lunedì 31 maggio 2010

Jodice (II), Napoli, Riletture



















































Matera è vista dall’alto attraverso la barriera distanziante in ferro dei tubi d’un impalcatura. Le case appaiono come piccole costruzioni bianche estratte dalla realtà eppure epurate in un plastico irreale di forme divenute stranamente lontane, inoffensive, quasi irraggiungibili.
Si stagliano nettamente l’una dall’altra in una visione panoramica a distanza.



La città ora é vista attraverso le vetrate rotte d’una chiesa fatta di quadrati irregolari,
di forme frastagliate, di pieni e di vuoti irradianti di luce riflessi in balzi discontinui attraverso l’interno della cupola.
Momenti di accecamento totale a causa della luce si alternano a messe a fuoco repentine delle forme.
La visione é immersa nell’oscurità; qualcuno è colto nell’atto del guardare e insieme restituisce la rifrazione multipla del suo sguardo come in un gioco di specchi deformanti: mise-en-abime totale e costante tra sé e il mondo.



Città deserta, svuotata d’ogni presenza umana,
città-fantasma, anestetizzata come un corpo esangue, privo di vita all’immagine dell'auto-reliquia fotografata in primo piano, coperta d’una tela bianca, mortuaria.
Spasimo d’un corpo animato, la città come la pietra é scavata, intagliata a vivo dalle sue figure umane, la materia animata e inanimata in continuità .




La scissione estetica  aperta precedentemente dalla fotografia documentaria di Jodice nel primo periodo si riconcettualizza in questo secondo tempo nello spazio urbano della città del sud, emblematica Matera, intesa come il corpo animato e vivente d'un organismo dotato di vita e, insieme, reso immobile, narcotizzato a sintomo dello stato mentale e spirituale dei suoi abitanti. Il sud come tutto il paese appare metaforicamente investito d'una storia ma visto soccombere   sotto il peso della sua memoria, inerte di fronte alla lacerazione prodotta dal presente nel luogo e nel tempo dell'attuale.

Le immagini evocano la pittura metafisica di De Chirico rinviando a piazze vuote attraversate da presenze fantomatiche, panni stesi ad asciugare come concrezioni plastiche di figure femminili nello spazio, infine corpi in carne ed ossa svaporati, manichini di individui reali  resi assenti fino a lasciare la sola impronta dei loro involucri appesi ai fili.

Barriere di ferro e cemento sbarrano templi antichi, colonne greche ricompaiono in latta e alluminio piegabile;manifesti stracciati d’edifici cedono il passo al silenzio del luogo.
Gli edifici appaiono murati dentro apparentemente disabitati o occlusi da porte e finestre che si pongono come punti d’arresto, sospensioni,
macchie o zone d’ombra contro le quali la luce rifrange senza trovare riflesso.

L' antro che s'apre in cima alla scalinata 
sparpagliato di vecchie scarpe in disuso conduce a un' invisibile sorgente di luce, punto di fuga oltre l'immagine. Là sono mucchi di stivali o altre scarpe senza laccetti, pile di tessuti corrosi,il cuoio sfondato e le suole usurate di vecchie suole ammassate .
Un eco di passi risuona attraverso i corridoi disertati e in decadimento nell' antico ospedale degli Indigenti insieme alle presenze remote che l' hanno lasciato. Impronte di piedi conducono verso quel luogo della marginalità, dell'assenza.





Oceano-mare: infinità, isolamento, pellegrinaggio verso l'infinito come la ricerca di un altro rapporto tra sé e le cose . 
Le immagini di Jodice camminano verso questo infinito: l'ultima tappa d'un viaggio fotografico che procede verso la sottrazione progressiva della figura, smaterializzando le forme alla ricerca d’un ritorno all’ originario.































































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