martedì 30 aprile 2013

Riflessioni su alcuni aspetti del lavoro coreografico di Roberto Zappalà a partire dai suoi testi "Corpo Devoto", "Corpo Etico"


(sui meccanismi d’elaborazione creativa dalla fase di ricerca a quella di lavoro finito)










Devozione: consacrarsi a qualcuno, a qualcosa, a un’ideale, un santo, a Dio, a una causa, un’entità astratta o concreta, un uomo o una donna, dare la propria vita per il proprio oggetto di devozione, essere in questa postura d’abnegazione totale e, allo stesso tempo, di trascendenza e distacco quasi religioso dal sentimento vissuto come nell’esperienza estatica o del sacro.


Il processo di ricerca, frammentazione e costruzione attraverso la quale il lavoro coreografico prende corpo giorno dopo giorno in fase di creazione d’uno spettacolo conduce Roberto Zappalà a parlare nelle sue note di “un percorso di devozione al corpo”:volonta' inesausta di confrontarsi ad esso, di costruire un movimento, un linguaggio coreografico a partire dal suo sentire, oggetto al quale consacrarsi, energia e vita, passione e riflessione, spinta etica e vocazione poetica insieme, terreno di prova, di sfida, di ricerca, di sperimentazione sul campo, in gioco con la propria carne e sangue,   egli si pone in questo rapporto sacrificale e insieme sacrale verso un corpo quale principale oggetto di ricerca, strumento di riflessione tra sé e il mondo, infine matrice e materia prima di elaborazione di un’idea alla base d’un progetto coreografico.

Allo stesso modo in cui il corpo è “oggetto di devozione” in senso coreografico per Zappalà, esso si vuole o deve farsi lui stesso “devoto”: devoto al pubblico, devoto a uno sguardo al quale incessantemente s’offre, fino in fondo si dona, in questo gesto sacrificale d’auto-immolazione quasi che è il suo arrendersi alla nudità, all’esposizione assoluta e senza riserve di sé. Lui, devoto alla grazia, alla bellezza come alla crudeltà, o alla distorsione della propria apparente figura, composta forma o estetica postura. Devoto alla levità, alla leggerezza come alla fatica, allo sforzo che sopporta ogni giorno, al fardello del proprio interno peso, alle rinunce, agli eccessi o alle mancanze cui è soggetto ma anche alle emozioni, agli stati che trasmette attraverso la sua pelle, a quello che passa attraverso i suoi fluidi energetici, i suoi stati fisici, cinetici o emozionali. Lui si fa strumento di comunicazione con sé stesso, con l’Invisibile, con l’assenza o il vuoto che lo percuote, con la terra, il suolo o l’assoluto che non sa di ricercare, di possedere in sé, con il muro o la barriera, il limite che lo isola o lo separa dall’altro, dalla sua vera entità o dal suo pubblico.

E’devoto al suolo prostrandosi, inginocchiandosi, cadendo verso la terra, cercando rifugio, riposo, riparo, chiedendo grazia, sprofondando al suolo in un movimento verso le radici, ricercando la profondità d’un ritorno all’idea di matrice, sconosciuta origine genealogicamente presente in lui.
Devoto è anche sollevandosi verso l’alto, nel moto opposto dell’elevazione, dello slancio o della sospensione in equilibrio partendo da quel medesimo radicamento. La devozione fa del corpo uno strumento, un mezzo per comunicare o meglio espellere i propri intimi stati di vita, implicitamente agenti come leve, motori, pulsioni o forze innate, e tradurre quella fisicità che pensa in lui attraversoil movimento e le sue dinamiche.





Corpo del naufragio/corpo naufragato (Il tema ha ispirato un progetto coreografico sviluppato in tre fasi ricomprese nel filone Remapping Sicily : ridisegnare uno spazio, ri-scriverela mappa d’un territorio e i suoi confini, differentemente o meglio ri-riterritorializzare partendo da un punto di vista minoritario sul luogo attraverso i suoi rituali, le sue tradizioni, le sue credenze i suoi silenzi e i suoi pregiudizi , i suoi non-detti o risvolti violenti riletti come materiale scenico).   Diviene metafora d’uno stato di interno naufragio, immagine d’un corpo disgregato, sbattuto come Odisseo da una riva all’altra, scosso dai venti d’un tempesta nella sua eterna peregrinazione attraverso il Mediterraneo, preso a colpi dalle correnti, trasportato, spazzato via violentemente approdando su territori sconosciuti, lui straniero, a sé stesso divenuto estraneo, irriconoscibile a chi lo riceve.
“Corpi che naufragano e rendono visibile il naufragio di chi li indossa” (Zappalà)
Possono essere corpi naufraghi tra le pareti domestiche inghiottiti come attraverso un buco nero al suolo, risucchiati dalla loro stessa deriva interiore oppure reali corpi della peregrinazione, dell’emigrazione, della dislocazione, di chi approda clandestinamente sulle coste d’un paese, o di un’isola nella speranza d’un illusoria salvezza, di chi è percepito come straniero, altro, non-riconoscibile, potenzialmente pericoloso perché non-identificabile da effettivi documenti, dunque nella sua non-esistenza o non-riconoscibilità giuridica. Diventa metafora del corpo fuori dalla norma sociale, fuori dalle sue convenzioni comportamentali e comunicative, dunque a stretto contatto con quello che Zappalà definisce un corpo-strumento, scavato dalla sofferenza della sua non-esistenza.






Instrument2 “La sofferenza del corpo” esplora la nozione di corpo in quanto esistenza incarnata, incisa o comunque contaminata dall’esperito, subito o attraversato,qui facendosi strumento segnico nel suo divenire-traccia, fonte inesauribile di trasmissione o trasmutazione estetica di quella stessa materia. E’ visto nella disarticolazione d’un corpo dilaniato come quello della santa protettrice della città alla quale la performance si ispira, corpo martire e mistico insieme,di sangue irradiato, oggetto di culto, di preghiera e di supplica nella processione collettiva, invocato e custodito nel fervore, nell’eccitazione o nel fanatismo del rito religioso.

Nella sua ricerca coreografica cruciale diventa l’attenzione data a corpi per le forze cui sono soggetti, per quello che violentemente o dolorosamente agisce in loro, per come si alimentano di tali stati spesso intimamente scavati, abitati fin nelle cellule, nella matrice del loro essere, come questa trama si imprime sui medesimi e li metaforizza. Corpi mutilati, violati, offesi, depressi, repressi, disarticolati o frammentati; il lavoro coreografico “crudo e crudele ma sempre onesto e naturale” consiste a trasportare tali stati in immagini e suggestioni fino a farli divenire composizione coreografica. Renderli poesia e metafora attraverso la danza, trasmutarli e trasformarli, costantemente elaborare attraverso un lavoro “duro e crudele” istintivo se vogliamo, di estromissione senza pudore ma tuttavia funzionale alla creazione, dettato dalle sue interne dinamiche di costruzione scenica.





Pudore

“ Non credo che il corpo possa essere onesto fino in fondo senza che il pudore venga espulso, (estromesso) proiettato al di fuori del nostro sistema corporeo. (..) In tutti i nostri laboratori la pudicizia, la compostezza, la misura devono essere sostituiti dalla spudoratezza, l’amoralità del corpo”. Immaginando di andare sempre oltre nella ricerca, oltre quelle barriere di pudore, quei limiti dettati dalla norma o normalizzazione sociale dell’educazione, delle convenzioni che segnerebbero qui delle zone di non-credibilità, di non plausibilità d’un corpo su scena in uno spazio non totalmente riempito dal suo esterno proiettarsi nel movimento. Esso, in questo senso, è pensato sempre più fuori dal linguaggio “danza”, come un moto continuo che si invia e si riceve, va e viene, parte e ritorna, in una scioltezza, una facilità apparente del suo darsi, apparentemente disinvolto, al limite “non-curante”, senza pretensioni e tuttavia riempito d’una sostanza, d’un fondo vivente oltre la sua semplice forma.

La forza della danza parte da qualcosa di molto fisico, si è nella carnalità più pura dell’essere, lui, il danzatore, un essere essenzialmente corporeo, totalmente devoto al movimento là dove l’espressione, il senso, il pensiero passano direttamente dentro i muscoli, le vertebre, le ossa, lasciati al continuo dell’energia messa in circolazione attraverso il movimento nello spazio.
Immaginare di andare sempre oltre nell’in-pudore inteso come verità dell’esserci implica per il danzatore di riconoscere quella parte di sé o del movimento che inevitabilmente emerge per sua natura incompiuto, impuro o spurio scaturito in stretto contatto con il suo fondo come massa informe o non-finita.





Onestà

“Che un corpo si conformi a una pura forma estetica resta di secondaria importanza” per Zappalà; sottratto a questa pretesa deve invece restaurare “ la sua istintiva natura”, aderire al proprio intimo stato, riguadagnare una vera e indiscussa carnalità dell’ esserci. Può esistere solo in questa “onestà” superando le barriere del pudore per essere completamente nell’atto, nel momento, anche a volte nell’eccesso, nell’esubero, nel consumo o nella spesa senza ritorno del suo potenziale energetico. In questo modo, solo, potrà riappropriarsi della sua vera esistenza, della sua natura fatta di carne e sangue, sudore e sofferenza, animalità e spiritualità, sentito e vissuto, cosciente e inconscio, dei suoi eccessi come delle sue mancanze. Solo in questo modo riconquista la propria unità fisica e spirituale uscendo dalla semplice forma come involucro, guscio o scheletro svuotato di senso per divenire corpo abitato attraverso la danza e il movimento. Se esiste una drammaturgia, in questo senso, per il coreografo siciliano essa deve nascere dal corpo in tutti i suoi stati di motion/emotion , essere intrinsecamente connessa al movimento e non imposta dall’esterno come forma o idea drammaturgica pre-esistente.








Centro-periferia

Conoscere è avere consapevolezza, divenire coscienti di qualcosa attraverso la sua percezione e poi il suo passaggio alla coscienza. Per esempio, occhi bendati nell’oscurità sviluppare consapevolezza dello spazio, dell’ambiente circostante, del nostro esserci nello spazio sensibilmente ritrovando punti d’ancoraggio, di riferimento, di misurazione del medesimo nell’oscurità, oppure, al contrario, esplorando questo stato di disorientamento, di smarrimento, di perdita delle coordinate spazio temporali. Ripetere una stessa esperienza nel tempo sviluppa diversi livelli di comprensione della medesima, gradi diversi di ascolto, di decifrazione esecuzione d’un semplice compito affidatoci.

Di solito, afferma Zappalà, si allena un corpo attraverso una serie di esercizi ripetuti per imparare a recepirne il funzionamento , riconoscerequali sono le parti indotte in un movimento, le dinamiche che lo muovono, i suoi punti d’appoggio, le sue leve, i suoi centri d’equilibrio, le leggi della sua stabilità. Alleniamo la coscienza, ricerchiamo questo controllo faticoso sul corpo eppure vogliamo, ugualmente, lasciarci sorprendere dall’inatteso dell’avvenimento, del gesto, lasciare questa porta aperta all’imprevisto, attenderci all’incidente, allo sbaglio voluto, all’occorrenza che rompe il funzionamento d’un corpo educato, impostato sulla norma, ricondotto al controllo della propria interna formattazione.

Il centro si lega alla periferia attraverso una distribuzione energetica fluida, diffusa passando per i differenti canali; possiamo individuare diversi centri energetici, afferma Zappalà, il ventre, lo sterno, le ginocchia, i gomiti, la testa, isolarne ognuno separatamente e prenderlo come punto di partenza, come motore al nostro movimento per poi individuare diversi circuiti cinetici attraverso l’organismo. L’energia parte da un centro e fluisce fino alle estremità di dita, mani, piedi, punta dei capelli, punta del naso; le estremità divengono importanti quanto il centro se il movimento è continuo, fluido, illimitato, pensato come “senza fine”, espandendosi o rimpicciolendosi secondo necessità, minuscolo, impercettibile a tratti, esploso, portato fuori, espulso violentemente altre volte. Sempre il suo fluido deve essere mantenuto in circolazione, e, a un secondo grado, coinvolge la nozione di spazio, la consapevolezza del medesimo per il corpo nella sua proiezione attraverso il movimento.

Ugualmente altre polarità emergono nel lavoro di laboratorio che potranno essere oltrepassate scivolando da un estremo all’altro attraverso delle esercitazioni per esempio
scivolare/sollevare, contrarre /distendere, rilassato/in tensione, elevazione/caduta, abbandonare/sostenere,stabilità/sospensione.


Caduta

I corpi e le loro parti si muovono a una velocità proporzionale al loro peso in un movimento naturale che asseconda la legge di gravità e li fa precipitare verso il basso, li fa cadere, ritornare al suolo, ritrovarsi in qualche modo a contatto con il medesimo in una posizione fetale o raccolta, distesa o allungata. Di qui, la ricerca di questa condizione di caduta fluida e naturale dell’andare verso il suolo, dell’assecondare la legge di gravità in un moto che non e mai brutale, violento e improvviso come una rottura, mai un lasciarsi cadere pesantemente insieme al proprio fardello ma, invece, un assecondare attraverso dei contrappesi una legge naturale di gravità, in questa discesa o scivolata verso un suolo organicamente percepito, ritrovato quicome un appoggio, magari una leva per prendere nuovo slancio, ripartire e proiettarsi nuovamente verso l’alto.
La legge di imprevedibilità agisce allora contro la solidità affermata del corpo in piedi nell’evenienza del suo imprevedibile precipitare, scivolare, lasciarsi portare o attrarre dal suolo.



Respiro/voce

Esiste un preciso percorso del respiro nel corpo rintracciabile attraverso gli organi e le fasi che lo compongono, partendo da un punto e ritornano al medesimo attraverso un circuito naturale che si instaura. Dunque il respiro, afferma Zappalà, come “strumento sonoro vocalizzato” si fa portatore d’una ritmica ineluttabile che può sostituirsi o venire prima di quella propriamente musicale. La voce, ugualmente, può essere utilizzata nel lavoro sulla danza per intercettare delle ritmiche innate al corpo e, dunque, sintonizzarsi con quelle per trovare un movimento naturale.
Per Zappalà può divenire “ strumento di assimilazione del ritmo che dalla voce viene trasmesso al corpo e quindi al movimento”. E’ forse il mezzo più semplice ed essenziale che ci fa capire come il ritmo venga dall’interno, simile a un tempo musicale, a un battito ritmico innato che possiamo ritrovare o scoprire istintivamente in noi sollecitando ritmi esistenti in natura, dunque non imposto o puramente dettato dall’esterno.
Tale processo mette il corpo del danzatore ancora una volta in contatto con quell’ onestà d’espressione che deve esigere da sé stesso, nonché con una migliore consapevolezza della propria ritmica interiore. La voce induce una partitura ritmica di movimento che si manifesta in segni, tracce, un percorso nello spazio coinvolgendo in questa dinamica d’elementi condivisi una terza dimensione dell’esserci, la propria proiezione- espansi, presenti, fluidi- attraverso lo spazio.






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