martedì 7 gennaio 2014

Eron, dalla street-art ai paesaggi dell'anima..(visto a criticainarte, Mar di Ravenna)










“Forever ever…nei secoli dei secoli” (video) per la prima volta nella storia la street art entra nel tempio dove l’arte trascende il tempo da secoli, la chiesa”.


L’evento performativo del video realizzato  dall’artista riminese affrescando il soffitto d’una chiesa a spray painting  si snoda nella lentezza, nella musicalità, nell’attenzione data all’emergere del dettaglio, il contorno sottile d’una colomba che svolazzante prende forma nella linea di bianco vaporizzata da un uomo con grandi ali d’angelo su un’impalcatura mobile del soffitto.
 Il fondale blu denso, materico d’un cielo affrescato e espanso in nebulose grigiastre si materializza in ampi passaggi di spatola come un flusso di coscienza rivelandosi a stretto contatto con il fondale materico, nel rispecchiamento attraverso il medesimo, sensibilmente. Le architetture o le pareti del soffitto che lo circondano proiettano l’azione o l’happening pittorico nel mezzo della materia, nell’atto della pittura,
nella pulsazione del colore, in un disegno che prende forma a partire da poche vernici, spatole e bombolette spray sul soffitto spoglio d’una chiesa decorata a bianchi stucchi.
Quasi che nel mezzo dello spazio echeggiante, vuoto e tendente all’alto della cupola attraversata da fittizie impalcature si volesse lasciare il tempo ai visitatori di fermarsi, guardare, seguire l’affioramento d’un limpido fondale, di nuvole grigiastre e linee svolazzanti emergendo sul soffitto come flussi di sensazioni, paesaggi mentali, onirici che prendono forma seguendo il fluire delle nostre interne percezioni.






 Incursioni urbane, notturne in luoghi all’apparenza spaventosi, aggredenti di passaggi stridenti d’auto e camion nella notte, di fari accesi d’un tratto nell’oscurità, di rumori come sibili e boati, di paesaggi urbani delle grandi arterie trafficate, delle circonvallazioni esterne alle città illuminate di luci elettriche o da fari anonimi sorpresi nella notte. 
Strade deserte e bande d’asfalto aprendosi iridescenti, nere e luccicanti come feretri di morte. La solitudine del singolo, dell’individuo colto nella trappola d’un mondo onnivoro, d’un sistema atto a fagocitarlo e rigettarlo ai suoi margini nelle giungle urbane del capitalismo moderno, ai bordi della mente come delle città o dello spazio abitato, dominato dalle leggi del mercato quanto da un vago, impalpabile senso di inesistenza, di annientamento.

Il paesaggio metropolitano  notturno si erge contro l’imporsi d’un segno, l'incidere d’una traccia personale, significante o espressiva come un “dare colore” al pensiero, all’utopia all’imprimersi dell’interiorità dei sensi nell’esteriorità del mondo. 
 Con lo spray l’artista trasgredisce, lavora sullo spazio, interviene o incide con la forza istintiva, primordiale del segno, d’ un segno che diventa  pittura in quanto azione, movimento esperienziale attraversato dal corpo nell’affiorare d’una sintassi di tracce, graffiti o immagini che agiscono o interferiscono sul reale sensibilmente.

Lavora in luoghi periferici, di notte, ai margini delle città, clandestinamente, su edifici anomali, senza proprietà, negli spazi abusivi, occupati, “squattati” o disertati delle periferie urbane, in luoghi marginali o sui “bordi” come su ponti, treni, nei sottopassaggi e sulle facciate non-viste degli edifici.   Con l’energia ribelle d’un quindicenne Eron lascia la propria impronta sulla città, la propria firma singolare, distintiva come un “visual writer”, come uno scrittore su una pagina bianca farebbe, sui muri costruendo le proprie fittizie, apparenti narrative di segni.


Colore spray contro il cemento d’un viadotto in periferia vicino a una strada trafficata nel video.
Bus, macchine scorrono, luci feriscono nell’oscurità.
 Spray, colore e disegno appaiono, ruggine rossiccia d’un volto appena delineato nella notte per dissolvere a coagulo, a macchia, a colatura intenzionale di vernice sul cemento umido della colonna contro l’insegna rugginosa dei caratteri. 
Alba, luce chiara del giorno: un affresco compare, un volto dissolve nella nebulosa sfuocata a ruggine della memoria.

Mattina: nella piena luminosità del giorno sono filmati sulle strade graffiti con acronimi, ritratti di volti, caratteri dati a vernice liquida sui treni, sulle pareti dei palazzi, sui balconi delle case popolari, agli angoli nascosti delle strade, sulle pareti spoglie in cemento degli edifici, nei crocevia, infine in restauro dentro una chiesa tra una cupola decorata in oro e gli stucchi maestosi del suo bianco soffitto.
Mentre il lavoro prosegue Eron è filmato sulle impalcature mobili a ridosso degli edifici d’un quartiere popolare, i passanti osservando incuriositi l'affiorare d’un sogno, d’una visione che si disegna sotto i loro occhi. E la città diventa d’un tratto animata, vivida di colori, di linee che si profilano, si modellano nella forma di grandi uccelli svolazzanti, aironi e scale rovesciante o volanti, simili alla visione oniriche dipinte da Chagall  con le figure in volo su Parigi. Tanto gli edifici urbani apparivano anonimi, grigi, spenti, immersi in questa solitudine e desolazione dell’uomo contemporaneo nella grande città, tanto le tag colorate divengono macchie di colore, incisioni di anonimi “scrittori visivi”, acronimi che si riflettono come “Eron” metallici vividi e brillanti:  il segno d’un giallo ocra incandescente, d’un blu elettrico, d’una vernice rossa e corposa, d’un raggio ultra-violetto e riflettente.  




Dare e sottrarre spazio, spazio liberato e spazio occupato,
dare spazio al sogno, all’utopia, a ogni “presa di potere” immaginativa, democratica e comunitaria sulle nostre città, 
sottrarre spazio alle occlusioni del pensiero, ai meccanismi fagocitanti dei sistemi di potere in atto,alle prigionie delle nostre solitudini, all’occlusione d’un mondo di ferro e cemento
Dare spazio alle periferie e alle zone marginali,
a un airone e un bambino su una spiaggia, a un sogno d’infanzia, irradiante luminescenza di riflessi e guizzi dorati tra le onde perdendosi, rifrangendosi immancabilmente. 

Dare spazio ai margini, agli spazi disertati, disinvestiti d’una reale funzione sociale,
alla luce che passa attraverso, alla forma d’un vortice oscurante, labirinto di cerchioni neri gommati riassobendo, riavvolgendo l'individuo al suo centro,
alle vernici, alle strade, al rosso dei graffiti, alle vaporizzazioni di colore sulle superfici di periferie degradate,
ai mondi che si disegnano sui soffitti d’una chiesa affrescata,
a bianche ali di colomba, a una linea dorata appena tratteggiata facendosi messaggero dall'invisibile.

Dare spazio alle ali della fantasia, del pensiero, da dentro la gabbia dell’impalcatura sui ponteggi d’una chiesa,
allo scorrere delle acque d’un fiume sotto le barricate  d’una diga,
al tracciato d’un sentiero d’acqua sotto bianchi ponti di pietra , sontuosi,  marmorei forse d’epoca antica.

Nel video ancora “Forver ever” l’utopia come emergenza dai margini  è una scala posta contro un muro nella notte, una scatola di aerosol a pressione,
gesti, movimenti nell’oscurità e disegni o abbozzi sui muri, una colata di rosso ruggine discendendo come nuova insorgenza su un cartello di “messa in vendita”.
E’ chi dall’alto d’un monta-carichi gettando il proprio sguardo sull’insieme della basilica immagina la prospettiva d’una cupola da ricreare come l’architettura  di nuovo cielo per dare spazio a una città più solare, più armoniosa se vista attraverso gli occhi stupiti di sguardi volti verso l’alto . L’ingresso d’una chiesa, d’un luogo sacro dove entrare con le proprie vernici, poi una massa d'indaco comparendo insieme ad ali d’angelo messaggere, sul corpo d’un uomo qualunque.
Il profilo d’una rondine, una maschera che puntata contro il viso impedisce di respirare ma permette a chi la porta di aprire questo varco verso l’utopia, la visione.
Nell’ultima immagine del video un corso d’acqua chiara, limpida è vista tra le grate di ferro d’una barricata, diga o barriera, un angelo, gabbiano con lunghe ali o colomba di pace affiora allo stesso modo a poco a poco su una parete grigiastra di nuvole bianche e spumose, lievi e frammiste d’azzurro al prendere consistenza d’un sogno.  




“Tell me I am not dreaming”



L’infanzia e il suo potere di credere che tutto sia possibile anche le cose più assurde,
l’infanzia e il suo immediato tentativo di guardare, di comprendere la realtà e racchiudere in quello sguardo il senso della vastità che la circonda. Tale paesaggio onirico, in riva al mare su una spiaggia deserta, la serie che l’artista definisce  “mindscapes” visioni nate come materializzazioni di memoria o frammenti d’un pensiero inconscio incarnandosi attraverso un segno immediato in un preciso punto di realtà- assume qui la forma del rispecchiamento dell’infanzia. Sono soprattutto paesaggi, luoghi famigliari rivisitati dalla vaporizzazione della pittura come le spiagge della riviera riminese, fatte di vaghe maree, di nebbia, d’acqua, di paesaggi silenziosi e di improvvise luminescenze.
Una bambina su una spiaggia deserta in contatto, tendendo la mano a un airone che forse diventerà, che potrebbe trasmutarsi in un essere alato, una creatura fatata, un animale dotato di poteri magici, propiziatori come nelle favole o nella percezione dell’infanzia. Acqua tutt’intorno ovunque o meglio la barriera che separa il mare  dalla terra, barriera quasi invisibile cancellata da questa irradiazione espansa tutt’intorno in guizzi e onde luminescenti, intermittenti, nella linea sfuocata a metà impercettibile dove l’acqua si ricongiunge e si separa dalla terra.   Come se quest’immagine venisse da un luogo molto lontano, dentro di noi il posto dove proviene, si situa e prende forma tutto l’universo fatato, irraggiungibile e perduto dell’infanzia. 




“Eron to Fellini”
















Un tunnel oscuro, un bosco che può spaventare, il labirinto intricato della mente o della memoria dove la luce si insinua in modo innaturale, diffusa e accentuata su alcuni dettagli, su un oggetto o una figura marcatamente realista, riconoscibile nel forte chiaro-scuro dell’arancio su fondo grigio carboncino, ora, sfuocata, dileguata, tutt’intorno sul paesaggio onirico circostante.
Il vortice, il labirinto, il groviglio dai tratti inestricabili è segnato dalle forme circolari e incisive, marcatamente oscuranti della mente che attraversa e volge o si rivolge invano a spirale occludente su sé stessa in un  punto marcante del tempo, in uno spazio incidente della propria esistenza.
Cerchioni neri e isolanti, circolari e ancorati al suolo divengono a poco a poco nella serie sempre più oppressivi e angoscianti al loro ispessirsi a terra come le gomme nere d’un percorso attraversato, al limite esperito o subito aggrovigliandosi intorno all’individuo a vortice, a catena completamente riavvolgendolo al suo centro attraverso una voragine profonda, oscura e senza fine.

Sullo sfondo l’immagine sfuocata, ingrandita ora dileguata dai suoi confini, ora portata fuori dai suoi contorni del volto del regista riminese Fellini forse baluardo o lume di fondo smarrito, ora percettibile a tratti, ora deformato dal vortice invasivo del grigio circostante. La figura dell’individuo è al centro, alla ricerca, in cammino di fronte al groviglio, al labirinto del linguaggio o della propria esperienza, di quel segno che ha preso lì materialmente forma, consistenza  come nugolo di linee insieme a lui perdendosi in tale riavvolgimento del proprio destino. Lui, nell’atto di incamminarsi e perdersi attraverso o forse solo in quello di cercare uno spiraglio e tracciare come un varco luminoso, attraverso la chiarezza della luce dal centro dell’oscurità più devastante.





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