martedì 2 marzo 2010

Esther Shalev-Gerz, Video, Galleria Jeu de Paume, Parigi





















Sound Machine

Figure proiettate sullo sfondo di una fabbrica virtuale ricostruita in 3D, separate dalle parole che pronunciano trascritte in frammenti ai lati.





























Il rumore è assordante, la prima settimana, la seconda, la terza sempre meno; continuando nel tempo ci si abitua. Vivere nel suono lo fa scomparire, lo rende invisibile, non più percepibile nella durata, simile a un silenzio che stordisce.
Rumore potente, la consapevolezza scompare. L’arresto arriva come uno shock improvviso.

Camminare, volgersi intorno, dentro il suono, spostarsi nell’oscurità attraverso quello.

Ricordarsi come d’un moto ripetitivo, monotono, ipnotico fino allo stordimento, lo smarrimento dei sensi, tuttavia, mai spaventoso.


Tacitamente guardare, osservare le bande tessili per reperire i fili mancanti, per localizzare l’errore, la smagliatura nella rete discendendo fino alla decomposizione della struttura, nella trama ordita dalla macchina. Non parlare mai del suono eppure averne coscienza,
percepirlo tutto il tempo come un brusio di fondo.

Essere nel rumore, in un rumore troppo forte con le orecchie chiuse, sigillate all’esterno.

Bisogno di gridare, di sentirsi vivi, vicini agli altri, d’ essere uditi.

Riconoscere quel rumore anni dopo.

Infinite macchine tessili: essere colpiti da un suono percuotente dritto dalle vostre orecchie fin dentro le vostre teste.
Camminare fuori, continuare a sentire dall’interno attraverso i muri.
Domandarsi come la gente possa sopportare una tale trepidazione, tacitamente; tremare ancora sentendo il martellio costante, il martellamento dal soffitto alle pareti.



Suoni ritmici ora, piuttosto simili a musica. Inimmaginabile lavorare in tale stato. Ammettere che tutto sia scomparso. Voler correre fuori, camminare rapidamente, parlare con qualcuno.

Suono filtrato e modificato attraverso il tempo e lo spazio. Video proiettato di immagini silenziose, di volti indeterminati, lentamente scomparendo, affondando nel silenzio.

Costruire macchine tridimensionali di suoni partendo da impronte di macchine reali impresse su carta. Essere riesposti al senso differentemente.
Le macchine ancora operano nei musei re-inventando il funzionamento di nuovi testi.


Echos in Memory

Hall centrale del National Maritime Museum di Greenwich. Una pittura murale dipinta sul muro di fondo di cui resta oggi l’effigie vuota incrostata alla parete. Ventiquattro immagini fotografate a partire da sculture virtuali in 3D, rappresentanti ventiquattro donne, artiste o scrittrici che hanno ispirato la fotografa. Voci sparse, reazioni del personale del museo alle storie che Shalev-Gerz racconta.




















“Con le fotografie saranno in grado di colmare i vuoti, di trovare immagini anche quando le immagini non esistono". Aspettano che il pensiero si proietti o venga a proiettarsi, indirettamente, attraverso quelle.
Stanno cercando di fare un oggetto d’arte o semplicemente una descrizione?

E’ una navigazione completamente basata sullo sguardo. La maggior parte del centro volge intorno all’origine. E’, allo stesso tempo, una complicata storia d’eredità.
Il passato e il futuro si proiettano qui nel presente di uno sguardo.
E’ un luogo straordinario per guardare l’impero, la storia occidentale criticamente.

Sono qui da trent’anni e non ho mai visto fantasmi. Voci dicono che Artemisia sia passata di qui. Alcune persone raggiungono questo statuto iconico. Nessuno ha mai visto tante personificazioni d’una donna. Se pensi che gli edifici siano registratori di memoria, incisori di tutto quello che accade e che nel loro tessuto mantengano iscritta l’impronta degli Eventi, allora le persone diventano quasi degli intrusi più che dei reali visitatori.

E’ una cosa ed, è, allo stesso tempo, un simbolo.

Le persone sono molto attaccate a quello che pensano essere la verità, la loro piccola, eterna, immutabile verità, fabbricata a loro misura.

D’estate, quando la luce passa, si infiltra e invade ovunque, il luogo appare completamente differente.

Penso che una cosa che le persone amino, qui, sia osservare il suolo, in questa hall immensa, fredda e immutabile in sé, d’una freddezza immobile fatta di marmo, della materia stessa di tutte le cose passate, estinte o prive di vita, immobilizzate nei musei o nelle cattedrali, incise in forme circolari, in decorazioni pretenziose o dotate d'una loro interna virtuosità barocca.












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