lunedì 16 dicembre 2013

Su “La grande magia”, esposizione collettiva al Mambo di Bologna (I PARTE, il rovesciamento del punto di vista, un mondo al contrario )








Una moltitudine di opere apparentemente estranee, o diversissime tra loro, distanti nel tempo e nello spazio, dal passato al presente, dalla pittura rinascimentale alla fotografia modernista, dagli albori del cinema alla scultura o installazione contemporanea sono state accidentalmente accostate, tenute insieme nell’ esposizione “La Grande Magia” al Mambo di Bologna secondo la logica del puro immaginativo o meglio rilette secondo categorie paradigmatiche desunte dal pensiero magico quale filone sotterraneo d’un sapere segreto, esoterico, dell’occulto o dell’irrazionale visibile tuttavia nelle sue manifestazioni tangibili ai margini della logica dominante del razionalismo occidentale a partire dal VIII secolo. Nel presente allestimento tali categorie desunte dal filone del pensiero magico/irrazionale vengono utilizzate come metafore per rileggere lavori tra loro più estranei e disparati, per pensare l’atto della creazione, la figura dell’artista, il rapporto tra arte e natura, arte e artificio. In particolare in tutte le opere scelte la magia viene vista in binomio indissolubile con l’arte attraverso una serie di figure del pensiero del “magico”: in primo luogo l’opera è pensata come trasformazione alchemica o “magica” della materia, d’una materia resa viva, vivente perché plasmata, manipolata, passata al vaglio dalla mente e delle mani dell’artista demiurgo. In secondo luogo, la capacità dell’arte di appropriare come nel rituale esoterico, di possedere la realtà attraverso le immagini: l’immagine fotografica nel suo potere di catturarla e trasmutarla visivamente, il cinema nel suo potere cinestetico di creare immagini in movimento riconnesse alla pellicola invisibile del sogno, della memoria o dell’immaginazione cosciente, infine l’immagine poetica generata dal linguaggio nel suo potere di simbolizzazione attraverso la parola.








                                 

Le opere qui riunite nel loro rapporto pur diverso e disparato al magico o all’irrazionale entrano in qualche modo in un rapporto differente al tempo, insinuano l’idea d’una temporalità percepita come flusso e continuo oltre la contingenza del singolo avvenimento, della singola esistenza e fuori dai limiti cronologici d’un tempo lineare misurato dagli orologi. Aprono alla percezione d’ un territorio di circolazione fluida delle forze e dei saperi tra l’uomo e la natura secondo un concetto di magia naturale o sciamanica che è l’essere in ascolto, in corrispondenza con tutte le forze del cosmo, vegetali, animali e minerali, animate o inanimate, del mondo visibile o invisibile, che è, ancora, un riconoscersi in questo insieme di similitudini e corrispondenze tra le parti e il tutto secondo una percezione espansa o poetica del mondo simile a quella del poeta.


Luogo obbligato di passaggio, in questo senso, appare il prologo a “La belle et la bete” di Jean Cocteau; parole proiettate su uno schermo traslucido e riflettente all’inizio della mostra invitano gli spettatori a varcare “le soglie della propria certezza razionale”, a lasciarsi portare in questo altro mondo incantato dell’infanzia trascinati dalle quattro parole magiche del “c’era una volta”, vero e proprio “apriti sesamo dell’immaginazione”, in quella dimensione dove si credono mille cose assurde: “che una rosa che si raccoglie in un giardino può’ attirare i drammi d’una famiglia, che le mani d’una bestia umana che uccide si mettano a fumare…”

La figura “del sortilegio”, incanto o incantesimo operato nel dominio del magico ritorna in queste riletture di artisti simbolisti o contemporanei come straniamento, sospensione, perdita dove l’anima smarrisce le proprie coordinate spazio-temporali restando imprigionata in un’altra realtà in seguito a furto o accidente, oppure perche' irretita e trattenuta da qualcuno. Perduta alla propria originaria dimora, inizia a galleggiare invano nel vuoto senza potersi ricongiungere al proprio corpo-destino, alla propria autentica esistenza. Di qui, i volti imprigionati di sirene o “pesci d’argento” di Klimt, la figura del “viandante” di Eline Brotherus o, ancora, la “sospensione aerea” di Clara Strand.

Gustav Klimt, “Pesci d’argento”









Sono due figure femminili ciascuna ravvolta in una lunga capigliatura che scende fino ai piedi in coda-strascico nero puntigliato di minuscoli diamanti simili a sirene su un fondale verde-oro. In alto onde di metallo discontinue come pesci d’argento sono frammiste a questi volti sospesi, acquatici e fluttuanti. Due profili, lo stesso ripetuto, uno più grande, espanso, irradiante quanto malinconico, l’altro più piccolo, brumoso, sulfureo verde ramato e privo di luce. Lo stesso volto è ravvolto in questa capigliatura fluida, espansa sino ai piedi in un’ondata morbida, allungata e argentea, liscia e rilucente come epidermide laminata di pesce d’acqua dolce, prigioniero forse in quella sua non-forma di corpo, a metà umano, a metà marino e da cui si staglia, netta, solo la chiarificazione singolare del volto.
 Il verde acquatico del fondale, delle alghe, dei molluschi e delle creature d’acqua, dello stato primigenio di natura si staglia contro l’oro risplendente della divinità. Avvolte, prigioniere dentro questi involucri-chiome i corpi diventano lucida scia amalgamandosi al loro involucro protettivo. Tale, il manto nero incastonato su verde-oro diamante che avvolge e riassorbe il corpo come brillante prigioniero.

“Wanderer” di Eline Brotherus riprende il dipinto del romantico Friedrich, “Viandante su mare di nebbia” lo stesso punto di vista di chi volgendo le spalle allo spettatore si perde nella contemplazione silenziosa del paesaggio ravvolto da una leggera bruma invernale. Qui è l’artista a mettersi in scena attraverso l’auto-scatto, a riprendere sé stessa nell’atto di guardare, immergersi, perdersi nella visione di vette alpine infuse di nebbia, irrigate dalla purezza dell’aria nei colori tenui,  nei contorni sfumati delle montagne ravvolti da una leggera, bianca foschia invernale. E il villaggio a distanza appare molto più in basso come una visione da cartolina, strana sospensione di realtà ripresa in questa tenue dissolvenza dei contorni come sotto il vago effetto d' un incantesimo, galleggianti in aria in questa meditazione silenziosa attraverso lo sguardo. Paesaggio dell’anima, , volto-paesaggio riflesso attraverso quello che lei vede all’esterno, sé stessa occultata al nostro sguardo.

“Aerial suspension”, Clare Strand






La fotografia si fa medium all’invisibile, rende tangibile la sospensione aerea, il volo, la levitazione da terra del corpo sollevato e come lasciato sospeso in aria nel vuoto.
Aspirazione al volo, all’assenza di gravità o di peso, alla sensazione leggiadra, leggera del divenire simili a uccelli o creature d’aria, o, invece, irretimento in aria in mezzo all’oscuro nulla come sotto l’effetto d’un incantamento, d’ un incantamento o d’una cattura.
E la levitazione dal suolo è questo restare nella sospensione dell’indeterminato, nella perdita di contatto con la terra, contro il nero vortice che risucchia dal fondo, nella lotta dell’anima per ritrovare il proprio corpo precipitato nel baratro del nulla, prigioniero nel mentre d’una qualche altra realtà per uno strano, bizzarro gioco del destino.
Nella stessa parte della galleria è l’illusione ottica del treno che corre incontro agli spettatori in una delle prime immagine prodotte dal cinematografo dei fratelli Lumière alla fine del XIX secolo, ancora una luna parlante che s’anima, grida e si tinge di giallo sullo sfondo d’una bruna gassosa e grigiastra in mezzo a una miriade di personaggi animati, infine l’illusione ottica d’un dispositivo di vetro e acciaio a specchio (Hein) che capovolge la visione statica dello spazio portando con sé lo spettatore nel rovesciamento. La superficie solida diventa mobile, pieghevole, ravvolta come un quadretto di terra dentro un fazzoletto ricamato di bianco che si porterebbe con sé nella propria tasca.

In “As time goes by” gli orologi girano al contrario, le loro lancette si muovono all’impazzata dentro quadranti esplosi in moto vorticante senza potersi arrestare contro l’apparente immobilità del tempo della futilità quotidiana. Percepiamo un mondo governato da altre logiche di trasmissione silenziosa, di flussi temporali e circolazioni energetiche, intravvediamo una realtà che sovverte il tempo logico, cronologico degli orologi, che spezza l’unità spazio-temporale del qui e ora, che apre alla percezione del sovra-sensibile, dell’irrazionale come del puro immaginativo.

Il linguaggio poetico o artistico afferma la propria indipendenza, la propria struttura “libera e arbitraria” secondo una logica propria che è più vicina a quella del magico e del rituale che non a quella del razionale. Così, la visione può triplicarsi come nell’installazione di Paolini o ridursi in un dettaglio espanso e significante come nelle fotografie di Penone, ribaltarsi in un mondo al contrario come nei quadri di Baselitz, creare un universo fittizio oppure lasciarci scorgere trasversalmente per un gioco di specchi e rimandi a un altro ordine di realtà come nelle immagini di Grazia Todari. Sempre si si tratta di varcare una soglia o aprire uno passaggio verso un altro ordine immaginativo intravvisto, percepito o convocato negli spiragli, nelle fessure aperte sul visibile o sul linguaggio ordinario.

Giuseppe Penone, “geometria nelle mani”

Sono solarizzazioni di mani su fondo oscuro, mani strette, serrate, sovrapposte l’una all’altra;
mani grandi racchiudendo questo fulcro di luce, qualcosa che si illumina, germoglia e cresce dall’interno, lucore tra le mani nella totale oscurità. Danza di mani, mani illuminate da un auto-generatore luminoso conducendo elettricità, mani irradiate di luce nella conversione della loro energia cinetica prima: trasmutazione, atto alchemico aprendo all’invibile.
Bagliore nell’oscurità: l’oro d’un abbraccio, racchiuso, avvolto, stretto nel gesto di mani generando questa fucina di energia luminosa sulla pellicola fotografica.





“Un mondo privato”, Grazia Toderi



E’ un castello o giardino fatato nella triplicazione dell’immagine alla luce diurna, al crepuscolo poi nell’oscurità della notte. Uno strano enneagramma di forme domina la simbologia complessa del giardino fatto d’una magica distribuzione di linee, di punti e circonferenze, fatto di pochi crocevia casuali e molte simmetrie di tratti proseguendo all’infinito su tracciati paralleli, ciascuno a sé eppure leggibili a distanza nell’insieme ad occhio nudo. Il loro punto di fuga luminoso porta al fondo di quel giardino verso un castello o dimora misteriosa avvolta tra gli alberi. Lo sguardo corre là verso quel luogo, dimora o luogo appena visibile, quasi non scorto.
Di fronte dall’altra parte del giardino, oltre il tracciato simmetrico, oltre il diagramma simbolico di linee e punti intrecciati dei quali difficilmente si scorgerebbe l’inizio e la fine del percorso si erge un lago e il suoi giochi d’acqua nel cui specchio si riflettono quel palazzo o castello al contrario. L’immagine si sdoppia e si si rifrange, si crea e si disfa, riverbera e si decompone nelle fluttuazioni scomposte delle correnti, nei lenti sciabordii delle acque, nei riflessi apparenti o illusori dei guizzi di sole su quelle. Un mondo alla rovescia compare, un tempo arrestato, specchi che catturano o sdoppiano immagini, effetti ottici illusori quanto persistenti, a volte disturbanti, ma qui quieti, luminosi facendoci intravvedere questa altra dimensione, questa visione di un mondo sottile, con le sue manifestazioni dell’invisibile oltre la materia apparente della nostra realtà .
Il giardino è anagramma, simbolizzazione d’uno spazio essenziale dato come grande metafora visiva, una simmetria perfetta di forme nell’enigma apparente lasciato alla geometria della loro visione; Tale “zona di mezzo” come uno spiazzo aperto tra la dimora e l’altro mondo increato è anello di congiunzione, di passaggio o di mediazione, verde distesa rasserenante, immobile e pacata di forme, calma quiete e apparente di un “mentre” tra il fondo e la scena. Il suo anagramma appare nella calma penombra del pomeriggio, poi nella completa oscurità della notte nell’ultima immagine.

Un bagliore luminescente sul fondo, lo specchio d’acqua e la dimora sono ora oscurate, il prato è ricoperto totalmente dall’ombra della notte e, solo quel punto di fuga luminoso sul fondo resta come una stella che conduce i viandanti ignari e senza direzione.


Georg Baselitz, "betulle,  pittura con le dita”

Mondo al contrario, deflagrazione di colore nel rovesciamento tra cielo e terra, il cielo in basso con le sue striature e filamenti colanti, i suoi raggi e tinture nere e rigature su fondo acquarellato chiaro, azzurro sfumato di bianco. Il cielo nel luogo della terra, arida e brulla, giallastra, ocra e attraversata da crepe irregolari, rigata di solchi e spaccature simili a tronchi spogli d’alberi nel rovesciamento delle forme, nel turbinio della rivolta dal loro interno ordinamento. A lato è invasa di cespugli verdi a macchia nell’effetto deformante d’un mondo esploso o dissolto nei suoi apparenti contorni, mandato in aria con tutte le sue parti dall’interno fodero del suo sentire. L’ego razionale ribaltato da una percezione espansa oltre la contingenza della sua singola esistenza raziocinante è poi ricondotto alla forma del rispecchiamento per assurdo.



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