sabato 26 marzo 2016

Su "La Rabbia" e il teatro di Pippo Delbono, omaggio a Pier Paolo Pasolini ( visto al teatro D. Fabbri, Forlì)


La verità non sta in un sogno ma in molti sogni”, afferma l’attore-regista Delbono nel prologo all’inizio de “ La Rabbia”citando "Il Fiore de le mille e una notte" di Pasolini, e , ancora aggiunge: ” alcuni provengono dalla nostra vita, altri dalle vite altrui e si mischiano, si confondono, si perdono nel nostro spettacolo”.





Così inizia la pièce di Belbono, in questo monologare d’una voce al microfono che prosegue e si dilata, si tende come una ragnatela immaginaria attraverso un montaggio di frammenti e brani musicali, in un intercalare di parole o solo corpi, di grida e sussurri, di silenzi appesi a un filo ed eclatanti esplosioni di emozione: desiderio d’amore o di bellezza,  rabbia e rivolta nel continuo di un’ora ininterrotta di spettacolo. La scena è aperta, non ci sono sipario o quinte evidenti  ma solo uno spazio vuoto, delimitato da una parete-tenda nera sul fondo mentre entrano gli ultimi spettatori e i musicisti sono già lì, a lato del palco, intenti ad accordare gli strumenti, a scambiarsi qualche parola e a provare poche note accennate da una chitarra o da  un basso come se fossero in corso di prove, Delbono già su scena con loro.














L’attore-regista si avvicina al microfono accompagnato dal continuo d’una ballata per chitarra, inizia questo monologare serrato, sussurrato e sussultante a tratti, in un primo omaggio a Pasolini sull’eco di Rimbaud, abbandonandosi al fluire spontaneo della parola, al suo scorrimento poetico; là la voce disegna e consuma, apre un tracciato vibratorio, ritmico e musicale e poi lo svuota, lo interrompe, lo frammenta, lo esaspera in una tensione emotiva che trascina nell’improvviso rapimento vocale o nel repentino silenzio. Parole sussurrate o gridate intercalate dal pause e note musicali al microfono  riportano l’amore a quella genuina primordiale passione d’eco pasoliniano che vibra nel sangue, nel fremito della carne, in un desiderio sensuale che apre e eleva alla ricerca di una inesausta, infinita bellezza, poi al movimento d’un pensiero che d’essa si libera e si libra nel canto: “Nelle sere d’estate, trasognato lascerò che il vento mi bagni il capo nudo. Io non parlerò, non penserò più a nulla ma l’amore infinito mi salirà nell’anima,
stanco di infrangere i sogni rinascerà libero da tutti i suoi dei”.
Il pensiero invisibile, eterno Dio che vive sotto la sua carne d’argilla salirà, salirà, salirà
e brucerà nella sua mente , tu lo vedrai scrutare l’orizzonte e ergersi sprezzante di tutti i suoi ostacoli, libero da tutti i timori, splendido e radioso gettato sul vasto universo. L’amore infinito in un infinito sorriso”.
“Il mondo ha sete d’amore” afferma il prologo nel montaggio di frammenti poetici, esso salirà come un pensiero che si eleva libero, senza timore dalla sua carne d’argilla; il troppo a lungo oppresso pensiero si slancerà e salirà come un fremito d’amore vibrando sull’ ’immensa lira dell’universo”. Se “la nostra pallida ragione ci nasconde l’infinito” afferma il poeta, il senso di un sapere che oltre i limiti del qui e dell’ora apra a una cristallina, luminosa visione- l'inesausta bellezza del vivente- “canta”, ripete il poeta , canta un canto di sangue e d’amore. “L’amore è carne.. Danzate, ridete..Canta la pietra, l’odore della terra perché anche il bosco canta e il fiume mormora un canto pieno di felicità che sale, sale, sale verso la luce. E’ la ritenzione..l’amore”. Il trattenere qualcosa su di sé per poi donarlo espanso, amplificato, rinato in un canto nuovo , nel gesto gratuito d’una  parola che diviene salute, redenzione o salvezza.
Silenzio totale in sala alla fine del monologo, assoluto e carico d’attesa. Delbono è dietro il microfono per la maggior parte del tempo, i musicisti a lato mentre sulla scena aperta  si susseguono un montaggio di storie di corpi e estratti di testi, oppure brani musicali  che alternano ironia e leggerezza a quei momenti di rabbia feroce o di disperazione prima, di grazia o di candida presenza quasi rubati al tempo e sospesi in un istante di poesia.




Camaleontico, versatile, penetrando nella dimensione del ricordo personale e collettivo Delbono in un alternarsi di ruoli e tonalità veste ora i panni e le movenze di un contadino genovese dal cappello di feltro sformato nella memoria del padre, i suoi gesti e parole, la barba sfatta, le grandi braccia e la mimica grossolana mentre legge versi nel dialetto della sua terra. Diviene poi Charlot mimando in controluce all’ombra d’un proiettore circolare seduto su un sedia la postura infantile del personaggio come in un ritorno all’infanzia del mondo mentre le sue parole affermano in un’atmosfera vicina al sogno e all’incanto: “Ovunque tu sia guarda in alto, il sogno torna a risplendere. Piano, piano usciremo dall’oscurità verso la luce; pensa alla forza che fa crescere gli alberi, che fa girare l’universo, che fa tremare la terra… quella stessa forza è dentro di te”.
La sua mimica eccezionale, le sue movenze tenere e goffe, il suo dialogare con un interlocutore immaginario sulle note d’una tenue musica jazz lo trasformano a poco a poco nella figura metamorfizzata di un invisibile altro: il grido folle  e rabbioso di un piccolo dittatore facendo eco al doppio hitleriano nell’omonimo film dove Chaplin parodia il nazismo e il suo imperversare in Europa negli anni ‘40.  





Del favoloso mondo antico era rimasta soltanto la bellezza..e tu te la sei portata dietro..con un sorriso.. così ti sei portata dietro la sua bellezza, sparivi come un pulviscolo al mondo”. “Bellezza antica, tanto amata e ormai perduta”, afferma il monologo citando Pasolini, visione di un sogno o di un recondito passato, di un tempo prima del tempo, d’una nostalgia antica e senza rimpianto, di una quasi mitica memoria ritornando più come un sogno che come un referente reale preciso. Il monologo la evoca in un sussurro poetico, omaggio a Pasolini, mentre un uomo seduto a terra canticchia tra sé e sé, si trascina ubriaco bevendo da una bottiglia semi-vuota, inciampa, crolla, si ripiega, ricorda qualche stralcio confuso d’ una canzone popolare, si interrompe a tratti in sospensione malinconica o forse perché non ricorda più il resto del testo. Una donna piccola e insignificante- attore o attrice che sia non importa-  entra avvolta da un velo bianco a strascico nuziale su abiti ordinari e avanza lentamente mentre le parole fuori campo continuano a evocare la perduta bellezza; a poco a poco, depone il velo al suolo, la sua massa leggera e fine simile a un nugolo di bianco tulle vaporoso. Si odono gemiti come d’un pianto in lontananza, un pianoforte accompagna, finché lo abbandona lì a lato della scena per mostrarsi metaforicamente nuda, esposta, svuotata, senza più barriere di fronte al pubblico.






Dimmi che mi ami”, afferma la voce fuori campo dell’’attore, “dimmi che mi ami” ripete più piano, “che mi ami” sussurra, implora “che mi ami” grida, impreca, “ dimmi che mi ami” strepita, urla, esplode in un grido di rabbia e folle esplosione acustica di suono mentre le parole si fanno violente, gridate evocando una febbre, il cancro di un popolo, un delitto collettivo, occhi chiusi, il materializzarsi di una rabbia cieca, feroce. Due corpi, un uomo e una donna s’abbracciano prima gentilmente poi crollano al suolo, in un abbraccio, una danza, una lotta, in una stretta colma di violenza e ritenzione; lottano, si gettano l’uno sull’altro mimando un’immobile, ritornante amplesso, si separano e si riavvicinano, si fronteggiano e infine restano immobili, nel silenzio privi di vita facendo eco, indirettamente, agli antecedenti del teatro-danzato bauschiano.




“Sui miei stracci sporchi, sulla mia nudità , scrivo il tuo nome, sui miei fratelli, sul mio primo fratello, sul mio secondo fratello sciancato, sul mio terzo fratello lustrascarpe, sul mio quarto fratello mendicante, scrivo il tuo nome, libertà, sui miei compagni di malavita, sui nomadi del deserto, sui braccianti di Beirut,sui salariati di Oran, sui piccoli impiegati di Algeri, scrivo il tuo nome, libertà,sulle misere genti di Algeri, sulle popolazioni analfabete dell’Arabia, su tutte le classi povere dell’Africa, scrivo il tuo nome, su tutti i popoli schiavi scrivo il tuo nome: libertà” .

Ancora un grido nello spettacolo, ancora un’esplosione di rivolta e di rabbia; una denuncia aperta, senza compromessi o mezze misure è lanciata prima come un’asserzione precisa, fredda e tagliente poi come un grido di rivolta feroce e assoluto, esplodendo spietato sulla scena. Questa volta è la voce di un intellettuale impegnato e politicamente non allineato alle forze governanti nell’ Italia a lui contemporanea: coscienza d’una voce libertaria che dice “io so i nomi dei colpevoli delle stragi di Milano, Brescia e Bologna”, e grida ancora “io so, io so i nomi”, denunciando pubblicamente la politica italiana dell’ultimo trentennio , la connivenza tra politicanti e mafiosi, le manipolazioni del denaro pubblico, le stragi terroristiche degli anni 70, infine il volto cieco di un Potere responsabile, secondo Pasolini, dell’omologazione totalizzante e generalizzata di tutte le classi sociali attraverso l’imporsi della nuova società dei consumi e dell’edonismo.   “Io so i nomi” continua l’invettiva perché sono uno scrittore e un intellettuale che vuole comprendere, conoscere, sapere ciò che se ne scrive o se ne dice, immaginare ciò che non si sa o si tace, mettere insieme fatti disorganizzati e frammentari in un intero quadro politico, “ristabilire insomma la logica là dove sembra regnare l’arbitrarietà, la follia, il mistero”. “La rabbia” è anche quella di un Pasolini  critico della società italiana, testimone della sua radicale trasformazione, acculturazione e appiattimento nel giro di pochi decenni, lui fino alla fine non allineato alle logiche capitalistiche contro i quali oppone la forza di un pensiero libero e di un’arte autonoma, non sottomessa alle dittature mediatiche e politiche più diffuse.





La rabbia coesiste con una pioggia di coriandoli  nell’atmosfera d’un sogno ad occhi aperti nel finale. Si balla sulla memoria e le  note d’una canzone popolare, un tango dalla sensualità argentina lenta ed avvolgente, implicito omaggio a quell’atmosfera bauschiana di riso nel pianto, a quella sua ironia o ieratico distacco al più profondo delle passioni umane, all’anarchia o al dolore che governa le emozioni e le relazioni più intime tra gli individui, alla follia dell’ordinario come al montaggio dei frammenti apparentemente aleatori d’una soggettivante esperienza. 

Personaggi con ali di angelo ballano in festa nel finale tra polvere di coriandoli e l’atmosfera surreale, nostalgica di un sogno ad occhi aperti o d’ un ritorno a una tenera memoria d’infanzia. Ali d’angelo compaiono su un uomo in bicicletta che scorazza attraverso la scena, su una donna bon ton anni ‘60, su un nano in tailleur scuro mentre la pioggia bianca continua a cadere sul cerchio degli attori, su Delbono stesso autore-attore, sull’eleganza accattivante, infine, di un’attrice soubrette che, in omaggio alla Bausch, mima un passo a due lento e avvolgente con uno sconosciuto  su quel ritmo nostalgico e sensuale.    



  

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