesima.“Drift” è anche la forza che sottende tale movimento del derivare, dell’essere portati lontani dalle correnti, del partire in quel megalitico disperdersi trascinati verso una moltitudine di direzioni contrastanti, tra i fiotti galleggiando non si sa bene verso quale direzione.
Dunque in olandese è “impulso” o impulsione innescata come motore primo e innegabile portando, tuttavia, lontano dal proprio punto d’origine, giustamente l’impulso trasformato, riconvertito, epurato, ricondotto a pura geometria astratta; è la “collera” come la rabbia o l’ardore, la forza interiore che dalla propria radice pulsionale e inconscia lentamente s’impone come matrice e linea-guida conducendo all’affioramento del segno, della linea come tessitura coreografica.


Perché la scena in “Drift” è lasciata alla pura astrazione dei suoi elementi, una geometria dello spazio costruita da un’architettura astratta e assolutamente epurata di linee disegnata dalle danzatrici nelle loro rigorose partiture, il tessuto sonoro costruito da una base elettronica dominante, pervasiva in accordo diretto alla ritmica interna dei corpi nel movimento; infine la scenografia appare come quel corpo di luce o della sua totale assenza che costruisce la dimensione tridimensionale e visiva della scena. 

Un’attenzione particolare è data, tuttavia, pur nell’astrazione del linguaggio, all’aspetto plastico e organico della materia, quella dei corpi come delle cose o del loro contatto nella danza, l'attenzione data al toccare della pelle al suolo, all'imprimersi dei muscoli, delle ossa o degli arti contro le micro-superfici dei tessuti o del legno, nella percezione dei micro-movimenti che compongono aspetto organico della danza: una danza all'impronta dei corpi sulla materia nel contatto tattile e percettivo con la medesima.




Cubi neri, squadrati dall’ inizio si spostano o si ricompongono in altre forme astratte simili a tavoli, armadi, scatole o teche dove i corpi si insinuano, affondano, scivolano in immersione spettrale. Corpi macchinici, ipnotici, disumanizzati nella ripetizione appaiono in contorni sensualmente ritagliati sulla vibrazione oscurante del nero su nero o del puro riflesso d’un verde smeraldo elettrico, magnetico, in linee di luce sferzanti sul fondo, sui blocchi neri o sul nudo legno del suolo.

 Sottomessi ai loro ritmi interni come all’ineluttabile congegno ritmico della scena, li vediamo scivolare tra i blocchi e gli oggetti, infiltrarsi dentro i vani vuoti dei medesimi, girarvi intorno, scorrere tra pezzi alla deriva e poi essere come catturati, presi, prigionieri dentro una loro interna ritmica, ripetizione compulsiva nell’accelerazione o più spesso nel rallentamento d’una frase che si impone estenuante alla segreta compulsione interiore.




Come afferma la coreografa: “ Il mio linguaggio é totalmente epurato d’ogni emozione, c’è come un’evidenza di linee a confronto con altre materie: la luce, la musica”. 

La deriva non è mai puramente personale, identitaria o di singole presenze su scena ma è deriva controllata di linee nella geometria dello spazio, nelle tracce epurate che in esso s’inscrivono attraverso punti d’arresto, d’entropia verso cui è portato il movimento o d’accumulazione per segmenti coreografici ripetuti. 
La deriva sono i blocchi neri visualizzati come tombe di corpi intrecciati a linee di ghiacchio,
è scatola nera gettata al fondo dell'oceano, è l’atmosfera ipnoticamente intagliata in segmenti di luce fredda a neon;
 è l’essere rinchiusi in spazi ristretti e soffocanti, murati dentro nell’oltre-nero, nell’insabbiamento dei corpi mentre una luce fredda li assale, dismunana, distanziante. 
Visualmente discende come un piano metallico dal riflesso tagliente, argenteo-incisivo.

Schiaccia le figure fino a riassorbirle, farle scomparire, lasciarle alla loro graduale dissoluzione nel punto-limite d’ un nero assoluto. La crudeltà di quella luce pallida, agghiacciante, metallica riflette contro i corpi in forme d’automi, chiusi ciascuno in una propria sfera di cristallo, prigionieri e come irretiti da questo ritmo ipnotico, d’una stessa frase portata all’estenuazione.

 In questa prima parte, essi restano separati, ognuno in una zona della scena e senza contatto alcuno con l’altro, prigionieri, rinchiusi nella propria bolla di spazio-tempo ritmico che è anche quello interiore del proprio essere-in-movimento. 
Ed è come se la tessitura del corpo sonoro conduca, essa sola, a questo meccanismo senza via d’uscita, a questo cerchio esasperante, neutrale e feroce,
 al suo punto-limite di dissolvimento senza via di ritorno e la lotta fredda o la glaciazione infernale restino iscritte in un impulso contenuto, in una deriva controllata, in uno slancio reso alla sua totale epurazione su scena.


Cosi’ le figure scompaiono in questo riassorbimento della materia-corpo nel fondo oscuro, in questo progressivo venir meno della luce o d’ogni riflesso al movimento mentre blocchi neri si ricompattano in un’unica massa a lato della scena sancendo una fine del pezzo o forse l’attesa d’un nuovo inizio.












Un rovesciamento cromatico a questo punto avviene e  il lavoro si impone nel bagliore accecante prodotto da linee epurate e costruzioni geometriche d’ una bianchezza artificiale resa incandescente dall'effetto di controluce. Rombi, triangoli bianchi nell’evidenza visiva delle loro forme s’impongono sulla pesantezza del nero al ritagliarsi di grandi triangoli bianchi in una luce alogena, artificiale, poi al loro scomporsi in parti per lasciare spazio alle danzatrici.

Riemerse, avanzano frontalmente, à plat, sottili e trasparenti come sagome nel controluce netto del bianco sul nero verso il proscenio fino ad ricondursi all’evidenza prima delle loro linee essenziali. I loro contorni astratti ridisegnano in un tessuto calcolatissimo di forme un'epurata geometria di chiari e di oscuri. 
In questa parte, danzando le due sagome giungono ad accordarsi e a riflettersi l’una nell’altra in uno sdoppiamento speculare dell’immagine, a ricomporsi in linee geometriche, in figure della continuità o della simmetria, infine in una geometria di linee ascensionali ritagliate sul controluce del nero.




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