sabato 2 maggio 2009

Gesto e improvvisazione

































Il gesto nello spazio
non é semplicemente un fare, ripetere o rifare qualcosa che già esiste come l’atto codificato di una pratica teatrale oppure nell’infinità di gesti che compongono la nostra vita quotidiana. Posso partire dalla cosa più semplice, un dettaglio insignificante o un’azione banale che ritrovo sotto la pelle scolpita delle mie abitudini, nei micro-movimenti incontrollati che compongono la trama del mio fare quotidiano: sussulti, scosse o reazioni nervose appena percettibili sotto l’apparente controllo in cui ogni corpo si regolarizza, si costiutisce, si autocensura. Posso osservare questi miei gesti di insofferenza, di impazienza o di rabbia, questo modo di guardare quando sposto il mio centro mobile d’attenzione non solo con gli occhi ma anche con la testa, un braccio, un gomito, una gamba. Come stabilisco il contatto con chi si trova a distanza ravvicinata da me, contatto di corpi che si ascoltano, si parlano, e si ripetono, riprendendo, rubando l’uno dall’altro. Sono entrati in una zona di influenza, di commistione, nella sovraposizione invisibile di frammenti, di lembi di pelle, nella prossimità dei loro campi magnetici uniformatosi l’uno all’altro. Per esempio: “ti scruto, ti guardo, sono guardato, mi avvicino, temo, esito, avanzo, retrocedo, rido, fingo indifferenza; mi ignori, riprendi il discorso, la parola scivola da qualche parte, ne riprendi il controllo in extremis. C’é come una sospensione dolorosa, minimale, il silenzio ora. Qualcosa é passato, un vuoto spinto, la cosa non detta, poi un cambio repentino di soggetto. Come entriamo in comunicazione, come siamo consapevoli l’uno dell’altro, come diciamo delle cose a parole ma, poi, il corpo si muove in un’infinità di altri messaggi subliminali: passaggio fluttuante, richiesta inconsapevole, silenziosa dall'uno all'altro e ancora, l’anello mancante della catena, per questa cosa che é li’ e non si lascia dire, tacere neppure. L’attenzione é mobile, flebile, segue l’andamento delle rotture, i vai-e-vieni, l’ondata, la marea, il vago percorso delle energie mobili nello spazio.


Esattamente é quello che entra in gioco sulla scena potenziata di una improvvisazione : la questione del’energia, del plasmare fisicamente un tempo e uno spazio, di inciderlo, modificarlo, abitarlo, comprometterlo con la mia presenza. In questo uso particolare del linguaggio corporeo non é più semplicemente quello che faccio ma la concentrazione estrema, la lentezza insopportabile, la tensione saturante con la quale imprimo ogni movimento come se fosse appunto, non più qualcosa di puramente esteriore, ma un mobilitare il corpo virtuale che si nasconde dietro a quello apparente.

Attraverso soglie di sentire, passaggi di intensità, vuoti e pieni, estremi di inconsitenza, di leggerezza oppure di una pesantezza tragica e devastante. Passaggi fluidi non più di materia ma della potenza stessa- virtuale, mobile, energetica- che é il mio corpo, che esso porta in sé non come ideale statico ma preso in questo spazio-tempo disegnato dalle mie energie in atto.

Sono piegato a terra, accovacciato sulle ginocchia oppure contratto in uno spazio ristretto con la schiena volta all’interno e le spalle ripiegate di dentro.
Sono una conchiglia, una nuvola, un bozzolo, un fiore, una larva, una lumaca;
sono allungato, teso, disteso, un’ammasso di pelle e d’ossa senza forma;
una macchia di colore che si allarga senza più dimensioni oppure un arco teso,
una maschera irrigidita, la parodia di un me stesso ideale, unificato, irragiungibile ora.
Uso la lentezza, la concentrazione estrema dei gesti perché assumano una pregnanza fisica nello spazio, perché vadano a risvegliare delle energie inutilizzate, addormentate nel corpo,
perché vadano a modificare la mai relazione all’esterno,
il mio rapporto a uno spazio-tempo unitario dove sono immerso e che chiamo esistenza.

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