martedì 22 febbraio 2011

Scrittura su danza : liberamente suggerito da "La tentation d'Eve" di Marie Claude Pietragalla




Dodici quadri, dodici personificazioni su scena interrogano l’immagine del corpo femminile attraverso la storia, costruito da”codici vesti-mentali” che ne riflettono l’imposizione di norme collettive, religiose, sociali o patriarcali. Se il genere femminile appare in gran parte costruito, anticipato e formato dalla norma culturale d’un epoca, dai dispositivi di “sapere-potere” che si susseguono nel corso della storia , se non esiste forse un dominio dove la libertà trascenderebbe ogni relazione di potere, in che modo, sembra dire lo spettacolo, poter affermare nuove individualità nello spazio specifico del femminile, in che modo ritagliarsi uno spazio d’affermazione singolare all’interno di tale gioco di forze. Il processo di messa in scena interroga, deride e insieme riappropria dall’interno quegli stessi stereotipi imposti all’immagine femminile da un discorso prettamente logocentrico e patriarcale inscritto nella storia della cultura occidentale. Se un primo movimento va verso l’affermazione d’una soggettività, il divenire corpo , la costruzione del sé in quanto donna, nel movimento contrario quel corpo appare già costruito, formattato, culturalmente determinato in modo opaco prima del proprio divenire e malgrado sé stesso.

Come afferma Pietragalla, lo spettacolo “ esprime il desiderio di ritornare all’origine del mondo, integrando i miti e le forze che ci dirigono, ci condizionano, ci manipolano”. Da una parte, il ruolo della donna storicamente determinato in un rapporto binario, gerarchico e minoritario rispetto alla controparte maschile é portato su scena, scosso, dislocato, fatto a pezzi attraverso il gioco dei travestimenti, le metamorfosi prodotte sugli abiti per quello a cui essi rimandano come facciata sociale, sottomissione a un codice, mimetismo, compromesso tra corpo e individuo sociale.
La danza si vuole, in questo senso, movimento iconoclasta, energia di rottura dal tragico al burlesco, rovesciamento dei ruoli assegnati al genere, lacerazione dell’abito, investimento di forze prime nell’individuo per liberarsi di costrizioni esterne e ritrovare l'incondizionato del sé . Da un altro punto di vista, il femminile appare come principio universale risalendo alle radici della creazione, alla Genesi, all’archetipo della prima donna, inteso come energia dirompente, propulsiva all’origine della creazione, della procreazione ma anche nella versatilità incarnata delle sue molteplici figurazioni nell’immaginario occidentale: la vergine, la madre, Eva cacciata dal paradiso terrestre, la strega, la sacerdotessa, la donna-vampiro, la figura fatale o tentacolare, seduttrice o portatrice di morte.








I quadro: Genesi, la prima donna, proiezione, l’archetipo dell’eterno femminile, figura generatrice riconnessa alla propria potenza originaria. La danza si libera nell’apertura estrema del corpo, nella sua espansione, sublimazione, movimento estatico su scena, divorante lo spazio attraverso la forza plastica di gesti ampi, smisurati, di braccia e gambe aprendosi in aria, come andasse ad attingere al fondo d’una carica energetica che domanda d’essere spesa, investita, d’incidersi nello spazio come spinta, moto estatico di superamento. Passaggio verso il di fuori, l’al di là, risvegliando forze potenti, vitali e sotterranee all’essere umano.

II quadro: nascita, dare alla luce nel dolore, su terra, la caduta dal paradiso terrestre.
Un burattino o marionetta si anima in movimenti spasmodici, insensati, ripetitivi sul corpo della donna fino ad accasciarsi inerte al suo collo, voci sussurrano alle sue orecchie inducendola verso altre vie.
Micro-movimenti o invisibili risonanze attraversano la figura allungata al suolo, esausta o come dormente, risvegliandosi a tratti in sussulti, madida di sudore. Segue la metamorfosi della stessa, il volto celato da una maschera rigida in plastica bianca, ora ravvolta da un velo, ora ricoperta da un ampio drappo bianco .
 La danza qui, come nella Wigman, sembra investita d’una potenza estatica, d’immersione totale nell’essere risvegliando forze assopite nella sua matrice incosciente. Figura predatrice, divorante, espansa,
 la maschera permette di liberare questa femminilità selvaggia, indomita, senza riserve.
 Ginocchia piegate, gambe divaricate, busto e braccia proiettati in avanti, gesti selvaggi, improvvisi, di svelamento, apertura, poi di riavvolgimento nel drappo bianco come presa dentro un rituale di re-immersione.

Je suis une femme hantée” afferma la voce fuori campo: una figura inquieta, tormentata, attraversata da tale in- tranquillità esistenziale che è anche inquietudine creatrice.
Una figura immobilizzata in parte, in qualche modo legata, trattenuta o impedita che non cessa di lottare per sottrarsi, liberarsi o andare al di là,
non restare imprigionata negli involucri, nelle croste, negli abiti, nelle carcasse,
nelle gabbie fisiche e ideologiche che altri vogliono imporle, nelle architetture costruite che cercano di ridurla, ricondurla, rieducarla.

E’ l’armatura che ricopre il busto e parte delle braccia e gambe in latta lucente, carcassa o corazza che rende il movimento metallico, cadenzato, scomposto,
i passi striscianti al suolo, la successione dei gesti molti più lenta e soppesata.

La figura é presa dentro questa armatura pesante e vuota in lotta contro la lamiera d’una corazza che poi lascerà a terra come una prima pelle, l’involucro esterno d’un serpente.

E’ ancora l’ossatura, il supporto rigido dell’abito settecentesco ricostruito a taglia umana, il busto in plastica inflessibile, rimodellato sulla figura e l’architettura-gabbia dell’ampia gonna composta da stecche rigide, simile a una geometria piramidale in gesso o cristallo. E’l’impalcatura-simulacro dell’abito sotto la quale il corpo reale si insinua, si lascia scivolare, comincia a muoversi, scalpita e danza sporgendo braccia e bambe attraverso le aperture, oltre i limiti ristretti dell' intelaiatura. Infine, indossa la carcassa trasparente fino a vestirsene completamente ricomparendo nel maestoso abito settecentesco, stretta, allacciata dal suo corsetto avanzando in modo monumentale.

E’ la deformazione voluta del volto, i gesti di contrazione di mani e braccia e poi l’ energia incontenibile che investe la voce, l’apparato fonatorio, le labbra e i tratti del viso fino a deformarli in un grido smisurato portato da un’energia potente, inesausta dal fondo del ventre. Induce la donna a liberarsi della carcassa dell’abito maestoso per rinascere nei panni maschili di un nobile settecentesco. Lascia una pelle e ne ritrova un’altra, lascia la scoria pesante dell’architettura “vesti-mentale” femminile per ritrovare il proprio doppio virile in una sorta di implicita dualità animus/anima nascosta all’interno del corpo dall’aristocratica facciata. Con una nota sarcastica, il cavaliere grida, marcia a grandi passi e declama un discorso prettamente misogino, estratto da una commedia di Molière sul ruolo subalterno, sottomesso e dipendente della donna nella logica del matrimonio.

E’ infine il confronto con l’eterno costume da cigno proveniente dalla tradizione del balletto classico, omaggio a Anna Pavlova. Ritornando all’eredità della danza nella sua traslazione attraverso il tempo e lo spazio, la danzatrice si confronta con un tutù di veli deposto al suolo ai suoi piedi; lo indossa e lo resiste, lo fa rivivere come volesse appropriarsene differentemente, in un rapporto di eredità-autorità riscattata e al tempo stesso messa a morte, inaccettabile come tale, in un rapporto di appropriazione e liberazione che riprende il tema dell’assolo classico ma ne rovescia i presupposti.

Qui il corpo si incarna, riemerge fatto di nervi e sangue, ansiti e respiro, ritorna al suolo, plastico, presente sulla terra, massa inestricabile di carne e pensiero,  abitato, mosso, attraversato da pulsioni e conflitti,
tormentato come lo sono i gesti delle sue mani e braccia tendenti verso l’alto,
le contorsioni del busto indossando e opponendo insieme l’abito.
Si apre con le braccia e il busto in altezza, la testa leggermente reclinata, qui più alla ricerca di assoluzione, espansione o riscatto che non dell’elevazione classica, come stesse scavando al fondo di qualcosa ad occhi chiusi, percorrendo, cercando, tastando con le proprie mani prima di poterlo incarnare,
 portare in superficie.

Una cantante di cabaret compare: si allaccia l’abito nero contornato da piume, lungo e seducente, che lascia parte delle spalle scoperte. Si accende una sigaretta, ne aspira una boccata, il fumo si espande in aria in cerchi sfumati e irregolari disfacendosi a poco a poco. Seduta di fronte allo specchio delle logge, osserva sotto la luce intensa delle lampade i tratti del proprio volto, attentamente osserva le tracce del tempo, la pelle, gli incavi, le piccole increspature sulle tempie; poi comincia un dialogo solitario con sé stessa sul sottofondo d'una musica malinconica , la solitudine dell' artista di fronte allo specchio.

Nell’epilogo tutte le figure sono riassorbite, riavvolte, fatte ri- confluire attraverso l’immagine video alla personificazione del primo quadro. L’interprete su scena riprende la stessa sequenza, ripete l’atto primo della coreografia ma con una percezione trasformata come se avesse attraversato, vissuto l’intero processo di metamorfosi e sublimazione nella performance dall’interno del proprio corpo, dentro la propria pelle, come se appunto avesse vissuto direttamente l’avvenimento di un superamento : contro-effettuato gli stereotipi del pensiero e della rappresentazione femminile, fatto a pezzi l’abito, scavato, aperto una breccia al fondo delle proprie forze vitali, attinto a energie potenti e inesauste,
qui l’energia del femminile, antidoto primo contro la sottomissione al potere dei discorsi e dei dispositivi che ancora e sempre costituiscono o annullano le nostre identità.

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