giovedì 23 aprile 2015

Su certi tipi di spazi, tracciati e dimore ( partendo da "Now" spettacolo di C. Carlson)

 





 


Sullo sfondo d’una grande casa della memoria proiettata nell’oscurità, il diluvio placato, la casa immersa nella quiete rasserenante della notte, una porta scivola, parallelepipedo svuotato all’interno, lasciato alla sua sola cornice mentre una danzatrice scorre lentamente attraverso una corsia invisibile verso il centro della scena. La dimensione fluttuante, onirica d’una favola si ripresenta a noi portata dalle sonorità avvolgenti, magnetiche e tenui del compositore Aubry. 

Casa senza stanze, senza pareti, senza finestre e come intagliata in sembianze naturali nell’odore d’acero rosso,  solo con una porta ma senza serratura che s’aprirebbe con la chiave di volta del sogno, dell’irrazionale, dell’ancora possibile. Voli e abbracci aerei degli interpreti su questo spazio tracciano slanci improvvisi, corse leggere e danzatrici saltando nelle braccia dei loro partner; abbracci e prese aeree in un’oscurità acquatica di onde sotterranee scorrono sui riflessi dorati dell’oceano. 


I ritmi sono lenti come la musica: i danzatori in scorrimento avanzano, lievi attraversano lo spazio in linee simultanee, scivolano l’uno nelle braccia dell’altro e poi proseguono il loro percorso. La coreografia è rivolta alle case come “luoghi indelebili in cui abitiamo”, ma anche all’ essere nel tempo che fonda la realtà tangibile del nostro abitare il luogo e il momento presente.





Le case sono “luoghi indelebili” della nostra esistenza, quelli che ci appartengono intimamente, profondamente, che rendiamo nostri, unici perché in qualche modo abbiamo plasmato lì il nostro spirito, le nostre abitudini, i segni della nostra permanenza insieme agli odori che vi si confondono, sedimentano, amalgamano, quasi percorse da un insieme di forze invisibili che fondano la realtà tangibile del nostro essere nello spazio e stabilivi punti di riferimento concreti.

 I nostri spazi sono radicati nel nostro immaginario, quelli più famigliari sono i luoghi dove ci riconosciamo, ci strutturiamo o troviamo rifugio contro le sembianze anonime d'uno spazio esterno, asettico e neutrale: gli oggetti d’un micro-cosmo insieme al peso dell' esperienza e al nostro bisogno di appartenerci, di appartenere. Nella casa sono gli angoli, i cassetti e i ripostigli, gli armadi e i loro vani, i rifugi segreti, i corridoi, i passaggi e i vicoli di scorrimento, le terrazze, i giardini, i balconi aperti contro il cielo come le vecchie mansarde e le cantine collocate nei sottosuoli. La casa è prima di tutto la luce, la disposizione degli oggetti nello spazio, le nostre abitudini in essa, lì dove appunto “ci ritroviamo”, “ci sentiamo in agio, protetti in spazi abituali fino a diventare consumati, plasmati, qualche volta usurati dal nostro vivere quotidiano.




Nello spettacolo “Now” sono case-corpo, case-sogno, case-trasparenti intessute dai fili invisibili della memoria, case d’una visione onirica, d’una lanterna sospesa alle braccia d’una figura in veste di sogno. Ancora sono porte ritagliate sul vuoto e chiavi senza serrature o case viste come il guscio, il riparo o l’involucro-corpo del proprio  essere nel mondo e iscrivervi una traccia attraverso la danza in un movimento che sarebbe dal corpo al corpo nella sua veridicità, nella sua piena consapevolezza, nel tentativo di far coincidere o avvicinare l’origine alla forma. Il corpo è in primo luogo la nostra casa, là dove si dispiegano le nostre solitudini, i nostri sogni, il fluire sottile, evanescente, transitorio dei desideri nell’ immensità imperscrutabile di un campo di forze e controforze, di vasi comunicanti e livelli o soglie sottili di attraversamento da piano fisico a quello spirituale, dal piano emozionale a quello puramente razionale.


Case disegnate con fili tesi nel vuoto, fatte con fili invisibili che ne tracciano i confini: case-scalinate, case immense e senza pareti, case come disegnate al suolo dalle mani d’un bambino.











Case-universo, case-immensità, case-macrocosmo; i fondali proiettano alberi e foglie, diventano fasci luminosi sulla scena, evocano la fluidità delle onde, i movimenti degli oceani, le linee in ascesa delle montagne, i ritmi impetuosi delle tempeste e degli uragani, gli ondeggiamenti degli alberi attraverso la coreografia.



“Un’immensa casa cosmica si trova in potenza in ogni sogno di casa. Dal suo centro irradiano i venti, dalle sue finestre volano via i gabbiani.” Tale dimora, la poesia, permette al poeta di abitare l’universo ed è come se l’universo venisse ad abitare nella sua casa. Abita il cosmo con tutti i suoi sensi alla ricerca come voleva Rimbaud d’una “lingua nuova” che gli apra le chiavi di volta dell’universo, che scardini i meccanismi della sua sola comprensione razionale.

 Riconosce le segrete sinestesie, i suoni, i profumi i colori, d’una lingua nuova che sarà “dell’anima per l’anima” e gli apra le chiavi di percezione, di visione attraverso un lungo, immenso, ragionato “dereglement” disordine voluto di tutti i sensi. 
Danzatore e insieme poeta, la sua voce profetica investita dal soffio divino si illude si poter trovare i “ritmi istintivi d’un verbo poetico comprensibile a tutti i sensi”, d'una parola che come nello spettacolo della Carlson sia incarnata attraverso un movimento divenendo esso stesso poesia nello spazio, poesia dell'immagine realizzata attraverso una percezione espansa, aperta e luminosa di tutti i sensi.


 




















"This is how I build a house”, afferma un danzatore nello spettacolo,“Questo è come costruisco una casa: solida, sicura, con muri spessi, ognuno all’ interno in un luogo caldo, confortevole, protetto perché vogliamo sentirci felici nelle nostre case, amare, condividere, mai batterci o gridare ma sorridere, comunicare, scambiare.”


“Scrivo i miei diari sui muri delle mie stanze," su tutti gli angoli e le pareti qualcosa lascio inciso, presente come la traccia lieve e inattendibile della mia memoria: tutte le notti insonni, i sogni belli, brutti o indifferenti, tutti i tempi vuoti o di consumate abitudini, la dissipazione del quotidiano, le trame dell’esistenza e i suoi schemi a ripetizione, poi le transizioni, le rotture, i passaggi verso l’ altrove e i ritorni, le continuità spezzate. Tutto resta inciso come un diario intimo sulle pareti fuggevoli della mia stanza, sui muri imbiancati della mia memoria.





“Stavo afferrando il momento e poi l’ho visto scivolare via, dissipare tra le mie dita.. Che cos’era qui e ora, ebbero il loro momento ma lo lasciarono fuggire, correre via imperscrutabilmente..”

Le figure in pose statiche re-incarnano per pochi secondi momenti precisi della loro esistenza impressi nella memoria differentemente mentre una voce narrante fuori campo ripercorre i loro gesti:“questo è il momento in cui ero inquieto, triste, felice, in cui mi sono sentito perduto, questo è il momento di cui non ricordo più nulla... il momento in cui incontrai lui, lei la prima volta.. il momento in cui sono qui su questa scena, il momento della danza, del teatro ora” .

“Non so dove sto andando ma so che sono sul mio cammino”: la danza è gioiosa , leggera, aerea in quartetto e sestetto con slanci dei corpi femminili e prese aeree di quelli maschili, voli, salti e rovesciamenti in aria delle danzatrici.




“Now” parla del nostro “essere nel tempo”, del passato di un “ieri” che non possiamo modificare, recuperare o fissare con assoluta certezza, di un domani che si pone come pura pretensione e l'istante del qui e ora del momento presente, dell’essere presenti a noi stessi come la possibilità d'agire e lasciare una traccia, concreta, tangibile nel mondo ora. “Now” è anche l’istante della danza secondo Carlson, “quel gesto che nasce e muore in un istante”, e pur correndo verso il proprio infinito, aspirando a un propria infinità si rende leggibile nel qui e ora della scena perché proiettato, inviato nello spazio verso qualcuno. Lo spazio diventa abitato come una “dimora” in un flusso di continuità dall’uno all’altro nello scorrimento.


Sulla scena contro l' immagine proiettata d’un orologio, lancette sullo sfondo girano all’infinito. Il tempo corre scandito dal battito ritmico d’un pendolo nell’oscurità, d’un metronomo e d’altri strumenti per misurare il passaggio delle ore; seguono i moti sincopati dei corpi nella coreografia per quattro danzatrici in movimenti ritmici, brevi, spezzati, in scosse e micro-ripetizioni febbrili d’uno stesso gesto nello spazio. Le danzatrici passano ritmicamente dal movimento alla sospensione, dal battito a un silenzio tensivo, a pause infine d'un apparente non-movimento scandito che volgerà presto in nuovo battito.






La memoria: pezzetti di vita strappati al vuoto, ritagli, riquadri di tessuti ricuciti insieme a caso come i fili di un' esistenza. Un nastro adesivo tratteggia le linee d’una casa al suolo che poi saranno sollevate e tese attraverso lo spazio in un reticolo di fili semi-invisibili. L’interprete danza il suo assolo dietro quelle in una veste di seta corta e leggera fluidamente avvolgendo, disegnando i suoi movimenti ora in scosse e ritorsioni improvvise, ora in momenti di ascolto, d’arresto su di sé, quasi di dialogo con l’invisibile, ora in linee morbide e ondeggianti delineandosi in tangente verso l’alto, infine in moti circolari e fluidi d’apertura del torace, dell’intera figura attraverso le braccia.

“ Ero in una stanza bianca, d’avanti a me una grande vetrata. Il grande drappo è caduto e d’un tratto ho visto, ho sentito, in quel momento tutto è diventato chiaro, la montagna, la stanza e me stessa là dentro”.

“Non so dove si è spezzato il filo che mi lega al mio passato”_  i movimenti in assolo della danzatrice_
“I ricordi sono pezzetti di vita strappati al vuoto, nulla a trattenerli, a fissarli, a garantirne una veridicità nella memoria; non c’era passato e per lungo tempo non c’è stato neanche avvenire, non un inizio ne una fine, nessuna cronologia se non quella che costituisco arbitrariamente sul filo delle immagini, d’una fittizia mia fabulazione”.



“I miei spazi sono fragili, il tempo lì consumerà, li distruggerà: niente più somiglierà a quel che era, i miei ricordi mi tradiranno, l’oblio si infiltrerà nella mia memoria, guarderò senza riconoscerle alcune foto ingiallite dal bordo tutto strappato. [..] Come la sabbia scorre tra le dita, così fonde lo spazio. Il tempo lo porta via con sé e non ne lascia che brandelli informi.”(G. Perec)


Come scrive Perec quando lo spazio smette d'essere un'evidenza, un luogo stabile, indelebile della mia memoria esso diventa problematico, ciò che necessita costantemente d'essere riaffermato, re-iscritto, riconquistato. Attraverso il movimento in primo luogo. Devo sancirlo ogni volta come il mio corpo, renderlo una certezza , vederlo in un continuo con il mio agire, restituirlo e trasformarlo attraverso la mia presenza. Scrivere, afferma Perec, è anche un modo per dare continuità a questa esperienza: trattenere qualcosa, strappare qualche briciola, irrisoria, minuscola che pur sia, al vuoto che si scava nei corpi, a questa intrinseca fragilità della memoria per “lasciare infine una traccia, da qualche parte un marchio, un segno”.