
Luna piena alta su un cielo
coperto, plumbeo, oscurato da una leggera patina di indaco blu tendente
all’ultranero che promette tempesta per il giorno successivo. Alle nostre
spalle si erge l’imponente palazzo Grossi, cinquecentesco castello e fortezza
insieme con le sue colonne portanti tendenti verso l’alto, i suoi smerli e
torri in pietra a vista rigide e magnificenti nelle loro linee di forza. La
facciata antica in immobile presenza si è prestata poco prima a divenire
schermo per l’installazione visiva di Andrea Bernabini: fantomatico spazio di
affioramento, composizione e altrettanta rapidissima scomposizione di immagini
in movimento; moduli astratti, qualche volta figure del sogno, profili di corpi
robotici o volti appena accennati si sono susseguiti e visti diluire a velocità
psichedelica in colori elettrici, in linee e ellissi disegnandosi per
deformarsi e dileguare su una piattaforma digitale. Apparizioni dal virtuale
tecnologico o subliminali fantasmi psichici evocati attraverso quello, non
sappiamo. Poi lo sfondo del castello è riapparso nella sua iconicità, nel suo
contorno immobile e austero mentre la densità plumbea della notte è discesa
completamente ad attendere la venuta dei due attori, l’inizio del recital “E
Bal” delle Albe.
Siamo nella totale
oscurità dello spiazzo erboso rischiarato ora solo da un bagliore lunare che
giungendo da un nucleo lontano, luminoso e distante traccia la sua scia celeste
in una perfetta triangolazione tra noi spettatori e i volti apparsi su scena intensamente
rischiarati dalle luci elettriche . Sullo sfondo dall’altra parte del prato, il
rivale alto del fiume Senio coperto di vegetazione, arbusti e cannucce palustri
conduce il nostro sguardo più lontano lasciandoci intuire nell’oscurità
l’entroterra della campagna circostante, le distese dei campi oltre il fiume,
questa immagine d’una terra ancestrale di Romagna, antica, mitica che si
ricongiunge in qualche modo dalle sue radici rurali a un archetipo della nostra
memoria collettiva inconscia . Il dialetto, ugualmente è la lingua poetica
adottata da Nevio Spadoni che naturalmente aderisce al recitativo della storia
di Ezia , donna di campagna abbandonata dall’amante e futuro marito, emarginata
dal paese e vista nel suo continuo vagare attraverso il villaggio tentando di
trovare un sostituto al vecchio fidanzato scomparso. Nel racconto la donna ne
diviene folle con il passare degli anni, presa dentro il proprio delirio
personale sul passato fino a perdere il lume della ragione. L’idioma è quello
duro, gutturale, “di ferro” appunto come lo definisce Ermanna Montanari
dell’entroterra romagnolo, gridato e sputato fuori, stridente, metallico e
pieno di ruggine come la voce immaginata per la protagonista femminile; quello
che taglia l’aria attraverso le campagne immense e arriva come una lingua
viscerale strappata dal fondo della carne, del corpo del giovane attore
Magnani. Una parola nuda, gettata sul vuoto della scena, stridente come il
suono metallico di un gessetto su una lavagna , incisiva come il graffio d’un
artiglio sulla carne viva per modularsi in sonorità dalle varianti ritmiche
serie, ora canzonatorie o prettamente comiche, ora grottesche fino a toccare il
tragico nel finale con la morte della donna lasciata al suo infausto destino.
Immobile sulla scena l’attore
racconta la storia di Ezia attraverso una voce narrante fuori campo, a tratti
incarnando quella di lei mentre si scaglia in invettive contro la gente del
villaggio che la deride, contro l’amante che l’ha lasciata, sempre e comunque
dicendosi in cammino per inseguire la fiammella illusoria d’un barlume di
felicità inseguito quanto vagheggiato, intravisto quanto perduto, immaginato
quanto smarrito come il filo della sua vita. Il suo linguaggio si colora di
imprecazioni, esclamazioni e espressioni tipicamente dialettali intraducibili
in italiano, approda infine nel compianto contro il proprio destino, strano
gioco che per un giro di vita l’ha lasciata muta, sola, perduta a una danza folle e senza
parole.
Un musicista, Simone Marzocchi, accompagna su scena come se in primo luogo la qualità timbrica della voce di Ezia, l’identità stessa del personaggio scaturisse dalla phoné, dal suono del sottofondo musicale oltre che dalla sua parola scagliata fuori in sonorità stridenti, metalliche ora intercalate da brevi silenzi, ora dalle note acute e dai cigolii di fondo dei tre strumenti. Accanto alla tromba appare una sorta di xilofono con suoni dissonanti, infine questa lastra metallica rilucente, argentea e opaca che come una vera e propria tavola di scrittura si rende superficie riflettente, istallazione visiva e sonora dove qualcuno iscrive una storia e insieme dialoga con la propria ombra. La figura in rilievo si staglia nello spazio, emerge illuminandosi di tanto in tanto insieme al volto rapito, attraversato, transito quasi dalla potenza della parola dell’attore Magnani. Perché è, infine, nell’estrema semplicità della visione, nella nudità abitata di quella scena creata solo da poche luci, in quel paesaggio lunare e sullo sfondo d’una terra ancestrale da cui l’idioma origina e trova la sua linfa vitale che nasce e prende corpo il racconto di Spadoni attraverso la presenza indelebile dell’attore su scena. Là, la sua voce riesce a farsi corpo nell’immobilità della figura, a divenire densità e materia sonora, parola poetica infine abitata.
Un musicista, Simone Marzocchi, accompagna su scena come se in primo luogo la qualità timbrica della voce di Ezia, l’identità stessa del personaggio scaturisse dalla phoné, dal suono del sottofondo musicale oltre che dalla sua parola scagliata fuori in sonorità stridenti, metalliche ora intercalate da brevi silenzi, ora dalle note acute e dai cigolii di fondo dei tre strumenti. Accanto alla tromba appare una sorta di xilofono con suoni dissonanti, infine questa lastra metallica rilucente, argentea e opaca che come una vera e propria tavola di scrittura si rende superficie riflettente, istallazione visiva e sonora dove qualcuno iscrive una storia e insieme dialoga con la propria ombra. La figura in rilievo si staglia nello spazio, emerge illuminandosi di tanto in tanto insieme al volto rapito, attraversato, transito quasi dalla potenza della parola dell’attore Magnani. Perché è, infine, nell’estrema semplicità della visione, nella nudità abitata di quella scena creata solo da poche luci, in quel paesaggio lunare e sullo sfondo d’una terra ancestrale da cui l’idioma origina e trova la sua linfa vitale che nasce e prende corpo il racconto di Spadoni attraverso la presenza indelebile dell’attore su scena. Là, la sua voce riesce a farsi corpo nell’immobilità della figura, a divenire densità e materia sonora, parola poetica infine abitata.
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