lunedì 30 luglio 2012

Note suggerite dal laboratorio "L'immaginazione, il corpo, il cuore", théâtre du Soleil, Santarcangelo Festival Internazionale di teatro 2012


« Un attore é un chirurgo dell’anima che ha il coraggio di fare un’autopsia delle proprie emozioni in pubblico dandone i sintomi  attraverso il suo corpo. In scena i soli strumenti sono i suoi piedi, le sue mani, i suoi organi, la sua voce, le sue lacrime. In scena é il suo corpo che mette in gioco, in pericolo, a rischio di non toccare, non raggiungere quel vero momento, nel dolore, anche, della non-realizzazione.” (A. Mnouchkine, intervista)

“Ci sono momenti in cui è necessario il coraggio del vuoto. Non cercare d riempirlo ad ogni costo ma lasciarsi portare fino all’estremo, lasciarsi sprofondare, condurre dall’altro”.







E’ forse l’alchimia dell’attore su scena quel vero momento che riesce a incarnare, trasmettere, passare a chi lo guarda, vivere la cosa con la verità che porta in sé, lui dentro quella sua visione, che attraversa e trasmette, amplifica e proietta appoggiandosi su strumenti attoriali, su una gestualità essenziale, precisa, leggibile, su un’espressività potenziata, su una presenza scenica ineluttabile. E’ la sua capacità di disegnare, rendere presente, far vedere la situazione che sta vivendo attraverso azioni semplici, gesti che possono nascere solo su quella scena, in quel momento, dentro quella contingenza e nessun’ altra.

Perché improvvisare nel lavoro del Teatro del Soleil é ricevere gli stati, le emozioni,  che vengono dall’altro- chiunque esso sia, la cosa che mi abita, chi é con me sulla scena, o semplicemente quello che può darmi la musica_ e farne qualcosa. E’ dono, apertura, disponibilità all’ascolto anche attraverso una potenza musicale tragica epica o sacra che trascina l’attore “sul bordo del canto” e lo induce a seguire il ritmo interiore della musica come il proprio battito cardiaco e a trovare, così, l’emergenza del gioco teatrale in una propria giustezza interiore.
 Per gli attori del teatro del “Soleil” gli esercizi di improvvisazione singoli o di gruppo devono rispondere all’esortazione “vivi”, “ricevi”, “lascia venire”, non cercare di agire ad ogni costo ma “ascolta” prendi quello che l’altro ha da darti e crea a partire da quello; non cercare di imporre una volontà, non cercare di imporre la tua visione costruita macchinalmente dalla tua idea. Lascia venire le immagini invece, quelle che abitano in te, quelle che si annidano recondite negli angoli, nei buchi neri della tua coscienza, dalla parte occultata d’essa, quelle che sono iscritte nella memoria sensibile della tua carne, non in un corpo, realista, mimetico quotidiano ma in un corpo che sente, vede , che conosce o riconosce in un movimento, un gesto, un”espressione del viso, attraverso il dettaglio d’un odore o d’un colore.Lasciare sorgere l’immagine e quindi l’azione, la situazione che da essa scaturisce in una ritmica interiore ineluttabile. 
E’ “lasciare la presa”, “lasciar venire”, restare aperti e ricevere, incarnare; divenire l’ istante abitato dove lo stato, l’immagine, o la visione passa in me, il personaggio, la sua storia ricondotti all’istante  d’ un tempo e spazio presenti come un vedere in me.


“Un attore è un esploratore, qualcuno che armato o disarmato, più spesso disarmato avanza in un tunnel stretto, lungo, profondo, strano, precisamente oscuro e come un minatore, porta con sé, raccoglie nel tragitto pietre, sassi, pezzi di roccia. E tra questi dovrà intagliare un diamante”.
Avere una situazione chiara, l’evidenza d’un immagine e di stati autentici che la muovono, essere presenti al proprio personaggio ad ogni  istante, avere “la forza e la muscolatura immaginativa per ricevere e generare tali visioni” e poi trasformarle nel gioco dell’improvvisazione in una storia nata in una sequenza musicale.
Discendere in sé e ritornare per intagliare il diamante dalla pietra grezza senza spaccarla, trovare la forma cristallina, la più pura e trasparente possibile estraendola dal minerale fino a farla risplendere come un brillante.


La parola “stato” ha a che fare nel lavoro del Soleil con stato d’animo, ma ancora, più estensivamente con uno stato di corpo, d’essere. Non è soltanto uno stato d’animo come la malinconia, l’euforia, la tristezza, il dolore, l’angoscia, l’esaltazione, l’ebbrezza, la passione o lo svilimento, non è soltanto la voglia di ridere o di piangere, il riso folle e sconsiderato, oppure il ripiegamento malinconico sul sé senza ragione. Non è soltanto un “paesaggio interiore” dell’anima che si disegna in una situazione concreta ma uno stato d’essere, uno stato dell’essere intero, totale nei suoi multipli involucri, mentale, energetico, emozionale e intuitivo, il cosciente e il subcosciente, carne e sangue, parole e corpo, percezione dell’io e eco dell’altro,  ciò che si esprime, si espelle, trasuda per gradazioni multiple, sottili e diversificate, per esempio degli stati d’esistenza, esperiti, vissuti, attraversati dall’intero dell’essere in tutti i suoi gradi. La fame, la guerra, la malattia, la stanchezza, la paura, su scena possono diventare degli stati di corpo, come il mio corpo risponde, dà voce, vive o trasforma tale stato, come questa situazione agisce sul mio essere-corpo, come lo modifica. Per esempio che cosa significa, fare sentire, vivere la paura d’un personaggio messo di fronte alla morte dell’amato, alla propria morte, al perdersi in una foresta durante una tempesta, oppure preso nell’ estenuazione fisica, nella spossatezza o nella sete, nella ricerca vitale d’acqua come situazione ultima, spinta all’estremo, portata contro il limite stesso della sua possibilità esistenziale. Che cosa significa uscire dal quotidiano, dall’aneddotico per entrare  in una realtà altra, smisurata, nell’ordine dello straordinario, del grandioso, estranea al senso comune, attingendo anche ai miti e alla tradizione del teatro orientale, oppure 
entrare nel gioco dell’infanzia, nella duttilità creatrice e fiduciosa, senza limiti del fare infantile, che in questo teatro diventa anche gioco di travestimenti, rituali di vestizione e maquillage, l’adozione di maschere medianti il passaggio verso tale alterità.
              
Vogliono che questi corpi su scena siano marionette dotate d’una gestualità ampia, leggibile eppure archetipica, vogliono che traccino il loro proprio disegno nella musica, che disegnino il loro racconto, la loro storia dentro la musica.
Vogliono che queste marionette ‘troppo umane’, disarticolate, espropriate di soggettività, lasciate alla manipolazione impersonale d’altri  si muovano con gesti ampi, precisi, accurati eppure essenziali, energeticamente abitati, incarnando una successione di stati destinati a trasformarsi attraverso le azioni e le contro-azioni degli attori in scena. Vogliono vederli in alcuni momenti sprofondare, lasciarsi esplodere o portare dalle proprie azioni e passioni smisurate, vogliono vederli partire a pezzi, lasciarsi condurre dal ritmo feroce della musica, lasciarsi prendere nel duello, nello scontro, nella lotta nata da pulsioni feroci come l’uccidere il figlio, il fratello, l’amato, lo strappare il cuore dal petto dell’altro, il fare a pezzi il suo o il proprio corpo,oppure nel rapimento, nell’estati, nell’abbandono alla passione amorosa, nella corsa, l’inseguimento, la stretta, nel rotolarsi al suolo dei corpi ravvolti insieme. Vogliono vederli in azioni non illustrative, messe a distanza dal quotidiano, portate nell’ordine del poetico, spinte nella dinamica d’un energia d’azione improntata su una ritmica musicale dominante.




“La maschera é il segno stesso del teatro perché é la trasformazione, l’oggetto che diviene e sostituisce il volto umano, perché conduce l’attore che si lascia condurre, lo costringe ad andare molto lontano in sé, a smascherarsi, mettersi a nudo, perché diviene più vero della natura, perché sposta l’attenzione dal viso e mette il corpo in questione”.
Qualche volta gli attori assumono sembianze mitiche, eccessive, mostruose, come la dismisura, l’eccesso delle maschere balinesi che incarnano esseri sopranaturali o sacri, divinità, spiriti o demoni delle foreste, degli alberi o delle acque, forze indomite della natura assumendo sembianze a metà umane e a metà animali. Altre volte si fissano nell’immobilità di cera di questi volti plumbei, regali, di discendenza nobiliare, dall’espressione altera, immobile, ridipinti nelle rifiniture finemente disegnate dei tratti, nei contorni vermigli delle labbra leggermente dischiuse, nelle fessure sottilmente riprese in nero degli occhi contro la forma smaltata, brillante, bianco opaca del fondo-maschera. Questi visi ridipinti, fissati in un’immobilità atemporale si animano, tuttavia, nei momenti in cui la maschera-volto, il corpo-marionetta dell’attore manipolato comincia a prendere vita su scena, obbligando e domandandogli un coinvolgimento totale nella sua portata energetica e emozionale per rendere presente, dare vita al supporto che sostituisce e riceve il volto umano. Lì davvero l’attore non può fingere, ingannare, fare la parodia perché non passerebbe, non reggerebbe alla prova della maschera. Allo stesso tempo, lo porta fuori dalla dimensione realista, quotidiana del suo corpo attoriale fornendogli uno strumento ulteriore di scavo, di approfondimento ed esplorazione del personaggio nel lavoro d’improvvisazione, prestandogli la libertà necessaria per entrare nel gioco del mascherare e svelare, mettere a nudo e mettere a distanza, porre uno schermo che, allo stesso tempo, nasconde e rivela, esigendo in cambio una presenza scenica totale, un'intransigenza formale indispensabile.

 “La necessità di aprire il cuore, di trovare l’infanzia in sé. Per un attore anima, corpo, cuore sono strumenti di lavoro. Cercherà nell’osservazione degli altri, osservando gli altri con generosità, compassione, amore senza giudizio questa capacità di accogliere per sé stesso. Allo stesso modo, la generosità di saper ricevere le immagini prima di  poterle trasmettere. Necessità spinta all’estremo per l’attore.  Molti hanno tendenza a voler fare, a voler imporre una propria visione, sapendo che dopo tutto il pubblico attende che gli si dia qualcosa.”
Ma se non si riceve, fosse solo un istante, fosse solo la sensazione di questo istante “miracoloso”, di questo momento privilegiato che è il momento teatrale,  se entrando su scena non si sente questo momento come qualcosa di importante, di raro, di prezioso, non vi sarà alcun momento di vero teatro.

“ Tutto il tempo ci si chiede che cos’è il teatro, come realizzarlo, che cosa è veramente importante lì dentro. Resta qualcosa di  misterioso. Si ha la sensazione che si tratti per chi lavora di agire perché si esprima una verità. Anche se misteriosamente quella verità, resta  indicibile come il vero momento teatrale. La sua ricerca aggiunge una dimensione filosofica a una concezione tradizionale e riduttrice del lavoro di messa in scena realista."

Si ricongiunge a una considerazione più ampia della natura umana: che cosa ci si aspetta da sé? Come essere più grandi o più piccoli di quello che si è al quotidiano? Qual è la motivazione profonda alle nostre azioni? Chi siamo in questa situazione? Che cosa stiamo dicendo su questa scena? Qual è il nostro stato, la passione prima che ci muove in tale situazione? Quale il bisogno o l’agitazione interiore che ci fa agire? Che cosa ci spinge o ci arresta, ci trattiene o ci fa reagire, qual è l’urgenza prima dalla quale siamo portati?





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