domenica 10 giugno 2012

"Excentrique", liberamente suggerito da Daniel Buren, Monumenta 2012, Grand Palais, Parigi






L’opera “in situ” nasce nello spazio per la quale é pensata, realizzata, qui la struttura in vetro del Grand Palais, lo assume, lo assimila ma non ne é piegata entro la sua ossatura, al contrario, se ne appropria, diventa quel luogo, lo decostrusce come sito esistente, ricevuto, storicamente dato e lo trasforma in esperienza sensibile reinscritta  nel momento presente, in tale contingenza.  
E' cio' che decostruisce lo storicamente acquisito di un luogo reinventandolo  attraverso dispositivi ottici o visivi, plastici o cinetici messi in atto dall’artista come modo di amplificare il senso e le potenzialità del nostro “ essere nello spazio”: quello architetturale, astratto e insieme quello presente, abitato, di iscrizione e posizionamento nella realtà. 

Non uno spazio di “destino” ma uno spazio di “scelta”, non uno spazio ricevuto, storicamente dato e contaminato, pre-esistente al soggetto e al suo esserci, essere là come esistente, dunque non uno spazio imposto  a lui come un limite, una gabbia percettiva, una costrizione ottica, allo stesso modo d'un esistenza presa entro i fili della sua obbligata tessitura, ma, al contrario, costruito a propria misura, impregnato d’una presenza a sé, 
ricondotto alle proprie dimensioni fisiche e interiori.

Passeggiata sensoriale: attraversiamo una foresta d' alberi fatta di colonne, supporti, o steli in acciaio sottile ripresi nel motivo ricorrente in Buren di strisce verticali alternate bianche e nere.  
Al di sopra scorgiamo sfere trasparenti e colorate, aperte, simili a trasmettitori solari per attirare la luce naturale dell' esterno, catturarne il riflesso al massimo grado contro un cielo coperto, 
illuminato da rari o fugaci lampi di luminosità, velato nel grigiore usuale delle brume parigine.

 Percorso di sfere colorate, di forme circolari trasparenti, tese simili a tele intessute, sottili e riflettenti d’una distesa di girasoli in composizione libera, ritmica nello spazio. Sono accostati come cerchi tangenti in una zona di riempimento senza mai divenire sovrapposizione, contatto, intrusione, espropriazione dell'uno all'altro. 
L' orizzontalità  taglia il volume smisurato dell’interno e se ne appropria, lo riempie e lo riduce a dimensione umana attraverso questi semplici supporti verticali tagliati in altezza a meno di tre metri dal suolo e, allo stesso tempo, lo riflette, lo rinvia attraverso molteplici filtri colorati verso l'alto là dove si ammassa la massa d'aria della struttura in vetro e cemento.

Cambiare il luogo d'entrata, definire  degli accessi laterali per arrivare al centro della cupola, all'apice dell'installazione,  significa scegliere l'estensione dello spazio in lunghezza piuttosto che l'altezza o la verticale dominante nella vetrata.
Significa ripensare lo spazio come tracciato, attraversamento, percorso che si rende necessario, conducendo forzatamente da qualche parte senza avere la nozione chiara di quale esattamente, verso un centro inevitabilmente, come nelle basiliche medievali lo spazio absitale sferico dell’altare, il fulcro dell'opera, il nucleo della struttura raggiungibile solo dopo la lunga traversata  delle navate laterali lasciate all’oscurità. 
Si procede, qui, dal pieno d'una foresta di proiezioni colorate d'alberi astratti in forme circolari geometrizzanti per ritrovarsi all'improvviso in questo vuoto centrale,  in questa zona di vertigine aperta verso l'alto e il basso insieme: 
uno spiazzo aperto, semplicemente sotto la cupola del palazzo, nel dispiegarsi del suo reale volume in altezza senza altri elementi che il gioco di rispecchiamenti tra la blu dei suoi tasselli vetrati e il suolo di specchi traslucidi ricoperto.




















Deve essserci nell’esperienza personale, esplorativa dello spettatore nettamente una sensazione di riempimento d’uno spazio compresso, tagliato dal suolo a un’altezza-limite, 
tale la sensazione di un pieno denso, voluto, d’una foresta con il maggior numero di sfere colorate possibili senza sovrapposizioni ammesse nella quale avanzare, arrestarsi, cambiare direzione, punto di vista, sviarsi, perdersi. 

Un “tutto pieno” astratto, geometrico, impersonale autogenerato come dispositivo  in ripetizione libera, in ombrelli riflettenti e supporti-pilastri bianchi e neri a sostenerli che riconducono l’immensità dello spazio a una scala umana, a una misura ancora possibile per noi.

Percorso sensoriale e visivo: far discendere lo sguardo verso il basso, i piedi verso la terra, fare attraversare una vasta superficie multicolore, sfere verdi, azzurro, rosso, arancio o giallo. 

Sfere colorate al suolo creano zone sensoriali precise dove spostarsi, filtri di realtà, guardando in alto attraverso quelli le intessiture in ferro dell’ossatura architetturale pre-esistente. 

Stati sensoriali scorrono dall’uno all’altro in concomitanza alle zone colorate: blu ombreggiato, malinconico fino a smorzarsi con la luce esterna in azzurro sfumato, evanescente, celeste. 
Giallo solare, brillante, e di seguito arancio vivo dalla vitalità bruciante, accesa, eccessiva, infine 
verde smeraldo, tenue, in tonalità diffusa fino a dissimulare i contorni e le linee delle percezioni esterne.
 Effusioni colorate camminando, effusioni d’arancio, di giallo solare o blu saturno. 
Giallo: solarità, chiarezza luminosa delle linee attraverso la tela riflessa. 
Arancio: la solarità diviene energia, slancio d’una presenza d’estate, verde filtro che attenua e ricompone in segreta armonia,
blu colore diffuso, a volte lunare, acquatico per eccellenza in volume spaziale implificante.      
                                                                                                                    Il percorso é astratto ma di un' astrazione concreta, resa all'esperienza sensibile del corpo nell'attraversamento, 
alle contingenze del giorno, della luce nel momento diurno o notturno, alla sua irradiazione o oscuramento, nel percorso indotto da filtri esterni e risposte interne attraverso queste zone sensoriali, che vi attraggono, vi captano, vi assorbono, vi fanno passare dall’una all’altra attraverso i colori come attraverso precisi stati corporei, modulazioni fisiche e emotive insieme. 




















E poi all’improvviso al centro della struttura in vetro e acciaio la pergola é come debba scomparire, lo spazio liberarsi e il palazzo ritrovare il proprio reale volume in altezza, 
la massa d'aria compressa, percepita nel contrasto, pienamente ora solo all'uscita dal tunnel quando il visitatore avrà accesso alla tridimensionalità delle molteplici navate, alla visione globale della struttura, dal suolo alla cupola, dal cemento dell’abside vetrata passando per il grande vuoto centrale. 

Al centro dovrà aprirsi questa zona circolare, relativamente vuota, questa sorta di vertigine sferica che procede verso direzioni opposte nel gioco dei rispecchiamenti:  si ricongiunge verso l’alto in altezza alla cupola del palazzo e, attraverso quella verso al cielo – blu cobalto, il colore scelto per la decorazione dei riquadri nella vetrata- poi sprofonda attraverso gli specchi riflettenti posti sul suolo, dentro la terra in una sorta di vortice circolare, in un moto di riassorbimento eccentrico tendendo verso il suo fondo.


Sul suolo, sul pavimento di fronte all’enorme cupola-schacchiera blu e bianca differenti sfere argentee, traslucide, riflettenti appaiono come stagni o specchi d’acqua, 
sfere come superfici che si spostano insieme a noi e al nostro vagare su quelle lasciandoci portare da una o un’altra direzione secondo le fluttuazioni dell’alto e del basso. 
Dalla cupola agli stagni d’acqua.

Dal centro l’immensa sfera di riquadri blu e bianchi s’apre a spirale per riflettersi sugli specchi le pareti laterali o gli stagni al suolo esplorando il vuoto e insieme la profondità, la caduta amplificata dal cielo al centro della terra,    dalle proporzioni verticali del Grand Palais a questo altro lato dello specchio. 

Sprofondare insieme alla propria immagine in circolarità, in un movimento sferico riassorbendosi a spirale verso l’interno, verso un nucleo primo; movimento ipnotico, concentrico, ripetitivo, portandosi verso un centro mobile impossibile a cogliere o a arrestare che si sposta insieme a noi e alla nostra figura in corsa, in fuga, in movimento libero nello spazio.
 







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