domenica 13 febbraio 2011

A proposito di "Tracce", installazione di Amos Gitai, Palais Tokyo, Parigi











Amos Gitai: "Realizzare questo progetto impone di dialogare con l'architettura esistente".

"L'arte puo' compiere un lavoro sovversivo rispetto al contesto, ogni luogo dandosi, già, con una implicita delimitazione concettuale e architetturale".
Il sottosuolo del palazzo di Tokyo si presenta come uno spazio immunizzato, "volutamente in rovina" rispetto all'architettura grandiloquente e assertiva della costruzione sovrastante. Utilizzato come deposito, magazzino o zona franca, apre un passaggio verso il basso,
le fondamenta, l'archi-struttura del sito svelandone la storia degli strati soggiacenti.
Durante la seconda guerra mondiale, sotto l'occupazione, furono accumulati qui una parte dei beni spogliati alle dimore di ricche famiglie ebraiche, perlopiù pianoforti. A lungo rimasto inaccessibile per questioni di gestione museale, mantiene inalterato il lato bruto della materia non-lavorata, non finita, esattamente il rovescio, la rovina o lo stadio grezzo dell'altra irrompendo a tratti dalle grandi vetrate: forgiata in marmo bianco, lucida, formalmente magnificente e celebrativa.

Spazio immenso, per la maggior parte vuoto, diviene cassa di risonanza di suoni e dettagli visivi fluttuanti nella sua vasta nudità : colonne in cemento grezzo, pavimento in pietra , la pietra polverosa del suolo sgretolandosi in ammassi di polvere.

Detriti, muri scrostati o appena intonacati, si alternano a muri in mattoni a vista con segni, macchie di vernice e abrasioni.

La luce opaca smorzata dall’esterno attraverso le finestre coperte da plastiche trasparenti .

 L'archi-struttura sotterranea sostiene il luogo visibile del sito ma anche, contemporaneamente, si oppone ad esso, dandosi come contrappunto visivo e ideologico, contrattempo asincronico al tempo proprio e musicale della frase dominante.

“Tracce” nasce come riflessione, memoria rivisitata della recente storia della Shoah partendo dall’incisione individuale d’una esistenza, Munio Weintraub Gitai, padre di Amos, architetto ebreo-tedesco del Bauhaus accusato di tradimento, processato e esiliato in Svizzera prima di partire per la Palestina nel 1934.
È prima di tutto riflessione sull’architettura come traccia, iscrizione, modo di spostare,
dislocare e ri-territorializzare la nozione di spazio, decostruirne l’eredità passata contro-effettuando l’avvenimento architetturale esistente.

 “Tracce” si vuole territorio residuale, dislocato, periferico rispetto all'asserzione stilistica dominante, spazio-margine che si allontana, deriva e vuole risolutamente derivare dalla cornice architettonica data,
al tempo stesso aprendosi un cammino verso il sottosuolo, luogo per eccellenza del fondo, dell' archivio dei dati visibili, deposito dello storicamente narrabile e inenarrabile insieme.

Si pone come discesa sotto il livello attuale, affondando nella memoria diasporica,  alla recente storia occidentale: tale il passaggio nel freddo, nella vastità indeterminata, nella luce fioca e smorzata d’ogni deposito, fondo o riserva dello storicamente visibile.

Resta uno spazio aperto, spazio-cantiere generato dalla contingenza d’ una materia bruta che si presenta, si trova o accade d’essere, di divenire e assumere un sovrasenso nella vastità, nella deriva delle forme, nel gioco dei rinvii sensoriali: il grigio dominante del fondo, le immagini percuotenti, le figure come miraggi di vuoto, i rumori, le voci risonanti nello spazio, la luce fioca filtrata dall’esterno.

Scendendo dal livello sovrastante del palazzo il semi-cerchio s’apre in un corridoio-percorso, in un’esperienza d’attraversamento percorribile nel cammino dei sensi. Se una parte é volutamente lasciata in ombra, e i muri interni sbarrati da grate in ferro dove i video sono proiettati, l’altra é costellata da grandi finestre aprendo sull’esterno.
Reversibilità del didentro di fuori: circolarità percettiva tra immersione e affondamento, proiezione e estraniamento prodotto dall’esperienza .

Spazio di resistenza, de-territorializza in linee virtuali di fuga poetica nel percorso del corpo, nell’esperienza sensoriale che ci fa toccare diversi punti sensibili nello spazio: la discesa nel freddo, l’intercalarsi tra la luce e la semi-oscurità, i frammenti di voci, i suoni-macchina, la musica, violino o cantilena yiddish, i muri spogli, i vetri, le grate, infine le immagini fisse, ripetitive che permeano lo spazio.

Passano attraverso i corpi in marcia senza imporsi, lasciando ad essi solo la possibilità di ricomporsi
in captazioni istantanee.


























































Estratti Video
Un uomo proiettato contro un muro-schermo, esegue una composizione per violino di fronte alla facciata di un edificio costruito in stile modernista da Moser Gitai a Zurigo. Il fotogramma é estratto dal film in realizzazione di Gitai: “ Lullaby to my father”: un lungometraggio sul suo percorso, un ritorno alla sua
non-memoria e, attraverso quella, alle tracce semi-cancellate della storia diasporica del popolo ebraica. Un canto lento, ripetitivo e cadenzato, una nenia o filastrocca per ritrovarlo;


missiva senza nome, lettera inviata ma non perduta, senza indirizzo . “Mio padre è un’assenza in questo film, una sedia vuota. E’ morto quarant’anni fa, ho dimenticato il colore della sua voce, non posso falsamente umanizzarlo.”




Avanzando, la musica risuonerebbe contro i muri, contro la proiezione degli edifici ripresi nel silenzio del
travelling filmico, edifici d’Auschwitz costruiti all’epoca nazista per le parate del regime.
Sarebbero quasi irriconoscibili nel controluce dello spazio reale apparendo come un’impronta rovesciata impressa su una parete lasciata allo stadio grezzo,
aprendosi in macchie informi e striature, incrostazioni di vernice o minuscoli solchi deformandosi fino al suolo.
 Poi l’immagine terminerebbe e tornerebbero i muri nudi in ombra,
e ancora, le ombre degli edifici comincerebbero a profilarsi, minacciose, nel piano-sequenza cinematografico.

Terza stazione: il prologo di “Berlino Gerusalemme” girato nel 1989.

Paesaggi immobili, un violinista, attori che si avvicinano alla cinepresa,
un’esplosione di risate amare e grottesche insieme.
Una suonatrice di fisarmonica e un canto d’amore triste, operai scandendo slogan rivoluzionari,
bandiere rosse.
Visi ricoperti d’uno spesso strato di maquillage bianco, piume, visi- maschera, abiti di scena.
Il quadro vivente composto dai danzatori di Wuppertal è ispirato ai volti espressionisti del dipinto di Grotz, “I pilastri della società”, dai tratti deformati, esasperati, anti-realisti.

Una coppia danza, la donna con il volto puntato a terra è portata dall’uomo. Maschere-clown di uomini e donne; sono i personaggi decadenti, ferocemente deformati dai volti cinici, pieni di ipocrita connivenza con il potere. Sono i testimoni taciti che popolano la società tedesca della repubblica di Weimar, a metà risucchiati, già, dal vortice che sarebbe divenuto la politica del regime nel giro di pochi anni.


Captazioni sonore e visive :

Voci in lingua tedesca negli estratti video di “Lullaby to my father” ,
lettura degli atti dell’accusa da parte degli ufficiali nazisti, estratti del processo in piano fisso.
La sentenza di condanna pronunciata in una lingua dura, implacabile, senza intercessione.
Strepiti, grida, voci schiamazzanti per la campagna del partito neo-fascista in Italia in“In nome del duce.”
Musica di violino, un concerto di Lizt, colonne sonore provenienti da altri video.
I passi, il rimbombo dei piedi al suolo, i silenzi improvvisi, la sequenza muta girata ad Auschwitz.
Le voci dei visitatori, i rumori delle macchine, l’avvio e l’arresto delle proiezioni.
La cantilena jiddish dal suono cadenzato, tenue e ripetitivo.

“Free zone”: l’esposizione del viso in primo piano, nudità, solitudine, svelamento;
il volto femminile di profilo guardando fuori dal finestrino;
silenzio, lacrime e, ancora, il ritornello cadenzato proseguendo sullo sfondo.










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