domenica 4 ottobre 2015

Quaranta mila passi (liberamente da Claudia Catarzi, "40.000 cm2 " assolo ad Ammutinamenti 2015 Ravenna)



Jean Degottex




Jean Degottex








Cammina in uno spazio esiguo, ristretto come un fazzoletto di terra, circoscritto come un riquadro luminoso al suolo, dentro una cornice di linoleum lucida ritagliata sul vuoto circostante. Vestita con abiti comodi, quotidiani, appare d’un tratto su scena, per caso quasi, indossando un paio di pantaloni in morbida flanella, una maglia a scacchi grigi, rossi e neri e mocassini di cuoio dal tacco massiccio, risuonante al suolo. Comincia a muoversi lentamente, a fatica come fosse dentro uno spazio estraneo, ostile e dovesse renderlo proprio, sancirne la presenza con un gesto, misurarne la profondità o la piattezza, la ristrettezza o l’estensione attraverso i suoi passi al suolo, l’impronta e la misura dei propri piedi. Come fosse dentro una scatola cranica espansa e esplosa, una figura ingigantita e schiacciata con la testa voluminosa, enorme dentro quel minuscolo riquadro.

Con movimenti controllati, riprodotti al rallentatore, dettati da regole ferree, da un’interna rigorosa disciplina inizia a camminare, s’arresta, tenta qualche passo, abbozza un arabesque mentre le ombre al suolo ingigantiscono ancora nello spazio mostrandolo come un riquadro minuscolo e luminoso ritagliato sull’oscurità indeterminata del fondo. Si muove con stridore di passi, con la rigidità insita in un manichino ricondotto a una meccanica rigorosa, mentre rumori cigolanti si odono in sottofondo come di porte che girano a fatica sui loro cardini, serrature arrugginite o arti scricchiolanti per la lunga assenza di movimento o intirizziti all’arrivo dei primi freddi. Scarpe nere di cuoio, militari pesantemente battono il suolo in un rumore stridente, come di strappo o improvviso scollamento di carta adesiva d’un muro misurando a larghi passi il riquadro. L’eco di battiti sordi attraverso l’aria al peso del singolo colpo del piede al suolo. Dentro una scatola cranica il corpo si muove, macchinino, irrigidito mentre avanza e poi retrocede al battito ritmico d’un tacco, allo strappo improvviso d’un adesivo al suolo.

Un arresto inaspettato, un’interruzione imprevista e una ripresa completamente altra, differente, in una rinata atmosfera. La musica è ora violino mixato con altre sonorità elettroniche e una voce registrata fuori campo la accompagna ipnotica e ripetitiva, avvolgente e monotona a tratti parlando alla danzatrice in una lingua sconosciuta, in parole incomprensibili, scollate l’una dall’altra incongruenti ma dalla messa in risonanza avvolgente, dalla portata vibratoria giusta, in accordo o in risposta all’involucro interno della sua più essenziale presenza. Come se i suoi gesti ora, il vocabolario dei suoi movimenti ripetuti e ritmici, delle sue ondulazioni di braccia e abbandoni di gambe al suolo, delle sue oscillazioni di busto e bacino o ripiegamenti a terra in continue circonvoluzioni e rotazione sul morbido involucro terra volessero liquidare gli angoli, fluidificare i solidi, smussare gli spigoli, lottare contro gli spazi esigui fatti di punte acuminate e di varchi taglienti e estinguerli, deformarli fino a renderli morbidi, fino a vederli circolare su un piano infinito e continuo dell’universo. Pedana mobile, è una forza articolata e duttile quella che proviene o emana da questo involucro-corpo ricongiungendosi alla memoria fluida dell’acqua, dei liquidi, della continuità sottile e impalpabile del tutto cosmico.

Quattro passi nel riquadro divengono quaranta mila centimetri quadrati di spazio, di possibilità, di vie percorribili nell’invenzione o reinvenzione costante di sé. Scopre il continuo del suo corpo al suolo in una ritmica ineluttabile, dentro un mantra ipnotico e ripetitivo che entra in vibrazione con la radice innata e sotterranea del suo movimento. La scena è vuota, ciò che è acquisito, dato, appreso nell’esercizio della danza vuole essere dimenticato, sospeso o messo a tacere in un non-chiedersi e insieme “ri-chiedersi cosa risiede ancora all’origine del primo passo, nell’essenzialità del primo gesto, di un corpo al suolo cercando il suo proprio movimento avendo sottratto tutto il resto”. E il tempo fluisce, ciclico e monotono in un camminare avanti e indietro confondendo le coordinate e le direzioni, in un perdersi nel caos di passi che si muovono in mille sensi e in grande quantità fino a rintracciare un ritmo, nella nudità di sé una vibrazione sotterranea, un movimento d’onde che ci ricongiunge, infine, alla radice prima e intatta del nostro più autentico essere nel mondo.

Jean Degottex


Jean Degottex



Jean Degottex






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