Indossare
sé stessi come si indossa una maschera, e dietro questa un’altra e un’altra
ancora, tale é entrare nel circolo decentrato dei ritratti , nella serialità
divergente dei volti di Diane Arbus.
Il
suo lavoro rinvia all'interrogazione costante, alla fessura aperta tra
l'essere, il dovere o voler essere e l’apparire altro.
La
costruzione del sé, del volto come identità, si rovescia nel cedimento
della medesima di fronte alla non-concidenza, all’inadeguamento tra forma e
anima.
La costruzione fittizia d'un volto
femminile, nascosto da una cortina nera e coperto da uno spesso strato di
trucco, é colto giustamente in questa impostazione o impostura di
presenza. Volto-maschera, simulazione, facciata, simulacro in variazione
eccentrica di sé stesso nell’assenza di un
modello originario.
Giovane
famiglia a Brooklyn": l’impalcatura dell'essere sociale, della figura in quanto
costruzione rispondente alla norma della società americana é confrontata al
punto della sua incrinatura o non-tenuta, tali le crepe che s'aprono, che si
intravvedono sulla realtà costituita per il solo fatto d'essere messe “in
quadro”, portate in superficie dal processo fotografico. Cosi’, la
semplice smorfia di un bambinetto preso per mano dal padre va a infrangere il
quadro glorioso, idealizzato della visione famigliare in
America.
Fotografare
il cedimento della figura in quanto realtà sociale apparente e costituita
significa in Arbus fotografare la differenza compresa come ogni forma d'
anomalia, d'anormalità, di marginalità, di follia, di deviazione o devianza
rispetto al quadro del giudizio normativo , al modello identitario dominante. A
un certo livello cio’ si traduce nella scelta di soggetti eccezionali,
extra-ordinari dalla singolarità affascinante o mostruosa, il lungo corteo di
personaggi “mostri”che popolano negli anni il suo universo fotografico; ma, a
un altro livello, é la superficie più “normale” , più conforme della realtà
quotidiana ad essere smascherata come impalcatura fittizia, tanto più
costruita, abnorme, anormale che l'altra.
La
demistificazione di realtà va di pari passo con la sua iconoclastia suggerita,
non apertamente convocata, insinuata al limite della fessura, della crepa,
nello spostamento sottile del binomio verità-realtà, al limite della sua piena
credibilità o autenticità come tale, dunque nella destituzione della medesima
da una posizione di sacralità. L'iconoclastia suggerita non é cancellazione o
assenza d'immagine ma immagine-ritratto che si mostra in questa rottura
voluta, inevitabile, prodotta dalla mediazione fotografica. La visione, per
esempio, del giovane americano, con abito impeccabile sventolando una
bandierina patriottica, celebrazione dell'ideale nazionale, é messa sullo stesso
piano della deformità, dell'esposizione del corpo senza maschere, nudo,
“nudista”, informe nell' abbondanza liquescente della carne.
Difficile
trovare in queste fotografie momenti di autenticità epifanica, di vero
trasporto o riconciliazione con la realtà. Più spesso quello che vi appare è la
cesura, il meccanismo contrario di scollamento dell’immagine, della figura che,
messa alla prova di verità, senza concessioni né intercessioni, sembra d’un
tratto cedere, non reggere il confronto con la critica della realtà.
Nuvole
re-inquadrate in schermo fittizio di gigantesco drive-in, un mangiatore di
fuoco in una fiera paesana, bambinetti al parco facendo smorfie all’obbiettivo,
l’
uomo senza testa in un’ installazione da circo, clown, funambuli, equilibristi
e trasformisti.
Volti-maschere,
volti in travestimento carnevalesco, dettagli di torsi nudi in gioco di
multiple inquadrature tra vetri e specchi, ragazzina gitana a piedi
nudi su un sentiero di terra battuta, vecchia signora borghese in strada;
volto-cortina, occhi socchiusi, calco di cera museale ma attraversato
da grinze, rughe, stirature di pelle.
Tale rifacimento plastico della figura é volutamente
colto in un' eccesso di forma, nell' estremo di un fittizio-iconico simulato
che ne denuncia implicitamente la credibilità. La chiarificazione ossessiva
nella scelta stilistica del ritratto passa attraverso forme volutamente colte
nell’immobilità della loro identità sociale e poi il punto dove questa cede, si
scolla o lascia intravvedere linee di sutura, di sovra-cucitura e insieme
minuscole fessure di superficie.
Ritratti
iconici di giovani ragazze benpensanti in strada, “il folle uomo nudo”
completamente
tatuato sul torso con un solo occhio, figura di doppio in “mezzo uomo, mezza
donna”, ragazzini con maschere del “fan club dei mostri” sui gradini d'una casa
in America. “L’uomo che ingoiava lame di rasoio”, un bambino con il viso
coperto di carbone, la ragazza con il cappello e i guanti, l'uomo dagli aghi
piantati sul viso in diversi punti.
Gemelle
siamesi su una spiaggia, neonati siamesi in scatola di plexiglass, coppie,
doppi, sdoppiamenti, ripetizione in serie della stesso, serialità messa alla
prova;
nella
ripetizione qualcosa accade.
Quadri,
specchi, schermi, gioco di inquadrature e rinvii di immagine. Il mondo è
inquadrato, messo in cornice, “in scena” attraverso le sue
individualità e, insieme, leggermente spostato dalla cornice della sua
presunta apparenza o veridicità.
Una
casa a Hollywood nel 1962: facciata apparente, visibile in primo piano e
messa a nudo della medesima come semplice impalcatura svuotata alle
spalle, dissecata, lasciata alle sole assi portanti, sottoposta al
processo fotografico che, inevitabilmente, ne mette in scena la
demistificazione.
Da un frammento dei suoi diari...riscrittura
“Hotel magnifico, immenso, bianco, sconfinato. Hotel a fuoco ma l’incendio
si consuma lentamente", talmente lentamente che quasi non se ne ha la certezza,
la certezza della sua presenza e la gente
continua a entrare e uscire liberamente dal luogo come se nulla fosse.
Non riuscire a vedere il fuoco ma sentire solo un fluire leggero, un flusso
appena percettibile nell'aria come una nebbia sottile, vellutata, aleggiare,
diffondersi, posarsi più densa intorno alle luci.
Spaventosamente bella, lieve, quasi impalpabile allo sguardo addensarsi a
tratti in qualche punto come una cortina densa, immobile sui volti, tanto più
invisibile.
Non avere molto tempo e sapere di dover fare qualcosa, qualcosa di importante prima che la situazione precipiti
e il panico esploda nell’edificio, prima che l’allarme cominci a risuonare e la fuga, la lotta feroce, la gente
precipitarsi, disperdersi, correre in
tutte le direzioni. Entrare in una stanza per recuperare qualcosa, oggetti personali, cose che vorreste portare
con voi, salvare dalla distruzione ma non riuscire a trovarli; non sapere esattamente
dove, quanto tempo vi resti, cosa fare, da dove cominciare, fotografare, quanto
tempo ancora, in quanto tempo la cosa esploderà, quali immagini salvare.
Forse che non hai abbastanza sangue freddo e non riesci a fare spazio, fare
il vuoto nel pensiero e nel corpo per concentrarti solo su quello che vedi,
trovare l’inquadratura giusta, il punto esatto della luce, forse che non hai
abbastanza tempo per riflettere, scegliere il soggetto senza esitazione e sei costantemente
interrotto. Forse che la pellicola é terminata e non ne hai altra per continuare, forse che anche
volendo sarebbe impossibile, forse che ci sono troppe voci intorno e la gente
comincia a affollarsi, attraversare, correre lungo i corridoi, discendere le
scale frettolosamente, riempire la hall dell’hotel. Precipitarsi senza una meta
e tutto sommuovere, muovere intorno, volgere all’infinito, in un indefinito
illimitato,
in un continuo ma quasi al rallentatore, in un movimento attenuato, trattenuto,
a metà arrestato. Senso di rapimento, di stasi non voluta, forse l’angoscia di
non poter continuare. “Una specie di estasi calma e dolorosa”, bloccata come
quando si vuole correre fuori, uscire a tutti i costi ma qualcuno vi trattiene perché l’orario non
é ancora passato e la sirena non ha ancora suonato per annunciare l’ora
dell’uscita.
Senso di rapimento attonito, incantato, tuttavia disturbato da quello che viene a interromperlo, a importunarlo, come il senso di non poter procedere e salvare sé stessi, le cose intorno, le immagini anche.
Senso di rapimento attonito, incantato, tuttavia disturbato da quello che viene a interromperlo, a importunarlo, come il senso di non poter procedere e salvare sé stessi, le cose intorno, le immagini anche.
Stranamente soli nonostante tutto, nonostante un mondo esploso intorno. La
gente non smette di irrompere. Arrestati in questa sorta urgenza estatica, al
rallentatore, assopita anch’essa sotto l’occhio d'un ciclone.
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