lunedì 25 gennaio 2010

Christian Boltanski (I), Monumenta 2010, "Personnes", Grand Palais, Parigi



Battito potente, ipersensibile, espanso al suo grado massimale;
nella penombra, nella semioscurità, somma di tutti i battiti, di tutti i cuori, le vite che hanno attraversato quegli abiti, fatto di quei respiri dei segni viventi.
Archivio di vite immaginarie.

Lo spazio enorme s’ apre smisurato oltre la taglia umana sotto la volta del Grand Palais;
spazio come ampiezza del respiro, fatto di arcate immense, fabbrica o luogo d’esposizione di un’antica Internazionale.
Circolare nelle volte in ferro che si elevano ai lati, perpendicolare in altezza, sulle vetrate che si ripetono in linee rigorose all’infinito.
Sobrio, essenziale, d’una semplicità estrema come la natura dell’installazione: immensa, rigorosa, ripetitiva fino all’assoluto.

Quadrati d’abiti sono disposti in linee verticali e orizzontali su tre colonne;
cimiteri d’abiti, di cappotti, di tessuti. Come i cunicoli o le urne sepolcrali dove venivano trasportate le ceneri dei defunti quando i corpi erano dissolti e non ne restavano che le reliquie. Corpi svaporati, restano gli involucri di umanità disperse, l’impronta eterea, evanescente, della loro non-presenza impressa sui tessuti distesi al suolo.

Colori opachi, spenti, poi macchie luminose s’aprono all’improvviso, giallo per esempio, di foulard svolazzanti o giacche malamente dispiegate.
Ai lati, quattro colonne in ferro ruvido, oscurate dal tempo, gelide al tatto, si ricongiungono con i fili d’acciaio al centro convergendo verso una lampada a neon rettangolare .

Presenza fredda, ineluttabile, sottilmente pervasiva, la morte, impronta la disposizione dello spazio; spazio di "di-sparizione", d’oblio;
lotta a ridosso della memoria.
Rinvio tacito, ai campi di concentramento, alla Shoa, agli ospedali psichiatrici,
ai gulag, alle prigioni e a tutte quelle strutture di potere che irreggimentano e disciplinano l’individuo dentro la norma e il controllo di un ordine imposto fino alla sua perdita.

Silenzio a ridosso della memoria. Potente, in contrasto, questo battito continuo, smisurato, risuona della somma di tutti i battiti, i cuori, d'un’infinità di vite e d’esseri.
Qui la vita si erge assordante, minacciosa contro la struttura opprimente, a ripetizione della scenografia di morte.
Il battito primo, suono o musica che abbiamo sentito per la prima volta venendo alla luce, prima nozione di ritmo che abbiamo percepito, rinvia tacitamente al cuore di un’esperienza primordiale della quale portiamo inconsapevolmente la memoria. Ogni volta cercando un ritmo, una frase o una parola, un gesto o un movimento. Battito vitale, per eccellenza, é qui la somma di tutti i battiti individuali, eco di vite scomparse che si ergono, minacciose, contro la loro distruzione.


Alla discesa della notte la luce all’esterno degrada a poco a poco assorbita dall’oscurità. Allora l’atmosfera si fa più pregnante, il riflesso freddo delle lampade a neon contro i fili d’acciaio più acuta, i contorni delle forme, delle linee più marcati nel chiaro-scuro circostante.
Discendiamo a poco a poco in questa sorta di distesa spietata di camere a gas dell’oblio e della memoria.
Costruzione rigorosa pensata in una geometria di quadri comunicanti, apparentemente isolati l’uno all’altro, facendo salire in noi, lentamente, insieme al freddo che assorbiamo, dentro l’atmosfera che respiriamo, il senso opprimente della memoria, una storia, anche, collettiva in controluce .

Rumori, forti, continui, provenienti da diverse direzioni, individuali sono alternati a mixaggi collettivi come in una fabbrica. Scatole d’archivio che divengono urne cinerarie,
pietre anonime di una parete in ferro rifrangente che separa dal mondo dei viventi là fuori.
Abiti vecchi, usati o di seconda mano, appartenuti a qualcuno prima.
Il freddo. Spazi vuoti. Sensazioni di rumore, di vuoto, di immobilità.
Accumulazione di stracci, di stoffe, di tessuti; qualcosa dell’ordine dei sensi che pure non riusciamo a toccare.
I suoni ci passano attraverso da parte a parte. Ritmici, identici, regolari e d’una semplicità sorprendente. Qualcosa di perturbante, d’opprimente ma che resta invisibile agli occhi,
di cui non ci rendiamo conto se non nella durata, facendo l’esperienza della cosa nel tempo e nello spazio, camminando attraverso i quadrati identici l’uno all’altro,
restando lì a lungo ad assorbire gli odori degli abiti vecchi ,
ad assimilare il rumore assordante del battito ,
a sentire l’assenza di vita o le sua esplosione, improvvisa, a tratti.


Una montagna immensa di stracci colorati, di stoffe e colori mischiati, confusi insieme;
una sorta di meccanismo spietato, un grande artiglio in ferro discende, ineluttabile, a intervalli regolari: artiglio meccanico privo di battito cardiaco, afferra, solleva e strappa a caso una manciata di stracci, indifferente;
li mantiene sospesi, , in aria, poi d’un tratto li lascia cadere, scivolare giù,
li abbandona al proprio destino semplicemente.

Pensiamo alla ripetizione, ai meccanismi a ripetizione, irreversibili e che agiscono macchinalmente , senza possibilità di intercessione, del destino o del caso.
Pensiamo a immagini lontane, alle visite obbligate ai cimiteri da bambini, ai passaggi attraverso i sentieri di tombe incise di nomi anonimi, identici l’uno all’altro, al vuoto, all’ineluttabilità,
ai meccanismi che schiacciano l’individuo fino al suo annullamento.

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