venerdì 1 gennaio 2016

Steve McCurry (II PARTE): Ritratti e volti dal mondo (dalla mostra "Icons and women” )









Herat, Afghanistan, 1992

Ha il volto scoperto questa giovane afgana, solo il capo avvolto da un velo bianco che le cinge le spalle fino al collo sopra una tunica di tela grezza, scura in netto contrasto con la bianchezza del velo. Le mani nude in primo piano, segnate dal sole o dal lavoro stringono al petto libri, quaderni, fascicoli, forse anche versetti e scritti del testo coranico. Una stella rossa, scintillante al centro delle pergamena  nitida e ocra, la ragazza stringe quei libri come fossero la sola ancora di salvezza, la sola via di affrancamento e libertà individuale, il solo appiglio verso una conoscenza possibile  e dunque una consapevolezza aggiunta, un reale scelto anziché imposto per una giovane donna afgana in un mondo dominato da uomini e sottomesso a gerarchie religiose e di potere imposte dalla società islamica. Insieme al volto i libri sono il solo punto focale su cui la  luce si sofferma e converge delineando due precise fonti luminose per l’immagine: il bianco e la luce come l’apertura verso un futuro immaginabile, una via tracciata per l’intelletto e il pensiero mentre il resto della figura e il fondale restano in ombra nella piena oscurità.



Rangoon, Birmania, 1995

Ann Sohn Sushin, leader carismatica birmana rilasciata dopo vent’anni di arresti domiciliari, siede oggi in parlamento e lotta per la libertà politica della Birmania, 
per l’avanzamento del suo paese verso un ordinamento sociale moderno e democratico.
Siede sullo sfondo della bandiera birmana al suo tavolo di lavoro; la vediamo in primo piano, un piccolo orologio dorato al polso, una penna alla mano veste un abito in tela grezza d’un colore chiaro, madreperlaceo quasi.  E’ d’una semplicità e rigore disarmanti, d’un eleganza naturale ineguagliabile. Il suo viso emana una grande calma, ponderatezza nel prendere decisioni, ma anche rigore, controllo, il senso d’una interna disciplina nell’agire quotidiano. Un’aurea luminosa riempie lo spazio della fotografia, la forza magnetica d’uno sguardo che attira il nostro divenendo punto focale dell’immagine, emanando una sua luce interiore, una sua preponderanza che in qualche modo ricopre e vanifica qualsiasi altro elemento inessenziale della composizione. La vediamo in tale sua idealità politica, in tale luce carismatica a illuminare il destino di un popolo, quasi investita d’un ruolo, posta lì da un volere divino a incarnare una lotta, un avanzamento seppur contrastato: il processo difficile, lento e combattuto di evoluzione democratica per il paese.

Wadi Hadramaut, Yemen 1999/ Tiguent, Mauritania




In una delle zone più remote della terra, un villaggio sperduto dello Yemen campi vedi d’agrifoglio si distendono sullo sfondo di case in terra e fango lasciato essiccare al sole a ridosso d’una montagna rocciosa. Le donne impegnate nella raccolta delle messi sono riprese a distanza volgendo a noi le spalle; d’esse percepiamo solo le figure chine a metà celate tra le piante verdi, le tuniche nere e i cappelli di paglia enormi intrecciati di fili, altissimi stagliandosi contro l’orizzonte in una perfetta distribuzione di linee dello spazio, in una casuale quanto assoluta simmetria di forme che si ripetono nell’imprescindibile ordine compositivo dell’insieme. 
Un mondo arcaico, remoto perduto fuori dal tempo e dalla storia ricompare così attraverso la simmetria di pochi elementi, il gioco di corrispondenze tra uno sfondo in terra battuta, il rigoglio della vegetazione in primo piano e le forme desuete dei tradizionali copricapo yemeniti.

Un gruppo di tre figure ugualmente appaiono su una distesa arida nel deserto di Mauritania, due donne avvolte in un copricapo e una tunica nere, il volto battuto dal vento e avvizzito dal tempo, la pelle bruciata dalla calura del deserto, tra loro un bambino in una tunica azzurra il volto baffuto e il copricapo bianco portando tre grandi pani sottobraccio attraversando la distesa desertica,
 il vento in faccia. Le figure appaiono riprese obliquamente a distanza  nel passaggio a piedi attraverso l’arido suolo mauritano, sbattute e travolte dalle folate di  vento. Quasi appartenessero a un mondo arcaico, 
remoto o fuori dal tempo, e fossero viste lì in una composizione quasi pittorica, arrestate nell’eternità d’un istante che racchiude in sé le tre generazioni, le due donne al tramonto e un giovane all’alba della vita, il passato e il futuro, l’essenza del tempo e di quel luogo distillato e arrestato nell’istante dello scatto fotografico.





Rio de Janero 2012/ Jaipur, India 2008/ Rajahastan, 2010  (nuova vita o seconda vista)

Si sporge da una terrazza, il loggiato d’un palazzo antico in blocchi granitici e pietre a vista; abbraccia la vita, la invoca a piene mani, la richiama a sé in un gesto aperto di braccia che accolgono, un volto irradiato di luce e d’amore verso il mondo: la giovinezza e l’entusiasmo irriflesso trapelano dai suoi occhi, emanano dai palmi aperti delle sue mani.
 
Saluta il mondo appena arrivato alla vita con la gioia d’esserci, minuscola creatura appena giunta alla luce inviata dal destino divino in un luogo un tempo precisi per iniziare il suo cammino. 
Mani si avvicendano intorno a lui, uno strumento per sentire il battito del suo cuore, un metro per misurare le sue dimensioni, il cordone ombelicale ancora attaccato alla vita. Grida a pieni polmoni in questo gioioso saluto alla terra, alla vita che gli è stata donata.

Appare avvizzita in volto, vecchia e avvolta da un copricapo colorato, questa donna indiana, coperta da un velo di splendenti colori e contornata da una madreperlacea collana. 
La pelle del suo volto è segnata, dissecata, impressa di profonde rughe e insenature come fosse una corteccia scavata dal tempo, eppure lo sguardo è stranamente limpido, giunge a noi , chiaro, luminoso, come fosse dotato d’una seconda vista a partire dalla sua apparente cecità, visionaria quasi nella limpidezza occultata che s’apre al fondo di tale privazione di sguardo.








Conflitti nel mondo

Mumbai, India ,  (donna ferma a un semaforo chiedendo elemosine)


Una donna sotto la pioggia con il figlioletto in braccio chiede elemosine, la pioggia torrenziale della stagione monsonica in India. L’immagine è ripresa da dentro un’auto, un vetro separa, spesso e opaco, rigato di gocce d’acqua. Gli occhi della bambina appaiono in primo piano, grandi, intensi e scintillanti sotto la pioggia, lei piccolo involucro grigio stretto, avvolto al corpo della madre, intensa visivamente nel contatto con il velo rosso. L’opacità del vetro rigato d’acqua leggermente aperto in alto da una fessura per lasciar passare le monete è visto dall’interno  dell’auto caldo e confortevole, lì dove la foto è stata scattata; documenta e restituisce tra le linee la misura di un paradosso, di un contrasto stridente e irrisolvibile tra due realtà inconciliabili, da una parte la povertà, la gente per strada, l’indigenza e lo sfruttamento  delle risorse per questi paesi satellitari all'epicentro dell'economia globale, dall’altra la ricchezza e l’indifferenza del mondo occidentale, dei grandi monopoli di potere capitalista.

Kabul, 2003 (L’Afghanistan dopo trent’anni di guerra)




Vende arance su un’auto distrutta della polizia a Kabul, sta lì e vende frutta dodici ore al giorno per pochi soldi. E’ pieno inverno, lui è senza guanti e senza cappello, sta semplicemente lì, aspettando che qualche cliente passi a comprare le sue arance per fare un po’ di soldi, forse aiutare la famiglia. L’auto è in decadimento, ricoperta di ferro e ruggine, senza più vernice né porte e finestrini; 
ne resta l’impalcatura esterna, la carcassa svuotata della sua originaria forma, la stessa sensazione trapela dall’ambiente circostante, dalla strada e i muri dell’edificio scrostato di calce, dalle lamiere a vista, dai ferrami e le macerie. Materia in dissoluzione, è soggetta al lavorio di distruzione del tempo e all’azione dell’uomo, della guerra nei suoi conflitti eterni e insolvibili, perpetuati senza finalità alcuna dalle forze distruttive messe in atto dall’umanità. Un lume, una lampada posta sul parabrezza illumina l’auto d’un chiarore lunare; illumina il manto, il  pezzo di tessuto su cui sono disposti con cura i frutti: tondi, colorati, arancio vivo percuotente, meravigliosi nel loro nitore espressivo sul decadimento della materia circostante.

Herat, Afghanistan 



“La città era stata bombardata per dieci anni, assomigliava a Dresda, tutto era distrutto fino all’orizzonte. Questa famiglia era appena tornata dall’Iran dove era fuggita e stava per ricostruire la propria casa, si può intravvedere la parte di un nuovo muro. Sono stato fermo in quel punto sette giorni e ho scattato la stessa foto in momenti diversi. Le persone erano sempre lì e io ho semplicemente fotografato la loro vita e le loro azioni quotidiane. Ho scelto uno scatto solo che era il simbolo per me della loro condizione di solitudine ma anche di coraggio e di caparbietà.”

La visione è suggestiva di mura diroccate, pezzi di case e squarci delle medesime o fondamenta rimaste intatte in cemento grezzo, terra essiccata e fango. La pietra e la terra si imprimono contro il cielo, rossicce e calde nei colori della sabbia, del deserto, degli accampamenti e dei fuochi di notte, dei coprifuochi anche nella memoria impressa dei bombardamenti. Sembrano quasi immergerci in una visione della Palestina, dei paesaggi medio - orientali o in una proiezione della Terra Santa qui devastata e rasa al suolo dalla guerra. Forme di materia in de-costruzione, in scomposizione  libera si impongono nello spazio e sul vuoto, poi un fuoco vivo, un punto focale , una fiamma luccicante e gente intorno al fuoco d’una famiglia ritornata in Afghanistan dopo la guerra. Tale il barlume di un nuovo inizio, un nucleo ricomposto, una fonte di luminosità e di calore dal quale iniziare a ricostruire o riscrivere una storia. Riaccendono un fuoco in mezzo alla desolazione d’una città fantasma, in mezzo all’ammasso di macerie e tra linee e le forme in decomposizione.
                                                           

Giappone, 2011

“L’assalto delle acque è stato implacabile durante il terremoto e lo tsunami del 2011”, racconta il fotografo, ha disperso migliaia di individui, lasciato innumerevoli vittime, raso al suolo interi villaggi, cancellato dalla faccia della terra intere locazioni e punti sulla carta geografica nel corso di qualche ora, poche notti e forse pochi più giorni.
Un’ombra nera appare riflessa in controluce su un vetro infranto. Alone oscurante, inconoscibile nell’effetto fotografico, il profilo del volto è accennato e reso ombra, fantomatica presenza, figura in parziale annebbiamento, immateriale apparizione dal regno dell'oscurità o dell'altrove. La traccia fotografica segue la linea del contorno riflesso nell’oscurità su uno specchio che è anche vetro rigato in schegge e fenditure. Come uno schermo ottico distorcente filtra e impedisce agli spettatori di raggiungere la nitida visione, la riconoscibilità del soggetto come presenza reale, storica e individuale spostando l'immagine a livello di metafora, figura, schermo simbolicamente rinviando ad altro. L’ombra di un evento, d’un passato, della storia d’un popolo come della tragedia avvenuta in Giappone in 2011 resta impressa attraverso l’immagine di quel profilo oscurato e nebbioso come un’impronta, un marchio indelebile, la minaccia di un’ombra oscurante quanto inconoscibile proiettata sui vetri d’uno specchio finito in frantumi.

Peshwar, Pakistan, 1985/2002 






Decide di ri- fotografare la giovane ragazza afghana, ripresa nel campo profughi di Peshwar a diciassette anni di distanza dall’immagine divenuta  simbolo e copertina del National Geographic nel 1985. “Attraverso i suoi occhi, afferma McCurry, abbiamo compreso parte della sofferenza del popolo afgano”. L’aveva notata all’angolo d’una tenda  adibita a scuola femminile nel campo di Nasir Bagh in Pakistan durante l’esodo del popolo afgano all'epoca dell'invasione sovietica dell'Afghanistan negli anni ‘80: in primissimo piano sono gli occhi verdi  grandi e espressivi, lo scialle rosso liso in alcuni punti ad avvolgerle il capo scivolando semplicemente dai capelli alle spalle, lo sguardo, infin,e fiero ma anche colto in una innaturale fissità, come intimamente scosso o spaventato da qualche invisibile terrore o minaccia. Gli stessi occhi ricompaiono a diciassette anni di distanza in primo piano nel ritratto della donna ritrovata ora madre. Decide di lasciarsi fotografare con il burka sollevato fin sopra la fronte; i suoi  grandi occhi fieri, limpidi e illuminati di speranza guardano al futuro con una nuova luce mentre il volto si mostra, infine, nudo, senza velo, autentico.  




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