“Ogni spettacolo ha bisogno di un’idea, un asse portante, una spina dorsale”,
afferma Castellucci, idea filosofica o plastica che sottende il movimento
scenico, la messa in atto del meccanismo drammatico . “Mi sono voluto
soffermare su questo volto dipinto da Antonello da Messina, il Cristo Salvator mundi che guarda noi spettatori dritto negli occhi
prima di offrirsi al nostro sguardo”, e, allo stesso tempo si dà, si espone come
specchio riflettente, schermo, fondale o immagine trasparente contro la quale
si infrange e si trasforma la portata emozionale della nostra visione. Questo
viso totalmente presente entra in un incontro intimo, individuale con lo
spettatore; é come una luce divina che chiarifica e irradia, un’emanazione dal
volto, immagine dalla portata messianica, sacrificale. Testimone silenzioso al
centro della scena assiste alla bassezza triviale della situazione vestendosi
d’una trasparenza o pietas
universale, amore- comprensione, compassione in assenza di giudizio, luce
benefica che eleva dal fondo dell'essere, silenziosa, astratta data in un
rapporto di estraneità all’uomo e, dunque, destinata alla sua definitiva
liquidazione in quanto volto.
Il termine greco “kenosis” citato dal regista é svuotamento, perdita di sé, perdita di sostanza, liquefazione dell’essere ricondotto alla propria fecalità ma anche la divinità uscita dalla propria dimensione “divina” per incarnarsi nella sofferenza della carne, della vita sulla terra, il dio che si mostra all’uomo con un volto del tutto umano, illuminando dall’interno la divinità presente in lui, dentro l’uomo stesso, in questo infinito di reincarnazione, di discesa nella condizione terrestre, miserabile, impermanente come il suo passaggio obbligato sulla via sacrificale. “Kenosis”, dunque, il corpo svuotato dell’uomo e, insieme, il corpo di attraversamento del Cristo.
Deriva progressiva fino a far emergere il caos, la collera, il pianto
dell’uno, la reazione paradossale,
disperata, disperante dell’altro.
Da un lato assistiamo all’umiliazione del vecchio mostrato in uno stadio di
impotenza, disarmato, inerme di fronte alla propria animalità, al di qua della
vita lo svuotamento del suo essere corporeo nell’ incontinenza, la liquidazione
del sé in un liquame di materia putrida colante ai suoi piedi. Lui, esposto, messo a nudo, letteralmente
denudato e lavato sotto ai nostri occhi. Tuttavia, nel gioco di
rispecchiamento, noi stessi siamo
guardati, messi a nudo da quest’altro sguardo, l’umiliazione del padre e la
pietà sottomessa del figlio anch’ esse sono poste sotto la luce d’un volto altro,
divino,
la figura cristica, sguardo che illumina la scena d’ una luce altra,
smisurata, astratta come una vera e propria irradiazione per riscattare la
realtà scatologica più bassa della miseria sulla terra. Il figlio di Dio è
volto, il volto del sacro per eccellenza, colui che si svuota della sostanza
divina per divenire sguardo che guarda all’ infinito, pathos, patire con,
assistere al patimento senza giudizio.
In questa idea di teatro gli attori non sono personaggi o ruoli predefiniti
ma invece “portatori di segni viventi”, portatori d’immagine, immagini loro
stessi non per la portata discorsiva che
trasmettono su scena ma come forme plastiche che si impongono nell’opacità del
loro esserci,
figuralità che nasce dal fondo del linguaggio, nella violenza che lega il
visivo al desiderio prima che alla volontà di rappresentazione.
L’idea di volto che crea lo spettacolo , intorno al quale ruota tutto la
messa in scena, si fa schermo riflettente dello svuotamento del corpo in atto,
della liquescenza della carne che a sua volta ritorna alla figura cristica come lacerazione dell’immagine,
strappo sulla tela, colata di nero che cancella quello stesso volto. La
dimensione scenica assume qui proporzioni escatologiche, diviene metafora dal
valore universale, vestendosi d’una portata ontologica, esistenziale. Un uomo é
solo di fronte a un volto immenso, dalle proporzioni, smisurate, questo volto
d’una purezza inavvicinabile che lo sovrasta e tuttavia non riesce a riconoscere,
a raggiungere restando per lui estraneo, fuori della portata umana, sussurrando
parole nel vuoto contro la sua bocca, contro una parete rifrangente di suoni
appena mormorati, senza ritorno, volgendo le spalle a chi guarda.
Sulla scena vuota preda della dispersione, del caos, delle scorie lasciate
dal disfacimento precedente, il “Volto” resta immerso nell’oscurità d’uno
spazio senza fondo ormai disertato d’ogni presenza umana. La sua potenza d’una purezza folgorante sembra, tuttavia,
non poter rispondere all’appello, al grido disperante dell’individuo. La
superficie tenue della tela, la membrana sottile che ancora la separa e la
preserva nel suo essere figurale appare a poco a poco tendersi, assottigliarsi,
attraversata da una miriade di micro- forze, zone d’ombra, macchie di nero che
cominciano a espandersi, impossessarsi di parti del volto, avanzare in un oscuramento
progressivo del medesimo, creare zone d’insondabilità che poi divengono colate
di colore a fiotti, liquido sull’epidermide-tela, colare, colore, far colare il
nero, liquefare come lacrime o sangue, liquidare letteralmente il volto. Il
nero scivola a fiotti, rigature, rigagnoli di vernice, in colature di sangue o
acqua lasciando trasparire tramature lunghe, informi e oleose. L’immagine é progressivamente
soggetta a un processo di rigatura, di cancellazione definitiva, graffiata,
coperta, fatta scomparire a poco a poco nella lacerazione della tela che
comincia a a partire in brandelli ai
margini della scena sul fondo di sonorità infernali.
La terra é immersa nell’oscurità della morte e passione di Cristo, la
sindone lacerata impressa dei segni del corpo vivente, deposta come la medesima
sul fondo della scena lascia posto a una parete gelida, irta, purgatoriale di uomini intenti alla sua scalata
nel freddo dell’esistenza terrestre sul fondo d’una frase, asserita e negata
insieme, come l’infinito della sua non risolta contraddizione: “you are (not) my shepard”.
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