giovedì 14 gennaio 2010

Su Cartier-Bresson (II), immagini e parole

“L’immagine della città radiosa e nera, saggia e folle, silenziosa e abitata dai fantasmi che portiamo in noi” (P. Gascar)













Indonesia 1949: due giovani balinesi si preparano alle danze,
allacciano corsetti prese nel complicato rito vestimentale.
Decorazioni floreali sulla fronte, tra i capelli, impresse sugli abiti ricamati in oro.
I tessuti sono stretti alla vita, i capelli accuratamente raccolti in acconciature rituali.

Gli occhi sono chiusi,i movimenti ampi delle mani avvolti nel rapimento misterioso della danza: un avvenimento d’ordine sacro, religioso e rituale.
Deve emergere così, tacitamente, nel baratto dei corpi ordinari, nello spazio di un istante, nel passaggio verso l'alterità del divino. Convocato nel silenzio, nella metamorfosi rituale degli abiti,
attraverso un complicato processo di preparazione, maquillage e ri-vestimento.
Gli occhi chiusi sono colti nell’atto di una preghiera : invocazione silenziosa attraverso l'oscurità. Qualcosa accetta di manifestarsi nello spazio di un passaggio fulmineo, di un movimento avvolgente del corpo: il divino lascia emergere la sua traccia senza intermediari.

Occhi chiusi, corpi traversati, temporaneamente transiti.

Morire e rinascere nella metamorfosi di un misterioso passaggio.




Place de L’Europe, Parigi, 1932.


Il fotografo lascia fare al caso, all’accidente che agisce sul reale e rivela l’inatteso, l’insubordinazione delle forze di vita sull’organizzazione rigorosa della forma;

unageometria segreta di linee e superfici  legando i rapporti tra le forme rivela il surreale dentro e a partire dalla realtà stessa.

Una strada diviene uno specchio d'acqua, un uomo corre via, lontano, oltre la sua ombra, contro il riflesso sbiadito che scompare, a poco a poco, all'altro lato della realtà. Un frammento di strada ferrata si disegna, fluttuando per scomparire, d’ un tratto, entro la superficie opaca, immobile d’acqua.

Oggetti accumulati dal caso sembrano circoscrivere perfettamente quella geometria rigorosa di forme sulla scena. Un mucchietto di pietre e sassi ammassati sullo sfondo; la luce sbiadita, diafana di un mezzogiorno grigiastro illumina l’ora immobile che il pendolo segna sulla torre della stazione. Un ammasso di terra, cerchi di ferro incurvati contro la linearità della superficie, una grata di lame appuntite, sullo sfondo appare anch’essa contro lo specchio d’acqua. Figure anonime scompaiono in lontananza nel controluce d’ombra.
Grandi caratteri di scrittura restano impressi nero su bianco su un manifesto; accanto il profilo di una figura vola,  leggera, aerea, nella direzione opposta a quella dell’uomo come la proiezione del suo doppio,  vista al contrario e riflessa in quelle rifrangenze multiple d’acqua.
Tutta l’immagine è costruita su un gioco apparente di rinvii e rifrangenze. Piani si incrociano, stabiliscono segrete analogie, rinviano l’uno all’altro nel gioco d’eco e di risonanze: l’immagine e il suo doppio, la figura e l' ombra, la realtà e il suo rovescio.
Tale piano di surrealtà s’apre come uno squarcio dentro la realtà più ordinaria, tale, un uomo che s’affretta per prendere un treno in una giornata nebbiosa nei pressi di S. Lazare.


Paesaggi: Siphnos, Grecia,1963 ; Seville, Spagna, 1932.




La scalinata conduce al centro di un gruppo di case  bianche in calce dai tetti a vista. Costruzioni geometriche, rettangolari, epurate e prive di presenze umane. Porte chiuse, finestre serrate, la luce trapassa all'apice del mezzogiorno. Le forme bianche e assolute della città  si ripetono in schemi regolari convergendo,  verso un punto immaginario, invisibile o esterno alla fotografia.




Lo stesso accade nel gioco d’ombre, di porte e di cunicoli che si intravvedono, proiettandosi in controluce nell’immagine di “Siviglia” (1932.) Gioco misterioso, labirintico di passaggi sotterranei, il riflesso di un meridiano bagna al suolo con il suo cerchio d’ombra nell’ora più calda del giorno. Un ragazzo nascosto in penombra in primo piano contempla misteriosamente il senso di quello che sta accadendo, segretamente attraversando l’istante della fotografia, il punto in cui il meridiano tocca il suo zenit all’apice del mezzogiorno e il cerchio delle ore si chiude disegnandosi come una sfera perfetta al suolo. L’istante decisivo della fotografia. La sfera del tempo si chiude in cerchio trovando, qui, la sua completezza. In quel momento misterioso un gioco d’ombre si lascia intravvedere nei cunicoli vuoti delle strade all’attimo dello scatto fotografico.



Valentia, Spagna, 1933.

“Avanza, testa reclinata all’indietro, labbra semi-aperte, braccio destro leggermente scostato perché il corpo sia offerto senza la minima difesa; perché avanzare vuol dire per lui consegnarsi”. (Milan Kundera) Grazioso, in bianco, avanza. Cammina a ridosso della parete; parete nera, macchie nere, linee nere ovunque, tutto cancellato intorno. Intermittenze improvvise di frequenza, nero su bianco, incolore lo sfondo.
Occhi chiusi, la testa è leggermente reclinata all’indietro, la bocca socchiusa in una deflagrazione improvvisa nell’essere. Preso in questo stato d'estasi dolorosa, improvvisamente colto, saisi.
Tutta la realtà annullata intorno appare per intermittenze, frequenze interrotte nello specchio infranto della sua interna visione, della sua sola percezione.
A piedi nudi cammina, con la sua veste bianca. Deflagrazione improvvisa, dolorosa e inspiegata; resta lì inscritta sulla pelle, viso e occhi socchiusi, incisa come una iscrizione solitaria contro la superficie anonima dello sfondo.

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