venerdì 3 luglio 2015

Scorci da un labirinto, ( alcuni luoghi di VENEZIA durante la Biennale College-Danza)











La città si muove costantemente sull’acqua come la danza a Venezia, ad ogni fluttuazione è indotta al moto immobile delle sue onde, dei suoi scorrimenti attraverso i canali, i ponti, nel riflesso dei palazzi sulle superfici stagnanti e luminose delle acque. Dal labirinto dei suoi cunicoli, da stradicciole strette e tortuose s’aprono campi, campielli soleggiati e luminosi, piccole piazze ora assolutamente vuote e silenziose ora affollate da una miriade di negozi e visitatori, e ponti che le collegano ad altre calli e piazze, chiese in mattoni a vista e stretti vicoli selciati dove prima o poi si finisce per perdersi.Là sono squarci di bellezza improvvisa che scorgi inattesi in un angolo di giardino, nella sagoma d'un palazzo riflessa sfumata e ondeggiante sulla fluttuazione delle acque o attraversi i vetri opachi delle finestre aperte d'un edificio antico.











San Trovasio è una scena di teatro naturale, si apre come un campiello luminoso , una nicchia riparata dal vento dove il sole viene a rifugiarsi in mezzo alle stradicciole e ai tortuosi vicoli veneziani. Nel lato principale della piazzetta c’è una chiesa bianca, al centro un grande pozzo coperto, cerchiato da una cornice ugualmente bianca al suolo. Le case sono basse, squadrate, in mattoni indaco, violetto, rosa e ocra; in mezzo si erge il portale della chiesa, un protiro e due colonne esterne, poi ancora altri muriccioli in pietra a vista dal lato opposto. Di fronte è lo scorrere lento delle acque sotto un ponticello che attraversa, una parete di vernice rosa sullo sfondo, alcune barchette ferme a indugiare, a dondolarsi lente sul canale. Intorno al riquadro al suolo sono i saltuari passaggi delle persone o dei turisti che attraversano. Qui si è svolta la performance del coreografo El Mabbed Radhuane e dei suoi danzatori durante la Biennale danza, qui ci siamo spostati insieme al gruppo per assistere alle prove in esterno alla fine d'una giornata. All’arrivo ha disegnato croci bianche al suolo, ha delimitato lo spazio, ha tracciato la scena circoscrivendola con segni di gesso sulla pietra.

 Prove in esterno: i danzatori dovevano essere dispersi nella piazza, confondersi con i passanti, essere là tra la gente comune. I gesti dovevano prendere corpo a poco a poco, i volti diventare intensi, netti, talmente pregnanti che i passanti non avrebbero potuto restare indifferenti. Doveva esserci questo momento nella performance, il punto in cui loro non erano più gente tra la gente ma erano là attori, performer a lasciare la loro traccia, il momento in cui le cose si sarebbero stagliate nette all’orizzonte, indelebili nello spazio, scritte come nero su bianco, come parole d’inchiostro su un foglio nudo.







La sincronia di elementi, qualche volta, funziona talmente bene che tutto sembra corrispondere, combinarsi insieme perfettamente , trovare un proprio posto come ogni nota in una melodia, come gli strumenti nel comporsi orchestrale di una unità d’ insieme. Così, un’alchimia di ferro in oro ha trasmutato uno spazio singolare di Venezia, un scorcio unico del suo paesaggio e un assolo coreografato in un momento di rara bellezza, di singolare potenza espressiva. Ho assistito a tale momento ieri allo Squero osservando Annamaria Ajmone nella sua danza, come di fronte a un’alchimia perfetta di elementi voluta dal caso o dal destino che, se qualcuno avesse tentato di metterli insieme lì volutamente, nella simultaneità del loro comporsi, non sarebbe riuscito altrettanto.



L’ambientazione in primo luogo è la scenografia naturale di questa striscia di terra che come un isolotto appare separata da un corso d’acqua o canale tenendo a distanza gli spettatori dall’altra parte del parapetto. Una striscia di cemento, il catrame nero rilucente al sole, le barche lì approdate a riposare, a essere riparate o costruite nell’officina dello squero. Una striscia esigua separa l’acqua dalla terra ferma, lì dove vengono a infrangersi le onde, riassorbite dalla riva. Vedo parti di navi in costruzione, il ferro, la sensazione oleosa del catrame rilucente nel riflesso oscuro delle acque, i piloni di legno fissati dentro i canali quasi resi putridi dal tempo della loro esposizione. Sfondi di muri in mattoni a vista fuligginosi traspirano rame e ruggine, panni stesi ad asciugare e l’acqua in risacca sbattendo contro la riva.

Vedo gli uomini al lavoro nello squero intenti in un vero e proprio “labor” come una messa in opera quotidiana, l’officina del fare, del costruire navi, di pezzi che si mettono insieme in una composizione: fare con le proprie mani, comporre con il proprio corpo, tenere insieme parti, montarle l’una con l’altra mentre un canale separa e protegge creando questo riflesso magnifico d’acqua a noi spettatori. Più tardi quello stesso spazio sarà abitato, riempito dallo strumento ritmico del corpo della danzatrice in accordo alla musica di Moondog o in improvvisazione su quella, la sua scrittura personalissima, il suo essere là totalmente in una stretta aderenza tra il sentire e la pelle, le articolazioni, le ossa, tutte le singole parti implicate in un movimento che insieme disarticola e segue il fraseggio naturale del corpo. A un momento preciso la figura si avvicina all’acqua, appare vicina a una sospensione, tergiversa, guarda dall’altra parte della riva, dubita,esita un poco e poi torna indietro nello spiazzo di cemento e riprende la danza in un impulso ritmico improvviso come liberandosi, togliendo tutte le barriere per lanciarsi in questo momento di apertura,esultanza, esaltazione danzante e ritmica. Termina, infine, con un’ ironica e divertente nota di musica popolare dondolandosi su un motivo di boogie woogie; nella semplicità del suo essere là con la sua danza mentre noi spettatori guardiamo, incantati, dall’altro lato della riva.




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