mercoledì 2 novembre 2011

A proposito di Romeo Castellucci, " Sul concetto di volto nel figlio di Dio", Théâtre de la ville, Parigi



“Ogni spettacolo ha bisogno di un’idea, un asse portante, una spina dorsale”, afferma Castellucci, idea filosofica o plastica che sottende il movimento scenico, la messa in atto del meccanismo drammatico . “Mi sono voluto soffermare su questo volto dipinto da Antonello da Messina, il Cristo Salvator mundi  che guarda noi spettatori dritto negli occhi prima di offrirsi al nostro sguardo”, e, allo stesso tempo si dà, si espone come specchio riflettente, schermo, fondale o immagine trasparente contro la quale si infrange e si trasforma la portata emozionale della nostra visione. Questo viso totalmente presente entra in un incontro intimo, individuale con lo spettatore; é come una luce divina che chiarifica e irradia, un’emanazione dal volto, immagine dalla portata messianica, sacrificale. Testimone silenzioso al centro della scena assiste alla bassezza triviale della situazione vestendosi d’una trasparenza o pietas universale, amore- comprensione, compassione in assenza di giudizio, luce benefica che eleva dal fondo dell'essere, silenziosa, astratta data in un rapporto di estraneità all’uomo e, dunque, destinata alla sua definitiva liquidazione in quanto volto.

                                                                                                                                  

Il termine greco “kenosis” citato dal regista é svuotamento, perdita di sé,  perdita di sostanza, liquefazione dell’essere ricondotto alla propria fecalità ma anche la divinità uscita dalla propria dimensione “divina” per incarnarsi nella sofferenza della carne, della vita sulla terra, il dio che si mostra all’uomo con un volto del tutto umano, illuminando dall’interno la divinità presente in lui, dentro l’uomo stesso, in questo infinito di reincarnazione, di discesa nella condizione terrestre, miserabile, impermanente come il suo passaggio obbligato sulla via sacrificale. “Kenosis”, dunque, il corpo svuotato dell’uomo e, insieme,  il corpo di attraversamento del Cristo.

 La scena degrada da un inizio iper-realista in un interno borghese, di un appartamento ultra-moderno, assolutamente asettico, rischiarato da una luce fredda, bianca neutrale, “senza macchia”, a una deriva progressiva del medesimo, intaccato, degradato dall’incontinenza che comincia a invadere lo sfondo  impersonale dato, incontinenza nel disfacimento organico del corpo, protratta a ripetizione sotto i nostri occhi mentre il figlio non smette di pulire, ripulire e lavare le feci lasciate dal padre, liquescenza incontenibile della carne fino a minare, soppiantare, distruggere l’apparenza asettica, lo sfondo realista dell’ambientazione.  
Deriva progressiva fino a far emergere il caos, la collera, il pianto dell’uno,  la reazione paradossale, disperata, disperante dell’altro.

Da un lato assistiamo all’umiliazione del vecchio mostrato in uno stadio di impotenza, disarmato, inerme di fronte alla propria animalità, al di qua della vita lo svuotamento del suo essere corporeo nell’ incontinenza, la liquidazione del sé in un liquame di materia putrida colante ai suoi piedi.  Lui, esposto, messo a nudo, letteralmente denudato e lavato sotto ai nostri occhi. Tuttavia, nel gioco di rispecchiamento,  noi stessi siamo guardati, messi a nudo da quest’altro sguardo, l’umiliazione del padre e la pietà sottomessa del figlio anch’ esse sono poste sotto la luce d’un volto altro, divino,
la figura cristica, sguardo che illumina la scena d’ una luce altra, smisurata, astratta come una vera e propria irradiazione per riscattare la realtà scatologica più bassa della miseria sulla terra. Il figlio di Dio è volto, il volto del sacro per eccellenza, colui che si svuota della sostanza divina per divenire sguardo che guarda all’ infinito, pathos, patire con, assistere al patimento senza giudizio.



In questa idea di teatro gli attori non sono personaggi o ruoli predefiniti ma invece “portatori di segni viventi”, portatori d’immagine, immagini loro stessi non per la portata discorsiva  che trasmettono su scena ma come forme plastiche che si impongono nell’opacità del loro esserci,
figuralità che nasce dal fondo del linguaggio, nella violenza che lega il visivo al desiderio prima che alla volontà di rappresentazione.


L’idea di volto che crea lo spettacolo , intorno al quale ruota tutto la messa in scena, si fa schermo riflettente dello svuotamento del corpo in atto, della liquescenza della carne che a sua volta ritorna alla figura  cristica come lacerazione dell’immagine, strappo sulla tela, colata di nero che cancella quello stesso volto. La dimensione scenica assume qui proporzioni escatologiche, diviene metafora dal valore universale, vestendosi d’una portata ontologica, esistenziale. Un uomo é solo di fronte a un volto immenso, dalle proporzioni, smisurate, questo volto d’una purezza inavvicinabile che lo sovrasta e tuttavia non riesce a riconoscere, a raggiungere restando per lui estraneo, fuori della portata umana, sussurrando parole nel vuoto contro la sua bocca, contro una parete rifrangente di suoni appena mormorati, senza ritorno, volgendo le spalle a chi guarda.

Sulla scena vuota preda della dispersione, del caos, delle scorie lasciate dal disfacimento precedente, il “Volto” resta immerso nell’oscurità d’uno spazio senza fondo ormai disertato d’ogni presenza umana. La sua potenza  d’una purezza folgorante sembra, tuttavia, non poter rispondere all’appello, al grido disperante dell’individuo. La superficie tenue della tela, la membrana sottile che ancora la separa e la preserva nel suo essere figurale appare a poco a poco tendersi, assottigliarsi, attraversata da una miriade di micro- forze, zone d’ombra, macchie di nero che cominciano a espandersi, impossessarsi di parti del volto, avanzare in un oscuramento progressivo del medesimo, creare zone d’insondabilità che poi divengono colate di colore a fiotti, liquido sull’epidermide-tela, colare, colore, far colare il nero, liquefare come lacrime o sangue, liquidare letteralmente il volto. Il nero scivola a fiotti, rigature, rigagnoli di vernice, in colature di sangue o acqua lasciando trasparire tramature lunghe, informi e oleose. L’immagine é progressivamente soggetta a un processo di rigatura, di cancellazione definitiva, graffiata, coperta, fatta scomparire a poco a poco nella lacerazione della tela che comincia a a partire in brandelli  ai margini della scena sul fondo di sonorità infernali.
La terra é immersa nell’oscurità della morte e passione di Cristo, la sindone lacerata impressa dei segni del corpo vivente, deposta come la medesima sul fondo della scena lascia posto a una parete gelida, irta,  purgatoriale di uomini intenti alla sua scalata nel freddo dell’esistenza terrestre sul fondo d’una frase, asserita e negata insieme, come l’infinito della sua non risolta contraddizione:  “you are (not) my shepard”.


  

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