sabato 16 maggio 2009

Gesto e improvvisazione II











Ritrovare un’immagine del passato attraverso il più semplice dei gesti: ritrovarla dentro un atto o una parola che riscopro casualmente all’incrocio di azioni e percezioni risvegliate, lasciate affiorare in superficie attraverso un'esercizio di improvvisazione danzata.

Trasfiguro l’esperienza ordinaria; strappo al mondo gesti e atti apparentemente insignificanti.
La poesia la si trova anche nello spazio di un passo, di un cammino, oppure nell’immobilità di in uno sguardo, nella non-azione di un gesto trattenuto.
Approfondire , andare a vedere dove parte, dove esso mi conduce. Essere lì completamente, infinitamente dentro il momento.

Improvvisazione danzata

Peso in abbandono del corpo, inerte, ripiegato su sé stesso, addormentato o come avesse perso ogni segno di una precedente individuazione. Radiazione luminosa sul volto. La testa si risveglia per prima, si solleva come ricordasse d’un tratto, apre gli occhi poi ripiomba in una sorta di sonno ipnotico: letargia, o incomprensibile perdita di sensi. Le dita intirizzite incominciano a muoversi, si risvegliano uno a una, la vibrazione lentamente passa dalle mani, ai polsi, alle braccia che si distendono, si allungano, si protraggono nel vuoto disegnando, tracciando lo spazio come lo riscoprissero, l' inventassero per la prima volta. L’onda vibratoria si propaga, attraversa le spalle, la spina dorsale, il torso, la colonna per arrivare al bacino. I piedi e le gambe restano ancora immobili, la voce inudibile ancora, solo il respiro.
La tensione, l'allungamento estremo delle braccia e del torso attraversati da un’onda fluida, energetica e vitale contro l’oblio immobilizzante della base. I momenti d’arresto improvviso, l’amnesia dove il corpo è rigettato in una sorta d'immobilità si alternano ai gesti d’apertura violenti, avvolgenti, ai movimenti ampi, ondulatori del bacino, delle braccia, del busto.

Linee curve, volutamente morbide: lotta appassionata di forze contrarie, quelle che si ergono in altezza, quelle che ci riportano al suolo, quelle che si disperdono verso l’esterno, quelle che ritornano al centro.
Composizione fatta di forze antagoniste; tensioni che animano le forme inerti. Lentamente, mangrado il loro volere, aprendosi lo spazio come in uno slancio inatteso,
aprendosi un cammino, scavando il vuoto come ne disegnassero un percorso improbabile o incerto, allucinatorio forse, avanzando e retrocedendo a tratti, con gli occhi chiusi poi aperti, con le braccia e le bambe che si protraggono e si ritirano, lentamente portate dall’onda primordiale del movimento. Qualcosa si libera nel fare come per un intervento del caso .

“E’ questa coscienza acuta del movimento, questa concentrazione assoluta sul gesto che permette di introdurre una verità, una dimensione personale nel lavoro senza cadere nel patetico. Canalizzato dal lavoro fisico”[1] e distaccato dalla dimensione psicologica pura e semplice- cito Pippo Delbono- diventa un segno poetico, accede alla dimensione danzata. Un linguaggio personale si elabora cosi’ a poco a poco.

“Un attore cammina su una scena vuota; non fa nient’altro che camminare ma lo fa con una tale precisione, una tale forza nel suo cammino che attira l’attenzione come camminasse su un filo”[2]. (Presenza)
Poi, d’un tratto apre un ventaglio, niente di più che quel piccolo gesto d’aprire un ventaglio, ma lo fa al momento giusto, drammaticamente giusto. (Sente i ritmi del teatro naturalmente).
Esso si prolunga nel tempo, assume la consistenza, una densità, una presenza nello spazio.
Non è più il sentimento, la sensazione psicologica presso l’attore ma l’impulso organico che agisce. Intuitivamente sente che quello è il momento giusto. “E’ il corpo che risponde, non la testa.”[3]Sviluppare una coscienza, una concentrazione prima su ogni istante del movimento.
La danza di tutto il corpo fa sorgere la drammaticità. Mantenendo una tensione, anche nell’immobilità.

Lavorare sulla poesia insita nel movimento produce sulla scena non una storia ma una “poetic vision” come la definisce Carolyn Carlson. La terra, l’acqua, le forze che muovono il cosmo, ogni gesto che inventiamo per un nostro intimo bisogno di espressione nasce da un’interna idea o “visione”. All’inizio non ne abbiamo che una nozione imprecisa, un abbozzo sfuocato di materia inerte che comincia a emergere dalla massa oscura, dai tentativi vaghi di improvvisazione, li’ dove ci gettiamo a corpo perso, con gli occhi chiusi, letteralmente alla cieca senza sapere esattamente dove ci porti, in quale logica più ampia di composizione andrà a iscriversi.

Un’energia mi fa attraversare, prende corpo nello spazio per raggiungere qualcuno che è pronto a riceverla dall’altra parte, attraverso la potenza del suo darsi,
vale a dire la sua intrinseca presenza e precisione.

La pienezza e il vuoto al cuore della scena: questa economia del vuoto è una ritmica fondamentale che agisce in teatro come nella vita.
Il vuoto come il tempo dell’attesa, dell’oblio o della sospensione dolorosa si contrappone al tempo dell’azione, della passione, dell’istante vissuto e fino in fondo abitato:
l’euforia fulminea del momento, l’avventura gioiosa o estemporanea dell’attuale.






[1] Cfr Pippo Belbono, Il corpo dell’ attore
[2] Ibid.
[3] Ibid.

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