mercoledì 10 marzo 2010

Pergola, Palais de Tokyo, installazione contemporanea, Parigi































































































Pergola nella concezione della mostra al Palais de Tokyo  è  lo spirito che incide e colpisce, quel punto generativo atto a concretizzarsi in una zona di mediazione tra il pubblico e il privato, tra l’interno e l’esterno della "villa " ideale progettata da Le Corbusier a Neuchatel in Svizzera. Il progetto Pergola diviene zona di apparizione, di riappropriazione dello spazio- opere e resti di monumenti eclissati durante il periodo precedente -  che ha investito il Palais de Tokyo.

Pergola, dunque, è metafora di questo spazio di re-investimento, di re-occupazione non nel senso di dominio ma in quello di catalizzare le energie di un luogo seguendo l’emergenza spontanea di forme plastiche nello spazio.

 Pergola: asserzione di libertà, atto di coraggio a simbolo della scarpa enorme, ricostruita sotto forma di scultura dall’artista irakeno all’ingresso del Palais,
la libertà di lanciare una scarpa sulla testa di qualcuno come segno di aperto dissenso assumendone poi le conseguenze,
nello specifico la scarpa gettata sul presidente americano George Bush durante una conferenza stampa nel 2008 da parte del giornalista irakeno Al-Zaidi.

Pergola, ancora, è sistema aperto di tubi pneumatici in plastica trasparente, modulato in una traiettoria labirintica di linee e volumi, aderendo da un piano all’altro ai livelli dello spazio espositivo fino a raggiungere, ad aprire il livello del sottosuolo, normalmente  utilizzato come profondità spaziale e volume inusitati.

Serge Spitzer

Come il titolo dell’istallazione ironicamente afferma, “Pane e burro con l’infinita questione di definire la differenza tra baguette e croissant”,
gli ingredienti si sommano, si mischiano producendo metamorfosi inattese nel corso della cottura. Fondono come burro nel passaggio al calore o solidificano nel corso del processo contrario; lievitano come pane, si sfogliano in strati come croissant, evaporano come acqua passando dallo stadio liquido a quello gassoso.

Trovare questo: trovare modelli che esistono nel sistema di gesti, nell’organizzazione più o meno complessa del nostro vivere quotidiano, semplicemente portandoli a un livello altro di realtà, da uno stadio funzionale a uno plastico, metaforico, attraversati da un respiro di vita, quello che restituisce loro la possibilità di parlare un linguaggio universale.

Il sistema é percorso da due navette messe in movimento da un differenziale di pressione interna dove gli elementi sono mantenuti costantemente in movimento, nel flusso e riflusso del transitorio, incontrandosi o non incontrandosi che accidentalmente. E' il modello di un sistema dove le molecole devono essere mantenute in circolo, in scorrimento continuo per non generare entropia o arresto del sistema.

La metafora è leggibile in molteplici sensi:
neutroni liberi che circolano nella mente,
entità estranee che si cercano all’immagine di un impossibile o difficile dialogo amoroso;
nello spazio, ramificazione o re-investimento di un luogo facendo corpo con la sua ossatura costitutiva;
nel tempo, rilettura postmoderna del senso di un’architettura monumentale sostituita qui da un’insieme di tubature in plastica, all’origine un mpianto pneumatico utilizzato per inviare plichi e telegrammi. Tale sistema  estraniato dalla propria intrinseca funzionalità viene  fatto entrare in uno spazio espositivo; è chiamato a esporsi come la sola emergenza o riapparizione possibilenell’eclissi della modernità e dei suoi discorsi fondanti.

E’recupero di materiali assolutamente “bassi”, volutamente non d’arte”, marginali, trasportati altrove, metaforizzati e lasciati lì a esporsi;
E' una macchina autonoma che si rivela in sé, che genera pensiero in modo autosufficiente al di là di ogni intenzionalità predefinita. E' il solo ritorno possibile come forma di recupero, di reinvestimento di uno spazio museale precedentemente svuotato.

Tale costruzione volatile, effimera di tubi di plastica trasparenti nasce come differenziale dell’opera d’arte moderna.

“ Le mie sculture sono organismi autonomi, monumenti effimeri che posseggono in sé stessi le


condizioni ideali d’autodistruzione”. (Spitzer)















Valentin Carron

Un muro rifrangente si prolunga lungo tutto l’estensione dello spazio neutro assegnato all’artista. Il muro continua in una forma  cubica; spigoloso, granitico, spesso, come un muro d’esterno d’un edificio è trasportato qui dalla città natale di Valais in Svizzera.

La Svizzera , afferma Carron, è vista d’abitudine come un luogo di tradizione, ma in realtà possiede una storia recente e un folklore in gran parte fabbricato su misura per consolidare un’ideale unitario di nazione alla fine del XIX secolo.

Oggetti pseudo-autentici in legno, da chalet a cucchiai, dimostrano questa falsa autenticità ricostruita per garantire una dimensione rassicurante dell’identità nazionale.
L’artista gioca sulle referenze al modernismo in arte posizionandosi in una zona di rilettura, di rifacimento ironico del modello, di critica degli assoluti di verità, identità e finzione:
finzione nasconde una propria autenticità, demistificazione di una suddetta verità, decostruzione di categorie identitarie assunte come fisse e immutabili.

Il muro prolungato contro la parete di fondo bianca, neutrale, taglia nettamente lo spazio della galleria. Da una parte si ritrovano i "prestiti" nello spazio vuoto dell’allestimento: sculture in copia conforme mappano gli stereotipi dei monumenti della città natale messi in scena in resina artificiale anziché in granito. Caron evoca come referente l’episodio biblico del“noli me tangere”, dove il corpo reale di Cristo, ricomparso a Maria Maddalena, diviene referente, immagine, corpo de-materializzato dopo la resurrezione.
Dall’altra parte del muro, una scultura ironica fa pensare a un finto Brancusi evocando, come nell’installazione precedente, il non-incontro tra due estremità marmoree tendenti l’una verso l’altra in un movimento infinito senza mai ricongiungersi.

Se il muro da un lato è barriera, spigolo, limite respingente, muto al tatto e allo sguardo, cio’ che arresta, intercetta, rompe e blocca il sistema impedendo la circolazione, dall’altro lato è il limite contro il quale si rifrange il circolo di citazione, d’artificio, il gioco intertestuale di rifrangenze ironiche, riportando la cosa al piano della realtà concreta, dello spazio fisico contro il quale le vuote astrazioni vengono a infrangersi.


Un piccolo dettaglio solo viene a distrarre la monotonia della scena: un serpentello disegnato quasi per sbaglio come un graffiti su un muro si insinua nella fessura che resta aperta tra la parete di fondo e la pietra dominante quasi evocando l’accidentale, l’irruzione incontenibile del gioco,
la risata che sorge spontanea, inattesa, liberatoria, riportando la monumentalità della cosa alla semplicità del quotidiano, alla leggerezza dell’esistenza,
infine l’apertura ironica che ridimensiona la seriosità dell’evento,
il peso della tradizione, della cultura o di ogni sovrastruttura che incombe sull’individuo fino a schiacciarlo.

Il muro come scultura invade, chiude, divide e delimita il sito espositivo; occupa uno spazio fisico fino a renderlo spazio simbolico, politico, altamente ri-concettualizzato nella nostra post-modernità. Pensiamo ai muri politici, il muro di Berlino in primo luogo, che ha segnato la storia occidentale tagliando una città, un paese, quale la barriera militare che ha separato un sistema, un’ideologia da un altra durante gli anni della guerra fredda.
E ancora ai muri dell’apartheid, in Cisgiordania e a Gaza, isolando la popolazione palestinese, interi villaggi le cui terre venivano confiscate per impedire loro di raggiungere il territorio israeliano.

Pensiamo ai muri religiosi, al muro del pianto a Gerusalemme, luogo sacro, antichissimo, di contemplazione nella religione ebraica, dove i fedeli si raccolgono tacitamente in preghiera; poi ai muri corrosi, in pietra a vista, le porte o le rovine delle costruzioni romane che si disegnano qua e là in mezzo agli edifici moderni nelle nostre città italiane.

I muri delle chiese romaniche eretti nella solidità della pietra,
nella presunzione di una materia eterna, indistruttibile nel tempo, appaiono impressi di uno spessore, di una orizzontalità a contatto con il suolo e, ancora, ancorano l’uomo dalla sua  minuscola posizione alla grandezza dsmisurata del cosmo rispecchiando nelle loro proporzioni  la relazione dell’uomo a Dio nel medioevo. Infine,  pensiamo alla sottilità delle vetrate gotiche filtrate di luce, riflesse di colore quando il sole vi passa attraverso nelle grandi cattedrali ; le forme allungate, sottili delleloro  arcate ogivali tendono verso l’infinito in un'eterna elevazione all'assoluto.

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