martedì 1 dicembre 2015

Ways to freedom II, post-scritto (Improvisazioni poetiche da "GRADI DI LIBERTA' "al Mambo Bologna)



Cinquanta oggetti per cambiare i nostri gradi di libertà



Gli oggetti della nostra casa, quelli che ci portiamo appresso, che riempiono le nostra borsa o tasche, le cose che fanno parte della nostra vita e ci accompagnano o ci rassicurano al quotidiano, divengono punti di riferimento, qualche volta ancore di salvezza, piccoli rituali che ripetiamo ogni giorno in maniera metodica, quasi sacramentale. Le cose e il loro uso, la relazione che stabiliamo ad esse possono regalarci un grado ulteriore di libertà, ma anche di necessità che diviene dipendenza, sembra suggerirci la mostra presentando 50 oggetti immanenti alla nostra esperienza, al nostro essere immersi dentro le cose e nel movimento del vivente.

L’automobile per andare dove vogliamo, internet per creare contatti, connessioni e scambi in rete, per navigare liberamente nello spazio aperto e virtuale del web,
 i giornali che leggiamo, quelli che ci danno l’impressione di conoscere, scegliere, e comprendere i movimenti e le dinamiche del mondo, di controllare e non essere controllati, 
di sapere e non essere manipolati.
Poi le università, le associazioni, le scuole, le mostre, i musei, i teatri, gli oggetti che portiamo appresso, amuleti, anelli, pietre o croci, gli oggetti dei nostri piccoli esorcismi al quotidiano, 
le pantofole che nascondiamo sotto il divano, gli oggetti che ci portiamo in vacanza,
 i fogli, I documenti, le fotocopie, le note scritte su foglietti volanti per non dimenticare.

Gradi di libertà: la scrittura per liberare il nostro pensiero e spazio interiore, gli infradito che portiamo d’estate al mare, 
i tablet che portiamo con noi sempre, le borse che carichiamo di oggetti e libri sulle nostre spalle, addosso come le parole scritte addosso, gli anti-dolorifici, le pillole, i rimedi naturali, gli infusi, le tisane, quelli omeopatici, i rituali contro i nostri stati doloranti d’essere, i saponi che ci detergono, i detersivi con cui ripuliamo i nostri spazi fisici e interiori, i telefoni, i cellulari per tenerci in contatto, gli sms, le foto, i messaggi per ricevere e dare continuità, scambio, presenza .

 La luce elettrica, le lampadine che si accendono nella nostra mente, quelle che ci danno la libertà di leggere, di lavorare o vivere di notte; il copyright, le monete, le unità di valore e di scambio, gli assegni, 
i crediti, i pagamenti a  breve, medio, lungo termine, a mai.

Gradi di libertà: i cereali, i grani, i risi, le farine, la terra, i nutrimenti, i manufatti, l’acqua che beviamo,
gli orologi, le pile elettriche, le luci che si illuminano nell’oscurità, i certificati di laurea, i libri. Le parole, le lingue straniere se ci permettono di comunicare , di incontrare lo sconosciuto, l’estraneo, l'altro, di vedere il mondo un po’ più grande o un po’ più piccolo, i viaggi per cambiare le nostre prospettive o punti di vista e imparare a guardare con altri occhi; 
i passaporti, i voli low-cost, i biglietti d’aereo o di treno, i messaggi, i contatti e le foto digitali che ci scambiamo nell'attraversamento.

Il diritto al voto, la legge quando ci tutela, le note musicali quando ci accompagnano, le lettere scritte o quelle della scrittura, le cifre virtuali di conti bancari inesistenti, le lenti a contatto, la tecnologia, il gioco nell’infanzia e nell’arte.

Colori e pennarelli, una scatola di matite colorate, una tavolozza di tempere e vernici, di pigmenti rari e coloranti artificiali compaiono per  dare forma e sfumature  ai nostri gradi d’essere, di divenire umani, vitali, depositari d'un segno unico, irripetibile, a noi solo. Le scarpe da ginnastica, da sport o di danza, 
i libri in edizione economica, le tazze di caffè e i libri usati, la proprietà privata e la privacy.

L’acqua , gli acquedotti, la circolazione di fluidi nei corpi, di merci sul libero mercato ,  di idee e parole sulle pagine scritte; 
gli orologi per misurare il nostro tempo interiore, i fogli per non dimenticare, le monetine, 
le chiavi, i gessetti colorati,




le penne, i foglietti volanti, 
gli oggetti irrisori che portiamo con noi al quotidiano creano o sanciscono, costituiscono  o limitano la nostra esperienza giorno per giorno. Ci rendono dipendenti e liberi insieme, per gradi o su piani diversi, noi immersi nel flusso del vivente, dentro le cose e nella relazione unica, personale, assoluta ed emotiva che stabiliamo ad esse perché se da un lato riscattano parte del nostro tempo, delle nostre conoscenze e azioni al quotidiano dall'altro intrecciano intimamente in noi reti tensive di necessità, di abitudine o di memoria rischiando di re-imprigionarci dentro la loro medesima determinazione. 


Cao Fei, “ Whose Utopia” , 2006 (Video in 3 parti)










Una fabbrica della Osram per la fabbricazione di lampadine elettriche appare, una delle tante, innumerevoli realtà sorte in China nel processo di delocalizzazione, di produzione industriale a basso costo e a catena d’una multinazionale spostatasi nella sperduta provincia del Guangdong.

La videasta filma in primissimo piano il lavoro in fabbrica, l’automatismo d’una infinito processo a ripetizione, i colori atoni, spenti, quasi ricoperti della stessa patina di acciaio e vetro dell’ambiente, la luce artificiale, alogena delle lampade a led, l’inumano e macchinino sistema di produzione a catena.
Bulloni, meccanismi a ripetizione sono ripresi in primissimo piano dalla telecamera: rulli, ruote e nastri trasportatori atti all’ottimizzazione dei tempi e dei risultati, pedane riempite di merci, tubi in plastica, filamenti d’acciaio, bulbi in vetro.
Fuoco e acqua, sistemi di saldatura e di raffreddamento: mani lavorano incessantemente alla catena, file di mani in un minuzioso lavoro di incastro e cesellatura, oppure guanti usurati di individui divenuti parti del meccanismo a ripetizione. Lampade, luce puntata dagli occhi al tavolo di lavoro, gli sguardi sono ciechi, i volti disumanizzati, assorbiti dal processo di produzione.
Corpi umani di anonimi lavoratori sono visti attraverso le linee di sedie, di postazioni o di macchine in basso sul suolo , in alto alla luce piatta e alogena attraverso gli spogli soffitti. Fasci di neon, bianchi tubi in primo piano, imballaggi Osram, etichette a vista. 
Le lampadine sono pronte per essere inscatolate, impilate e poi sigillate in  pacchi e cartoni in attesa della spedizione. Numeri e file di merci compaiono, poi container, muletti trasportatori e esportazioni in serie tutta la giornata nel quasi silenzio interrotto solo dai rumori ordinari degli imballaggi e dal basso continuo dei motori.

“Factory fairytale”





Musica di pianoforte, lenta e avvolgente. Stesso sfondo industriale, scarpette di danza classica e una ballerina sulle punte in tutu bianco appare danzando tra i meccanismi a ripetizione ora arrestati della fabbrica. Altri corpi emergono, uomini e donne improvvisano gesti lievi, movimenti appena accennati di mani e braccia divenute ora ali di uccelli e linee di aironi ondeggianti in aria. L’abito leggero d’una danzatrice si lascia condurre in una danza lieve e sinuosa tra innumerevoli file di cartoni e imballaggi industriali; un uomo improvvisa un serie di gesti su un fondale divenuto ocra e beige, colorato e vivo come lui ora, non più ricoperto di quella patina d’acciaio e di ferro. Un chitarrista intona alcuni accordi, ali d’angelo sono viste sulla linea della catena di montaggio.
Tanti modi di dirsi attraverso la danza in una possibile ri-affermazione di sé: la libertà del corpo nel movimento , la libertà d’essere là, semplicemente danzando, 
lasciandosi ondeggiare sulle note lente d’una musica di pianoforte.

“My future is not a dream”

Immagini colorate nella fabbrica in un’utopia di presenza, di umanità e di voce.
Autentici esseri umani ri-compaiono: giovani, uomini e donne della Osram sono ripresi nella loro vita quotidiana in un ritorno all’umano, al colore, all’individuale  oltre l’automatismo del sistema.
Filmati nella loro peculiarità appaiono come ritratti di individui singolari: un viso, un’espressione , uno sguardo, la differenza unica di ciascuno. Imbarazzo e timidezza, orgoglio o disagio nel comparire di fronte alla telecamera trapelano nei ritratti, i colori blu, rosso e giallo, jeans e magliette colorate sullo sfondo d’un ironica musichetta jazz. La nudità dell’esporsi di fronte a una telecamera, dell’avere uno sguardo, un volto, dell’essere presenti, semplicemente per mostrarsi in un istante di vita. 
Esserci nella propria umanità, come gruppo, come singolo, sembra dire il video: il futuro è qui e ora, Osram deve poter divenire quel luogo d’insperata utopia.
 







Nessun commento:

Posta un commento