sabato 19 novembre 2011

Note su Diane Arbus, Retrospettiva, Jeu de Paume, Parigi







                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                            




Indossare sé stessi come si indossa una maschera, e dietro questa un’altra e un’altra ancora, tale é entrare nel circolo decentrato dei ritratti , nella serialità divergente dei volti  di Diane Arbus.
Il suo lavoro rinvia all'interrogazione costante, alla fessura aperta tra l'essere, il dovere o voler essere e l’apparire altro.
La costruzione del sé, del volto come  identità, si rovescia nel cedimento della medesima di fronte alla non-concidenza, all’inadeguamento tra forma e anima.
La costruzione fittizia d'un volto femminile, nascosto da una cortina nera e coperto da uno spesso strato di trucco, é colto giustamente in  questa impostazione o impostura di presenza.  Volto-maschera, simulazione, facciata, simulacro in variazione eccentrica di sé stesso nell’assenza di  un modello originario.

Giovane famiglia a Brooklyn": l’impalcatura dell'essere sociale, della figura in quanto costruzione rispondente alla norma della società americana é confrontata al punto della sua incrinatura o non-tenuta, tali le crepe che s'aprono, che si intravvedono sulla realtà costituita per il solo fatto d'essere  messe “in quadro”, portate in superficie dal processo fotografico.  Cosi’, la semplice smorfia di un bambinetto preso per mano dal padre va a infrangere il quadro glorioso, idealizzato  della visione famigliare in America.   

Fotografare il cedimento della figura in quanto realtà sociale apparente e costituita significa in Arbus fotografare la differenza compresa come ogni forma d' anomalia, d'anormalità, di marginalità, di follia, di deviazione o devianza rispetto al quadro del giudizio normativo , al modello identitario dominante. A un certo livello cio’ si traduce nella scelta di soggetti eccezionali, extra-ordinari dalla singolarità affascinante o mostruosa, il lungo corteo di personaggi “mostri”che popolano negli anni il suo universo fotografico; ma, a un altro livello, é la superficie più “normale” , più conforme della realtà quotidiana ad essere smascherata come impalcatura fittizia, tanto più costruita, abnorme, anormale che l'altra.

La demistificazione di realtà va di pari passo con la sua iconoclastia suggerita, non apertamente convocata, insinuata al limite della fessura, della crepa, nello spostamento sottile del binomio verità-realtà, al limite della sua piena credibilità o autenticità come tale, dunque nella destituzione della medesima da una posizione di sacralità. L'iconoclastia suggerita non é cancellazione o assenza d'immagine ma  immagine-ritratto che si mostra in questa rottura voluta, inevitabile, prodotta dalla mediazione fotografica. La visione, per esempio, del giovane americano,  con abito impeccabile sventolando una bandierina patriottica, celebrazione dell'ideale nazionale, é messa sullo stesso piano della deformità, dell'esposizione del corpo senza maschere, nudo, “nudista”, informe nell' abbondanza liquescente della carne.
Difficile trovare in queste fotografie  momenti di autenticità epifanica, di vero trasporto o riconciliazione con la realtà. Più spesso quello che vi appare è la cesura, il meccanismo contrario di scollamento dell’immagine, della figura che, messa alla prova di verità, senza concessioni né intercessioni, sembra d’un tratto cedere, non reggere il confronto con la critica della realtà.

Nuvole re-inquadrate in schermo fittizio di gigantesco drive-in, un mangiatore di fuoco in una fiera paesana, bambinetti al parco facendo smorfie all’obbiettivo,
l’ uomo senza testa in un’ installazione da circo, clown, funambuli, equilibristi e trasformisti.
Volti-maschere, volti in travestimento carnevalesco, dettagli di torsi nudi in gioco di multiple inquadrature  tra vetri e specchi, ragazzina gitana  a piedi nudi su un sentiero di terra battuta, vecchia signora borghese in strada;
volto-cortina, occhi socchiusi, calco di cera museale ma attraversato da grinze, rughe, stirature di pelle.
Tale rifacimento plastico della figura é volutamente colto in un' eccesso di forma, nell' estremo di un fittizio-iconico simulato che ne denuncia implicitamente la credibilità. La chiarificazione ossessiva nella scelta stilistica del ritratto passa attraverso forme volutamente colte nell’immobilità della loro identità sociale e poi il punto dove questa cede, si scolla o lascia intravvedere linee di sutura, di sovra-cucitura e insieme minuscole fessure di superficie.
Ritratti iconici di giovani ragazze benpensanti in strada, “il folle uomo nudo”
completamente tatuato sul torso con un solo occhio, figura di doppio in “mezzo uomo, mezza donna”, ragazzini con maschere del “fan club dei mostri” sui gradini d'una casa in America. “L’uomo che ingoiava lame di rasoio”, un bambino con il viso coperto di carbone, la ragazza con il cappello e i guanti, l'uomo dagli aghi piantati sul viso in diversi punti.
Gemelle siamesi su una spiaggia, neonati siamesi in scatola di plexiglass, coppie, doppi, sdoppiamenti, ripetizione in serie della stesso, serialità messa alla prova;
nella ripetizione qualcosa accade.

Quadri, specchi, schermi, gioco di inquadrature e rinvii di immagine. Il mondo è inquadrato, messo in cornice, “in  scena”  attraverso le sue individualità e, insieme, leggermente spostato  dalla cornice della sua presunta apparenza o veridicità.  
Una casa a Hollywood nel 1962: facciata apparente,  visibile in primo piano e messa a nudo della medesima come semplice impalcatura svuotata alle spalle,  dissecata, lasciata alle sole assi portanti, sottoposta al processo fotografico che,  inevitabilmente, ne mette in scena la demistificazione. 








Da un frammento dei suoi diari...riscrittura

“Hotel magnifico, immenso, bianco, sconfinato. Hotel a fuoco ma l’incendio si consuma lentamente", talmente lentamente che quasi non se ne ha la certezza,
la certezza della sua presenza e la gente  continua a entrare e uscire liberamente dal luogo come se nulla fosse. Non riuscire a vedere il fuoco ma sentire solo un fluire leggero, un flusso appena percettibile nell'aria come una nebbia sottile, vellutata, aleggiare, diffondersi, posarsi più densa intorno alle luci.
Spaventosamente bella, lieve, quasi impalpabile allo sguardo addensarsi a tratti in qualche punto come una cortina densa, immobile sui volti, tanto più invisibile.

Non avere molto tempo e sapere di dover fare qualcosa, qualcosa di  importante prima che la situazione precipiti e il panico esploda nell’edificio, prima che l’allarme cominci a risuonare  e la fuga, la lotta feroce, la gente precipitarsi, disperdersi, correre  in tutte le direzioni. Entrare in una stanza per recuperare qualcosa,  oggetti personali, cose che vorreste portare con voi, salvare dalla distruzione ma non riuscire a trovarli; non sapere esattamente dove, quanto tempo vi resti, cosa fare, da dove cominciare, fotografare, quanto tempo ancora, in quanto tempo la cosa esploderà, quali immagini salvare.

Forse che non hai abbastanza sangue freddo e non riesci a fare spazio, fare il vuoto nel pensiero e nel corpo per concentrarti solo su quello che vedi, trovare l’inquadratura giusta, il punto esatto della luce, forse che non hai abbastanza tempo per riflettere, scegliere il soggetto senza esitazione e sei costantemente interrotto. Forse che la pellicola é terminata e non  ne hai altra per continuare, forse che anche volendo sarebbe impossibile, forse che ci sono troppe voci intorno e la gente comincia a affollarsi, attraversare, correre lungo i corridoi, discendere le scale frettolosamente, riempire la hall dell’hotel. Precipitarsi senza una meta e tutto sommuovere, muovere intorno, volgere all’infinito, in un indefinito illimitato,
in un continuo ma quasi al rallentatore, in un movimento attenuato, trattenuto, a metà arrestato. Senso di rapimento, di stasi non voluta, forse l’angoscia di non poter continuare. “Una specie di estasi calma e dolorosa”, bloccata come quando si vuole correre fuori, uscire a tutti i costi  ma qualcuno vi trattiene perché l’orario non é ancora passato e la sirena non ha ancora suonato per annunciare l’ora dell’uscita. 
Senso di rapimento attonito, incantato, tuttavia disturbato da quello che viene a interromperlo, a importunarlo, come il senso di non poter procedere e salvare sé stessi, le cose intorno, le immagini anche.
Stranamente soli nonostante tutto, nonostante un mondo esploso intorno. La gente non smette di irrompere. Arrestati in questa sorta urgenza estatica, al rallentatore, assopita anch’essa sotto l’occhio d'un ciclone.






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