venerdì 1 gennaio 2016

Steve McCurry (I PARTE): sulla fotografia e le immagini nel corso d'una vita ( da “Icons and women” ai Musei S.Domenico di Forlì )









S.M (durante le inondazioni monsoniche del 1983):“ Quell’anno in India ho capito che per farcela dovevo entrare nell’acqua lurida coperta di melma, piena di rifiuti e di animali morti: per completare il mio progetto dovevo accettarne tutti i rischi… Ho cominciato a lavorare in una barca per muovermi nelle strade inondate di Gujarat ma è impossibile fare belle foto da quel punto di vista. Alla fine ho capito che l’unico modo per lavorare era entrare in quel fiume marrone con le mie vecchie scarpe da tennis. E’ successo a Porbandar un piccolo villaggio a nord di Mumbai, è lì che ho preso coraggio e ho trascorso quattro giorni nell’acqua fino al petto tra i corpi degli animali. Ogni sera tornavo a casa con i piedi gonfi e piagati. In quel momento ho capito che solo così si trovavano le fotografie. Solo se sei disposto a correre il rischio, solo se sei completamente convinto. Le belle foto sono in quell’acqua sporca, non puoi proteggerti, stare ai margini, un po’ fuori un po’ dentro: se la gente è sommersa fino al collo devi essere dentro con loro, non c’è separazione, non puoi stare sulla sponda e guardare ma devi diventare parte della storia e abbracciarla fino in fondo.”  

Fotografare, afferma McCurry, significa raccontare storie su un tema o un soggetto scelto attraverso la fotografia, storie in cui si crede veramente, che si perseguono con passione fino all’ultimo respiro e, insieme, magnificare gli spazi, i luoghi e le culture ripresi in un momento e in un singolo luogo attraverso il potenziale insito nell’immagine fotografica. Significa, ancora, documentare, lasciare una traccia, rendere testimonianza, se vogliamo rendere giustizia mostrando quello che accade realmente nel mondo in momenti cruciali della storia o dell’attualità, in zone sensibili della terra_ l’Afghanistan, per esempio, durante trent’anni di guerra _ lì dove il dramma umano, i conflitti e le atrocità generate dal medesimo sono all’ordine del giorno una volta che ci si addentra profondamente nella materia oltre le logiche di potere e i sistemi geopolitici di dominio in atto.   Fotografare, in questo senso, implica per McCurry un guardare all’ umano, all’autentico, all’individuale del soggetto fotografato preso nella sua unicità, poi alle conseguenze oggettive e geografiche che tali conflitti producono sui territori, sugli spazi fisici e sociali, per esempio far vedere in che modo la guerra si imprime,  permea e lascia un’impronta indelebile sui paesaggi come sui volti, sulla peculiarità dei singoli individui attraverso un’immagine che vuole provocare un pensiero, risvegliare un movimento dei sensi o della memoria, toccare, muovere o sommuovere, infine empaticamente parlare allo spettatore. Da un punto di vista fotografico, è quel gesto intuitivo del cogliere o riconoscere un momento decisivo per lo scatto, un volto o un ritratto tra una folla, un’immagine autentica, singolare e unica in una scena o tra una moltitudine di accadimenti. 
McCurry lo definisce come la capacità di vedere, immaginare o visualizzare possibilità presenti in potenza in ogni virtuale immagine fotografica a partire dal momento presente, dal luogo o dalla situazione, e, insieme, saper attendere la luce o l’attimo decisivo per lo scatto senza stancarsi mai di guardare. Tale esercizio dello sguardo diviene una pratica costante, quotidiana ripetuta giorni e ore per trovare l’inquadratura giusta, per attendersi e attendere la luce esatta. Come egli afferma nel corso d’una inedita video-intervista alla mostra: “I momenti visivamente più interessanti sono  quelli in cui letteralmente cercavo soggetti e situazioni da fotografare e d’un tratto le cose sono accadute, magicamente quasi, e le immagini si sono rivelate di per sé stesse. Le grandi fotografie accadono nel percorso, lungo il tragitto mettendosi in empatia, in accordo con quello che vi è intorno, lavorando in esterno, esplorando e ricevendo una sensazione precisa da un luogo, dalle strade, fino a perdersi in esse ed entrare in uno stato di ascolto meditativo, surreale quasi. Restando aperti all’accadimento senza cercare di forzare la situazione perché la risposta arriverà nel viaggio, nell’attraversamento prima che nella destinazione finale o nell’obbiettivo pensato. Se qualcosa di importante trapela inseguiamolo, non lasciamolo scivolare via.”


Nell’esposizione attualmente in corso  ai musei S. Domenico di Forlì “ Icons and Women” il visitatore si trova investito e sopraffatto da una galleria di immagini e ritratti d’una sorprendente bellezza e nitore espressivo, d’una armonia e perfezione visiva ineguagliabili e, insieme di fotografie che parlano di guerra, di devastazione o indigenza nelle zone più remote e povere della terra, dall’Asia, all’India al medio - oriente  nel corso dei suoi trent’anni di viaggi e reportage fotografici. I ritratti di donne dominano dando vita a un universo femminile composto da una miriade di sfaccettatura, volti e sguardi provenienti da luoghi e evenienze culturali distanti sulla terra spaziando dal mondo orientale a quello occidentale e islamico. Ancora, le fotografie parlano di fragilità e bellezza: la fragilità dell’uomo posto di fronte a potenze inestinguibili della natura come le tempeste di sabbia nel Sahara, le alluvioni o le piogge monsoniche in India, oppure mostrano la violenza dei conflitti in corso in un mondo scosso da guerre e esodi di massa come i più recenti reportage nei campi profughi afgani.


IMMAGINI DALLA SERIE

Venezia, 2011




La casa è un interno ventricolare con  le mura in pietra a vista rossicce e scrostate in parte nel loro strato più esterno , un selciato di foglie diafane a ricoprirne il suolo. Detriti di terra e piante tentacolari insidiano il visitatore nel passaggio verso l’interno. La proiezione d’una figura compare nell’antro d’una porta luminosa attraverso la soglia d’un edificio invaso da forme di vegetazione selvaggia lambiccandosi sui muri in escrescenze di piante e arbusti lasciati a loro stessi nel lavorio del tempo e nella trasformazione lenta della materia, arzigogolanti in cespugli, edere e foglie verdi, poi tra i sassi e le pietre al suolo frammiste a macerie. La figura avanza attraverso una soglia luminosa, oltre, forse nell’oltre del presente, di un tempo definito e reale per la fotografia verso un tempo onirico, altro, fuori dalla storia, un luogo dell’assoluto simbolico, dell’inconscio nel passaggio surreale alle soglie di una mente razionale, del corpo verso una realtà altra convocata attraverso l’immagine poetica. I colori vivi, rossicci e ocra della terra nuda, delle pietre in cotto e mattoni resistono al germogliare invasivo, selvaggio e proliferante della natura lasciata al suo stadio originario di abbandono, al disfacimento e lavorio incessante di un circolo cosmico di rinascita e distruzione.
 
Rajahastan, India, 1983

Fotografa l’India prima e durante la stagione delle piogge, all’arrivo del monsone quando la siccità spacca la terra in crepe irregolari e rende l’aria irrespirabile creando turbini di sabbia nel deserto: “Si alzò una tempesta di polvere, di quelle che annunciano il cambiamento delle stagioni. C’erano delle donne vestite di rosso che per proteggersi si erano raccolte in un cerchio, strette l’una accanto all’altra con i figli al centro. Le aveva investite  una tempesta di sabbia e per superare la paura e darsi coraggio avevano iniziato a cantare”.
Una luminosità diffusa e avvolgente irradia il cielo al tramonto quando il sole non è più accecante all’orizzonte e  la luce appare attenuarsi, divenire meno diretta e  invasiva nell’atmosfera offuscata, coperta da una miriade di pulviscoli, particelle ocra e beige di sabbia su una nebulosa vaga e indistinta sollevatasi dal suolo. Le donne si avvolgono in circolo l’una accanto all’altra per proteggersi dall’ondata di sabbia e polvere, nei loro drappi, tuniche e veli rossi, svolazzanti in aria attraverso la nebulosa all’imperversare della bufera. Tessuti rossi si stagliano scintillanti, nitidi come una matrice, come un punto certo, un’impronta o una pennellata su un foglio bianco e nudo contro la sfocatura intenzionale generata dal vento. Un punto scintillante e vivo, un lascito, un segno del rosso in mezzo all’alone indistinto del fondo.

Etiopia, 2013


Immensa visione del continente africano, metaforicamente visto nel suo volto di nudità, di indigenza e stato primigenio di corpi, poi nelle sue alienanti barriere di marginalità o abbandono, negli sbarramenti dell’essere al di fuori, ai bordi o ai margini del sistema di potere della geopolitica mondiale. Zona calda della terra bruciata dalla calura e dalla siccità, barrata dentro dalla povertà e dalla malattia, sbarrata fuori dalle dittature o dalla fragilità dei suoi interni regimi, dallo sfruttamento e dall’usurpazione delle sue risorse. 
Volti di adolescenti sono visiti dietro uno schermo-finestra, trasparente zanzariera contro la malaria che divide e separa lo spettatore dall’immagine attraverso un velo, una parete sottilissima prolungata su mura fatiscenti d’un edificio in rovina. Lo sguardo dell’infanzia appare filtrato come questi volti, mani e visi dipinti secondo i riti locali dietro tale schermo trasparente quanto insidioso, 
denso e oppressivo come una maglia di rete finissima: opaco impedisce allo sguardo di arrivare, di oltrepassare la misura d’una soglia. Si veste e veste questi corpi d’uno schermo distanziante, li proietta dietro una parete di silenzio, un muro di suono impenetrabile a noi spettatori quanto sottile, insidiosa prigionia interiore, gabbia virtuale entro la quale i corpi sono trattenuti. I volti scarni dei piccoli indigeni coperti di graffiti, segni e simboli, i colli adorni di collane intrecciate di corda incarnano la potenza del rituale, la presenza innata, massiccia e immanente della natura nelle loro vite quanto la fragilità dell’individuo posto di fronte ad essa senza difese;  braccia si sollevano contro lo schermo sbarrato, voci sussurrano dai muri, ombre di alberi si proiettano sulle pareti fatiscenti aperte in crepe e fessure irregolari. Nudità e indigenza, prigionia dei corpi, primigenia presenza della natura in ogni manifestazione dell’umano si proiettano qui a stretto contatto con le forze divine o naturali del cosmo.


Kabul, Afghanistan 1992


La donna varca una soglia, si accinge ad appoggiare un piede fuori, ad attraversare gli scalini d’una casa afgana, impasto di fango e terra lasciati essiccare al sole, sul bordo, al limite ultimo, esterno della propria intimità che la porterà a entrare come individuo nel mondo.

 E’ forse in un villaggio isolato, sperduto tra le distese rocciose del paesaggio afgano oppure in una città abitata, in un nucleo urbano, la capitale, non sappiamo con esattezza, la foto non ci permette di stabilirlo. 
La tenda sollevata, un piede su uno scalino, con attenzione, con cautela, lentamente la donna si accinge ad attraversare una soglia, a fare un primo passo per entrare nel mondo. Per farlo, il volto, il corpo e la figura sono coperti, completamente occultati, occlusi al nostro sguardo, completamente sigillati dentro quell’involucro-gabbia di tessuto che bandisce e ricopre completamente il corpo femminile lasciando trapelare luce soltanto dagli occhi. L’occlusione della figura, avvolta, avviluppata dentro uno spesso strato di tessuto, tale la maglia di un’armatura, lo strato esterno della corteccia di un albero, il cuoio che ricopre il dorso d’un animale, l’aspetto reticolare d’una fitta grata attraverso cui trapela a fatica l’aria e la luce riflettono la condizione di assoggettamento, d’auto-alienazione, di fondamentale annullamento della condizione femminile nel codice imposto da tale ordinamento sociale e religioso di stampo estremista.


Indossano il burka attraversando il mercato locale in un villaggio afghano. Si soffermano di fronte a una bancarella, ci sono scarpe da ginnastica appese, fili colorati con scarpe di diversi colori e modelli, sneakers, stile americano, laccetti pendenti dall’alto, le merci in fila sul banco e i fili variopinti con altre ordinatamente in aria appese.
 Anche queste donne come le scarpe appaiono appese, intessute in involucri di fili, grate e stoffe multicolori fino ad divenire a distanza manichini, merci in esposizione come le altre, oggetti intrecciati di colori attraenti allo sguardo, beige, bianchi e azzurri, quasi corpi simulacro di reali identità. Come manichini sono viste in linea, in similitudine alle merci e nel contrasto stridente al loro essere umani, abitati da reali presenze e individualità di soggetti femminili.


Bombay, India



Doveva essere un ragazzino qualunque, poco più che un bambino, uno dei tanti cresciuto a contatto con l’illegalità e la miseria nelle strade di Calcutta,Mumbai o Delhi, 
qualcuno in cerca di elemosine dai turisti stranieri o forse un piccolo delinquente, uno dei ragazzi in strada nelle periferie o negli slum dei caotici agglomerati urbani in India. 
Il fotografo lo riprende in primo piano al  momento dello scatto, quello che mira a cogliere un volto in una luce o in una inquadratura particolare, in una sua autentica verità e completezza formale al di là di tutti i convincimenti o le intenzioni a priori definite, aspettando pazientemente giorni e ore in una pratica quotidiana all'osservazione e all'empirica messa alla prova della luce, dei luoghi e dei soggetti inseriti nella loro realtà. 
Lo riprende in questo effetto surreale,come fosse un corpo di creta o d’argilla, come fosse stagliato in un nitore straordinario contro la luce elettrica, satura d’un riflettore, posto sotto quel lume artificiale puntato contro il suo volto fino quasi ad accecarlo. Occhi neri scintillanti  nell’oscurità appaiono intensi e vellutati contro l’effetto voluto del rosso. Quasi fosse un volto dipinto, irreale e nitido insieme,  magnificente sullo sfondo della miseria cancellata, messa tra parentesi dall’empatia stabilita con lo sguardo al centro della scena.











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