domenica 2 maggio 2010

"Le promesse del passato, una storia discontinua dell'arte nell'ex Europa dell'est", Parigi, Centro Pompidou, esposizione.












































Anri Sala, Dammi i colori, 2003.
Cyprien Gaillard, Cairns, 2008.


Vent’ anni dopo la caduta del muro di Berlino, di fronte a un mondo post-coloniale, virtualmente legato da un sistema di comunicazione mediatico e incentrato sulla libera economia di un mercato globale, "Le promesse del passato" rivisita l’antica opposizione tra est e ovest, l’espressione dell’arte all’epoca comunista e la sua attuale evoluzione per gli artisti provenienti dall’est Europa.

Ion Grigorescu filma le trasformazioni di un quartiere di Bucarest all’epoca dei grandi lavori, nel 1970, sotto Ceausescu: grattaceli anonimi, freddi, simili l’uno all’altro ripresi in 8 mm in bianco e nero, poi immagini rovesciate degli stessi come fossero assemblaggi in plastica, blocchi rettangolari ingrigiti dalla cappa di silenzio, di opacità che completamente li investe.
Cyprien Gaillard nel 2008 fotografa un cumulo di macerie in primo piano, occupando tutto lo spazio dell’immagine sullo sfondo dei palazzi dell’epoca precedente. Dalle derive dell’utopia modernista che poneva il ruolo dell’arte al centro della vita sociale alla nostalgia verso un’epoca tanto amata quanto detestata comune a tutta una generazione d’artisti.

All’inizio degli anni 2000, a Tirana, le facciate degradate di diversi edifici dell’epoca comunista vengono ridipinte all’interno di un progetto di riappropriazione dello spazio pubblico che rivisita l’antica utopia socialista rilanciando il ruolo di un’arte utile per un effettivo miglioramento della società.



Anri Sala, “Dammi i colori”, Tirana, 2003, video.

Gli alberi imbiancati, i rami spogli come le architetture nude della città si stagliano nel controluce d’ombra contro il grigiore degli edifici circostanti. Gruppi di gente sono visti in piedi su un autobus stracolmo, Contro le impalcature a vistadelle costruzioni  aree di colore si impongono, vistosamente su interi edifici ridipinti. 
Mucchi di terra, detriti mentre la gente cammina tra le macerie o in bicicletta su sentieri provvisori;
Bambinetti  corrono malamente abbigliati tra le case, qualche miserabile resta accampato coi propri stracci  nella strada.

“Questo scenario riflette i decenni di lunga decadenza verso il singolo nell’indifferenza totale dello stato”.
“E’ la questione di sapere come rendere uno spazio abitabile, come trasformare un luogo dove si è condannati a vivere in un luogo dove si sceglie di vivere.”

“Sembrava prima una stazione di transito dove potevi restare solo per aspettare qualcosa o qualcuno, un corpo che invecchiava a vista , che degradava in silenzio, giorno dopo giorno senza poter far nulla per impedirlo.”

“Tutto è stato aggiunto sulla superficie non da artisti ma da mani anonime di residenti;
non era questione di scegliere quali colori applicare a un edificio o a un altro, ma un processo che ha a che vedere con la democratizzazione di un paese, di un’ avanguardia stabilendo una comunicazione diretta tra le persone, l’arte le istituzioni;
un intervento puntuale sul territorio nell’atto di tracciare o iscrivere una differenza. "

“ Il colore ha un impatto intensificante sul ritmo del respiro”; agisce come un’infrazione, aprendo una fessura sullo spesso schermo di polvere che investe gli individui fino a soffocarli invisibilmente, dando inizio a una nuova era per la città.
Ed è un paradosso, in uno dei paesi più poveri d’Europa, aprire una tale discussione, ovunque, in tutti i luoghi pubblici, i mercati, i bar, su come il colore possa agire sulla vita di queste persone, quali effetti possa produrre in loro.

Indossare il colore come si indossa un abito, con tutte le sue vibrazioni e rifrazioni di luce, portarlo addosso come si porta la propria pelle con le sue cicatrici, segni distintivi, la sua tessitura segreta, come si portano addosso gli organi di un corpo, organicamente respirando nei tessuti che lo compongono.
Portarlo alla superficie nel nostro “darsi al mondo”, non più chiuso dentro quattro mura oppure come elemento di frustrazione imposto dall’esterno ma gettato là fuori, ovunque, in macchie uniformi, informi di rosso, giallo e arancio, fino a produrre un effetto visibile su chi lo guarda, lo assorbe, lo assimila,
lo introietta alla propria epidermide.
“L’ambizione di rendere questa città uno spazio di scelta e non di destino è un’utopia in sé stessa”.


Anri Sala, Dammi colori, 2003.


















Anri Sala, Dammi i colori, 2003.

Alban Hajdinaj “ Eye to eye”, video, una versione critica del progetto precedente iniziato a Tirana nel 2003.
Siede là fuori ogni giorno, in silenzio. Osserva. Lo sguardo fisso, immobile contro i vetri del negozio.
Le cose sono cambiate enormemente negli ultimi tempi.
Si concentra sui cambiamenti recenti. Una mattina è stata sorpresa a trovare tutti gli edifici dipinti, le facciate ricoperte da spessi strati di colore come su una scacchiera fatta di rombi alterni, di forme oblique e regolari, rossi, gialli, blu, aranci o verdi, aggiunte da mani sconosciute, assemblate l’uno all’altra in modo del tutto aleatorio.
Sa che quegli edifici erano stati là da sempre, opachi e anonimi fino a divenire invisibili allo sguardo, volevano forse solo renderli meno grigi, sordidi, meno desolanti agli occhi dei passanti.
Ha sentito che artisti sconosciuti erano stati commissionati per ricoprire quelle architetture come fossero grandi tele o quadri astratti.
E lei, gli animali, le persone, ogni cosa non sembrano che pezzetti minuscoli, corpuscoli gravitanti in aria, cellule prive di vita o pedine inimmaginabili di una scacchiera giocata da qualcun altro, “Grande Occhio” esterno, là fuori gravitante intorno a loro.
Piccoli pezzetti di un grande insieme messo in scena da qualcuno altro, fuori dal loro controllo, per mascherare le superfici atone e grigiastre, la pelle esangue della città,
l’aspetto opaco e incolore dei loro volti come di ogni cosa intorno.
le strade dissestate, gli ammassi di macerie e terra ai lati degli edifici, l’aria che respirano ricoperti da uno spesso strato di vernice.
Loro stessi sono presi dentro quella gabbia colorata, apparente gioiosa più grande di loro che ora li contiene.
E là fuori, si dice, senza dubbio, nessuno distinguerebbe più la sua figura tra la folla mentre lei potrebbe, al contrario, facilmente vedere nel buio, percepire attraverso l’oscurità qualcosa che si delinea d’un tratto, che scintilla segretamente di fronte agli occhi, invisibile se non in guizzi fulmini, come bagliori di lampi che si illuminano all’improvviso nel nero circostante.
Siede là ogni mattina e osserva.


Mladen Stilinovic


« In quanto artista ho assorbito tanto dall’est ( dal socialismo) quanto dall’ovest ( dal capitalismo). Mantengo inalterato questo dialogo in me. La mia osservazione e conoscenza dell’ occidentale mi hanno infine condotto alla conclusione che l’arte esiste sempre più difficilmente all’ovest; gli artisti dell'est sono degli “oziosi” gravitando in una zona di inattività o futilità obbligata”.

L’indolenza è un’assenza di movimento in sé, movimento verso la vita, l’esistente, movimento verso l’alterità come tale, l'attraversamento di un tempo vuoto, preda di un’amnesia totale. E’ anche l’indifferenza o l’assenza di pensiero, come fissare lo sguardo sul nulla, la non-attività, l’impotenza.
La dispersione d'un tempo vago, d'un dolore indistinto, il fastidio nell’anima;
l’indeterminato, una concentrazione sfuggente, futile.
Tale futilità la si persegue, la si pratica, la si misura contro sé stessi portandola addosso, inevitabilmente, nell’impossibilità di fare altrimenti. In un sistema come quello occidentale dove si deve essere produttori di_ implicati come parti funzionanti in un meccanismo finalizzato alla produzione massimale di un profitto, tale non-azione obbligata,
il dis- funzionamento latente di un sistema nel passaggio verso l’indeterminato non può essere compresa né facilmente accettata.
La sospensione dolorosa, l’indolenza pensosa che precede la venuta di qualcosa tanto fugace quanto effimero, sfuggente o inaspettato. 


Alina Szapocznikow

“La mia opera affonda le proprie radici nel mestiere della scultura. Per anni mi sono interrogata a fondo su questioni riguardanti l’equilibrio, il volume, lo spazio, l’ombra e la luce fino a giungere al momento inevitabile d’assistere, assistere e resiste, alla caduta d’una vocazione in una presa di coscienza diretta sul mio tempo. Sono stata conquistata dal miracolo della macchina nella nostra epoca, e, con essa, dalla bellezza, dalle rivelazioni, dalle sue registrazioni della storia. Verso quella ancora i sogni e la domanda del più grande pubblico.

Produco oggetti bizzarri. Tale mania assurda e convulsa all’azione prova la presenza in noi d’una parte sconosciuta e segreta, necessaria alla nostra esistenza, quello che diverrebbe un gesto unico rivolto alla portata di tutti. Se tale gesto basterà a sé stesso sarà la conferma della nostra presenza come esseri umani.
Il mio gesto si rivolge al corpo umano, questa zona “erogena” totale con le sue sensazioni più vaghe, più effimere. 


Esaltare l’effimero nelle pieghe del nostro corpo, nello sconquasso del nostro passaggio su terra. "
Attraverso le impronte del corpo cerco di fissare nel polistirene trasparente momenti fugaci della mia vita, i suoi paradossi, il suo assurdo. Ma la sensazione provata in modo immediato e indistinto resiste a ogni facile identificazione. Spesso, tutto è confuso, la situazione ambigua, i limiti sensoriali cancellati. Malgrado ciò, persisto a tentare di fissare nella resina le impronte del mio corpo. Sono convinta che di tutte le manifestazioni dell’effimero il corpo umano sia il più vulnerabile, l’unica fonte di gioia, di sofferenza e verità a causa della sua essenziale messa a nudo, ineluttabile quanto inammissibile a livello della coscienza.” 



Sanja Ivekovic’

“ Gli artisti jugoslavi degli anni sessanta, settanta non erano dissidenti, la loro non era lotta contro il totalitarismo comunista ma la critica a un governo burocratico irrigidito contro ogni forma di cambiamento.” Domandavano “un’arte rivoluzionaria adeguata a una società rivoluzionaria”, e il loro progetto di “democratizzare l’arte”, di ispirazione radicalmente socialista si avvicinava alla necessità sviluppata in occidente di prendere le distanze dalle istituzioni , dalla logica di mercato stabilendo, tuttavia, una comunicare con la cultura di massa. Di qui il paradosso di un linguaggio artistico radicalmente nuovo e comprensibile solo da un pubblico limitato.

Gli esponenti della nuova pratica performativa nella ex- Jugoslavia socialista erano principalmente uomini. Negli anni ’70 solamente qualche donna era visibile sulla scena artistica.
“ Nel mio lavoro mi sono preoccupata fin da subito della questione dell’identità e del ruolo dei generi nella società. Ho cercato di fare della mia posizione in quanto donna in una cultura patriarcale il riflesso a tale questione. La politica della rappresentazione del femminile nei mass-media era un tema ricorrente delle mie prime opere. Mi sono presentata pubblicamente come artista femminista e, in questo senso, la mia posizione era veramente specifica”. 


“Personal cuts”, 1982 


Il viso è coperto da una spessa calza di nylon scuro serrandolo ermeticamente.
Mani nel corso dell’azione performativa tagliano meticolosamente il materiale rivelando progressivamente la nudità del volto al di sotto, fino a svelarne la pelle, il tessuto dell’epidermide al tatto. Immagini ufficiali di stato e brevi sequenze televisive si intercalano in montaggio all’azione.

Viso serrato da un nylon trasparente, visibile a occhio nudo ma lasciando trapelare al di sotto i tratti della figura. Il processo di liberazione del volto, aprire buchi, tagliare il tessuto per permettere all’individuo di respirare, appare come un atto di auto-aggressione, un gesto di coercizione obbligata al momento in cui le forbici si avvicinano in modo freddo, impersonale, indeterminato quasi al viso suggerendo una forma di auto-violenza implicita. 


Freddezza, impersonalità senza commenti, al limite senza emozione con la quale l’atto è perpetuato, lentamente, in silenzio, mentre i montaggi video si intercalano irrompendo come intermittenze rumorose, infrangenti di suono dall’esterno.
Sono estratti ufficiali di parate di stato in ex- Jugoslavia ma anche immagini che arrivano come incursioni assordanti dal mondo occidentale, la musica rock per esempio, oppure scene di convenzione sociale, feste mondane, nel pieno dell’etichetta;
Esiste una serie di stereotipi femminili o identitari contro i quali l'artista compie un atto di rivolta, di presa di posizione critica.
Presa di distanza contro un’identificazione forzata,
violenza imposta dall' auto-regolamentazione del sistema, si rivolta contro investendo il singolo nel suo atto di asserzione solitaria.



Tibor Hajas


Il performer deve mettersi in questo stato di “rischio contro sé stesso”, dentro un gesto che non è di sua pura fabbricazione ma che riceve come un “atto di grazia”, che non ha scelto ma per il quale accetta d’essere scelto. E’ una marionetta che, in quel momento , si riempie di spirito e prende vita, una vita diversa da ogni altro stato d’esistenza: intensa, bruciante come qualcosa di estraneo, incomprensibile, imperfetto che sgorga in lui in segreto nell’oscurità”.
La performance è un gesto d’addio, un tentativo impossibile di partire in una situazione in cui non c’é più nulla da lasciare. Tutto resta separato, dietro di lui, dietro le frontiere che lo separano dai nemici, dai regni ostili, poi gli uni dagli altri.”
  “La presenza fisica del performer agisce come una forza organica, sensuale, in una sorta di eccitazione in stretto contatto alla fascinazione per la morte”. 


Analytical destruction, Ungheria, 1976, fotografia.

 Negativi bruciati in seguito a un processo di solarizzazione surrealista, metafora di una città preda d’una sorta di malattia o disintegrazione latente nel suo tessuto, espandendosi come una macchia bianca, divorante sui tratti finiti della rappresentazione.
Nel primo cliché la città é vista dall’alto in immagine panoramica, sullo sfondo, come se qualcuno con una mano o un dito l’indicasse. Un piccolo foro simile allo sparo di un colpo tirato da un’arma da fuoco. Da quel foro s’apre una macchia bianca, riflesso senza immagine, opaca, circondata da un bordo rossiccio simile a un coagulo di materia sanguinea, a partire dal quale la macchia si espanderà nei cliché successivi.
La città sullo sfondo è progressivamente cancellata, ingoiata dalla chiazza opaca al cui centro si aprono linee, venature, fessure o crepe come fosse un vetro esterno sul quale è stato gettato un sasso o una pietra;
una sorta di specchio infranto attraverso il quale si guarda come dal vetro di un’auto in lontananza l’immagine sbiadita e distante d’una città dell’est Europa, di qualsiasi città si tratti, Zagabria, Bucarest o Belgrado senza distinzione.
Nell’ultimo cliché l’effetto di solarizzazione ha investito tutte le forme figurative semi-cancellate sullo sfondo, in primo piano dilatandosi questa sorta di informe
opaco e senza confini attraversato da schizzi e linee rossicce espandendosi dal punto focale della fessura.



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