venerdì 3 luglio 2015

A proposito di Jean Munoz, " Double Bind & Around" (Hangar Bicocca, MIlano)


















Jean Munoz:
“ Lo spazio è là, dato. Poi viene il mio linguaggio, la mia esperienza che è altra cosa. Questi sono i punti di partenza. Non penso che qualcuno possa veramente dar forma a un lavoro a prescindere. Bisogna venire, guardare, disperarsi e sorridere”.

All’Hangar Bicocca lo spazio creato da Munoz come nel suo precedente allestimento alla Tate non è elemento architettonico dato a priori ma veramente l’oggetto d’un esperienza percettiva inedita dove lo spettatore è chiamato in primo luogo a rendersi partecipe insieme all’artista: guardare l’oggetto è anche un vedere sé stessi nel vuoto d’un piano, d’un corridoio o d’un ascensore tra i tre livelli di scorrimento dal sottosuolo al sopraelevato. Se si tratta, nelle parole di Munoz, di "avere un’immagine per cominciare e costruire a partire da quella" una scultura o un’installazione, fondamentale resta per l'artista rispetto al suo lavoro anche e soprattutto vedere gli spettatori muoversi nello spazio, circolare e essere soggetti a meccanismi di percezione destabilizzante perché non resti solo, per loro, un' osservazione ma la reale esperienza di un attraversamento: “attraversare la città” piuttosto che di “entrare in un museo” camminando su pavimenti ottici e geometrici o attraverso installazioni che investono la verticalità estrema dell’Hangar quanto il suo volersi vuoto, anonimo, apparentemente ostile o estraneo allo spettatore per lasciarlo alla propria esperienza percettiva estraniante .






“La mia prima idea o immagine se si vuole era di costruire due ponti successivi, due ponti tendenti all’orizzonte che scomparivano nella distanza. Questa è stata la prima idea: stare su un ponte e guardare a qualcosa, un ponte dal nulla al nulla. La seconda idea era di sospendere un numero indefinito di persone nello spazio”.






“Waste Land”





Il pavimento si compone di pattern geometrici colorati, di elementi modulari del nero, del giallo e del grigio; scorre, scivola sotto i nostri piedi, si protrae, tende oltre i nostri occhi a un infinito ottico e modulare, a una griglia visiva che appare anche come una gabbia geometrica e illusoria. Ci fa perdere la nozione spazio-temporale dei limiti, scorre trascendendo lo spazio fisico sotto i nostri piedi come un piano aperto, una distesa galattica, come una serie di diagonali in combinazione infinita di gialli e di neri intermittenti ai grigi in diluizione. E’ terra “desolata” , dalla poesia di Eliot cui si ispira, perché immersa in questa sorta di estraneità e vuoto percettivo; spazio aperto dove lo sguardo scivola senza potersi arrestare su alcun segno di presenza, sullo sfondo di strutture oscuranti in tubi e metallo. Il pupazzo d’un piccolo ventriloquo è là testimone a lato, dall’altro lato un suo simile, seduto con i piedi che penzolano da una mensola di metallo sospeso nel vuoto. Lo sguardo scivola, corre all’infinito come questa luce verso un punto di fuga lontano, nell'oltre, poi tende a parcellizzarsi in una molteplicità di punti di vista secondo le diagonali scelte. I due testimoni, muti e sprovvisti come questi pupazzi di ventriloquo d’un reale interlocutore, restano n attesa di parole o che le parole di qualcun altro giungano a loro; in metallica sospensione potenzialmente investiti della capacità di raccontare , di farsi tramite e incarnare un’altra lingua, la voce d'altri corpi, altre parole.

“Hanging Figures”



Guardare, essere guardati, guardare sé stessi, la verticalità mette in scena questo gioco dello sguardo.
Fare i conti con la verticalità dello spazio espositivo diventa una scelta simbolica oltre che formale, implica una distorsione profonda dello sguardo costretto verso l’alto, fatto sollevare dal suolo al soffitto oppure della figura intera appesa, spesso comparendo come attaccata dall’alto a un filo metallico e lasciata penzolare. Il corpo è contratto, sollevato a massa, i piedi sono fatti precipitare nel vuoto, una liana uncinata lo serra dal centro della bocca. Qualche volta gli appesi appaiono senza testa ciondolanti sull’ambiente circostante mentre un osservatore allungato al suolo li osserva, la testa volta verso l’alto con ghigno sinistro. Manichini umani e metallici ruotano su loro stessi nella violenza implicita del gesto, nella sospensione angosciante del loro guardare e vedersi guardarti in tale estraneità di prototipi semi-umani, equilibristi sul filo teso della vita tendendo verso una qualche verticalità lassù oltre il soffitto, oltre il nero della parete di fondo e il grigiore circostante. Qualche volta appaiono come manichini decapitati _ la testa amputata_ dunque nell’impossibilità anche volendo di guardare oltre, di ascendere volgendo verso l’alto mentre l’atto tagliente, ironico e auto-derisorio di tale posizionamento è enfatizzato da una figura al suolo che osserva la scena con una risata sinistra.




“Conversation Piece”



Un gruppo di figure in resina e poliestere. La parte inferiore dei loro corpi è appesantita da involucri che ricordano sacchi di sabbia. Le figure in una serie di pose statiche, congelate nello spazio, appaiono volutamente più piccole del normale; una tacita conversazione accade tra i due personaggi al centro della scena. Un terzo si protrae verso di loro vistosamente trattenuto da un’altro che gli cinge la vita tenendola serrata a un cavo metallico. Due figure al centro, una sfiora lievemente il volto dell’altro con una mano nel tentativo di parlargli, di comunicare o meglio di trasmettere a lui un qualche misterioso segreto. Con il volto coperto d’una mano sembra volergli sussurrare qualcosa lì in quell’attimo arrestato nel tempo, in quell’ “immobile movimento” investito d’una palpabile tensione emotiva. Il toccare al volto dell’altro emerge in primo piano mentre lo sguardo è cieco nel’impossibilità di vedere, di entrare in contatto con lui e con noi spettatori in parte per questo velo o tela di pietra oscurante che come una patina di grigio-sabbia è sovrapposto all’ultimo strato della scultura. Le figure appaiono più piccole rispetto alle loro reali dimensioni; quali prototipi dell’umano volutamente non devono coesistere nello spazio degli spettatori. Qualcosa tende a isolarle, a renderle estranee, il loro sguardo introspettivo è volto sempre verso l’interno. I corpi ugualmente sono ancorati al suolo, zavorrati a terra da sacchi pesanti scolpiti nella pietra. Le figure congelate nello spazio performativo che contribuiscono a creare appaiono nell’immobilità di pose statiche , di istantanee fotografiche arrestate in qualche modo dal gesto della scultura: prototipi beckettiani di figure dell’attesa,della perdita o dell’assurdo esistenziale, rimandano alla sua de-figurazione del soggetto preso nella trappola dell’ inconscio o del linguaggio.


“The Nature of Visual Illusion”






Lo spazio tridimensionale d’una tenda grigia monocroma è evocato in effetto trompe-l’oeil dallo sfondo pittorico figurato. Lo spazio in realtà è illusorio, fittizio, ricreato per l’effetto d’una pittura mentre tre figure dai lineamenti quasi identici appaiono assorte in discorsi a noi sconosciuti e una quarta li osserva a distanza spiando la scena a lato con ghigno beffardo.

Spazio illusorio: quello che vedo come spettatrice è una messa in scena, un artificio visivo, l’illusione ottica d’una realtà che se pur solamente simulata dal gioco prospettico comincia a esistere nel momento in cui entro in quella “finzione” trascendendo lo spazio puramente fisico degli oggetti e delle figure. Accetto di prendere parte a quel patto in una “sospensione di giudizio” che è anche un atto di fede verso quello che sto sperimentando, vedendo o credendo di vedere nella mia esperienza dell’opera. Quello spazio disorienta la mia assunzione d’una presenza architettonica oggettiva, chiara perché vuoto, privato d’ogni possibilità di comunicazione con lo spettatore e posto in una tensione emotiva tangibile, appunto l'atmosfera lugubre, svuotata del luogo e il senso di estraniamento in cui le figure sono immerse, lasciate interagire. Questo tipo di spazi sono quelli che troveremo nel lavoro di Munoz, spazi architettonici mai completamente diurni o notturni e che pur apparendo svuotati, “denudati”, lasciati a loro stessi là dove la comunicazione appare in qualche modo impedita o rimossa con l’esterno, dunque spazi “fuori dal tempo”, incarnano tanto più una condizione esistenziale, la quintessenza d’una sensibilità dell’attuale. Giustamente perché mancano di identità, perché sono così caricati tensivamente , sensibilmente ma allo stesso tempo restano anonimi, sprovvisti d’una personalizzazione, giustamente interstiziali agli spazi di presenza. Come afferma Munoz a proposito della sua ultima installazione: “ Con questo lavoro ho costretto ogni immagine a essere un’immagine vuota. Gli ascensori non trasportano nessuno, le finestre non conducono da nessuna parte”. Implicano una discesa nella notte, il serrarsi di strade, di negozi, di saracinesche o tende, il momento della chiusura. Ogni cosa appare essere sospesa, tutte le figure hanno gli occhi strettamente chiusi all’esterno nell’impossibilità di vedere.



Dunque da una parte è l’inevitabile “trasparenza dell’illusione” citando Munoz che si trova al centro del suo lavoro, un’illusione architettonica e visiva ma anche performativa o di realtà quale condizione esistenziale che vuole essere costruita e insieme de-costruita, messa in scena nel suo gioco performativo ma anche messa a nudo. Dall’altra parte, gli spazi sono o vogliono essere ricondotti a spazi vuoti, a immagini svuotate o destabilizzanti alla percezione, domandando d’essere esperiti, sentiti più che tangibilmente visti o presentati agli spettatori. Si aprono in verticalità su differenti livelli, sono fatti di ascensori, di varchi al suolo, di cunicoli sotterranei e botole che danno accesso a presunti sottosuoli come in “Double Binds”.

Sono pavimenti ottici o palcoscenici visivi dove strane figure, presenze destabilizzanti, prototipi umani si affacciano, oppure pupazzi muti di ventriloqui in attesa di parole come nella “Waste Land” munoziana. Ancora, possono essere figure in un circuito chiuso, in un meccanismo che si muove a ripetizione nello spazio come per le ascensori ascendendo e discendendo senza sosta in un movimento immoto e continuo, girando su sé stesse per ritrovarsi sempre allo stesso punto.
In “Living in a shoebox”, due figure in miniatura posizionate dentro un meccanismo che si muove senza sosta sulle rotaie di un modellino giocattolo viaggiano perpetuamente sospese in uno spazio claustrofobico, prese dentro un moto di ripetizione continuo del circuito che è anche l’immobilità apparente d’un corto-circuito eretto a sistema. Là nessuna possibilità di trasformazione esiste. Perché, come afferma l’artista, se da una parte “l’immobilità della scultura figurativa resta per me un inspiegabile enigma”, dall’altra “la rappresentazione del movimento e del gesto dentro quell’immobilità è una sfida perpetua e affascinante”.

L’idea di scultura infine,in Munoz, sembra posizionarsi veramente tra tali estremi di immobilità e moto continuo incapsulando il movimento come nelle ascensori ma in modo soffocante, mostrando situazioni in cui si è immobili e ancora ci si muove in un’altra intensità emotiva. Là, le figure presenti in un “immobile movimento”appaiono condannate all’immobilità dell’eterno ritorno, d’una ripetizione immota e senza via d’uscita.





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