Il “silenzio è vivo”, abitato, portato fuori
attraverso un grido dirompente nel grande affresco di Teresa Margolles
ospitato per Biennale Donna alla mostra ferrarese, collettivo di giovani artiste
provenienti da diversi paesi dell’America latina. O ancora, è esasperato
attraverso la non-parola d’uno stile
individuale lasciato all’espressività unica di singole voci femminili differenti
quanto connesse da un filo conduttore che attraversa tutta la zona geo-politica
e culturale presa in considerazione. Tematiche ricorrenti alla realtà
sud-americana attuale sono l’esperienza
dell’emigrazione, dello sradicamento e della mobilità obbligata di masse di individui,
le dinamiche di censura e persecuzione o la privazione di libertà politica e
individuale imposta dalle dittature militari che hanno segnato la storia
recente di questi paesi, infine la criminalità o la violenza diffusa nei
confronti delle fasce più marginali della popolazione, fomentata dall’ instabilità
politica e dalla fragilità del tessuto sociale.
Dunque a
quali voci appartiene questo silenzio, da dove proviene e a chi prestano la
parola, l’espressione, il corpo queste giovani artiste sud-americane? Il
silenzio è in primo luogo quello imposto dalle dittature del passato,
in Brasile per esempio, come vediamo nel lavoro di Anna Maiolino trasferitasi lì negli anni ’60 e sperimentando direttamente la situazione di pericolo,
alienazione e censura imposte dal regime militare in atto dal 1964 alla fine degli anni '70. Oppure, è il silenzio
raggelante, l’alone di incredulità e shock emotivo prodotti dal tessuto di
criminalità generalizzata e distruttiva, da quella violenza gratuita e diffusa
che investe quotidianamente e in maniera particolare le donne nella società
messicana come ci racconta Teresa Margolles.
O ancora, è il silenzio alienante della condizione del migrante, del profugo,
di colui che si sposta, emigra, fugge o perde le proprie radici per ragioni
politiche o economiche, per scelta o destino. Tale condizione identitaria
appartenente a molti individui in questa parte del mondo è filtrata, per
esempio, attraverso l’esperienza di Anna Mendieta nata all’Avana nel ‘48 e
costretta a emigrare negli Stati Uniti nel ‘61 in seguito alla svolta collaborazionista e anti-rivoluzionaria del
padre.
Il silenzio,
infine, è il polo opposto all’altro estremo d’una comunicazione espansa
all’ennesima potenza nelle società occidentali e non solo oggi: quella
ipertrofia di immagini, informazioni e messaggi resi possibili dalla rete
globale, l’iper-connettività su un piano mondiale e a tutti i livelli_ economico, dei media e delle culture_ la cui altra faccia è spesso l’assenza di
una autentica comunicazione o d’un veritiero scambio umano nelle nostre
società.
Dunque tali
voci femminili intendono rompere volutamente e criticamente questo silenzio,
ciascuna secondo una cifra stilistica propria, tuttavia, sicuramente sempre
nella sperimentazione dei linguaggi, nella contaminazione tra video, installazione e scultura, nel sincretismo tra le estetiche contemporanee e il recupero di
radici o memorie proprie alle culture autoctone, infine con la costante di
parlare, incarnare o esprimere un punto di vista femminile sull’ arte: la voce
di donne artiste.
Anna Maria Maiolino, sculture da
“Entre o Dentro e o Fora” e “Little snakes”, (2015)
Modellate in assenza o temporanea messa tra parentesi di una reale rappresentazione del corpo, Maiolino realizza qui sculture che come espressione di forze generatrici e primarie all’individuo si traducono in parti o pezzi di “corpi estranei” mimando o rimandando agli organi interni del corpo. Appaiono come visceri, masse o canali di scorrimento, forme modellate di intestini o stomaci organicamente visti in primo piano o canali di circolazione corporea rovesciati dal vuoto al pieno, dall’interno all’esterno in una materia scolpita, ben visibile, e presente. Processo attraverso cui l’istantaneità dell’azione viene riassorbita e trattenuta nel gesto della scultura. La pietra diviene malleabile nella forma contorta e sinuosa del suo darsi nonostante l’aspetto granitico e per sua natura immutabile della medesima, ciò che incarna insieme la potenza viscerale dell’umano e il corpo nella sua capacità di mettersi in relazione con il mondo. Sono interni di intestini ma potrebbero anche essere canali di scorrimento di qualsiasi tipo, reti neuronali del cervello come i connettori nervosi diffusi su tutta la superficie dell’epidermide umana. In una installazione successiva le stesse forme di visceri o intestini vengono portate in esterno e rimodellate attraverso la materia del mondo, infine deposte in massa ordinata su un tavolo d’esposizione museale. Sono marmitte d’auto arrugginite, pezzi riciclati e combinati insieme, tubi di scappamento di vecchie auto in disuso come erano i precedenti pezzi d’intestino, oppure ancora, grondaie rotte o tubature di vecchi canali sotterranei assumendo forme circolari, perturbanti e contorte. Sono materie povere, materiali di riciclo o di recupero simili a scorie del corpo o del mondo che necessitano in qualche modo d’essere riconvertite,riutilizzate, trasformate in altro e altro ancora per poter essere re-immesse nel ciclo vitale.
La scultura per Maiolino è scavo e svuotamento degli organi, del corpo, dell’argilla fino a far apparire in esterno una materia mutevole, ambigua nella sua configurazione che si tenta, infine, di fissare nel posizionamento ultimo della scultura. Essa assorbe, traduce e trattiene l’azione, il movimento imponendolo in una forma statica, indelebile e modellata come tale per l’eternità.
In una scultura adiacente della serie la massa nella sua compattezza diventa scavo, svuotamento e, ancora una volta, l’interno è mostrato o reso accessibile all’esterno. Scolpire è, allora, entrare nei visceri dell’opera come in quelli del corpo attraverso una fenditura che diventa apertura e cavità per risalire quasi alla genealogia della materia, alle radici della storia, alla provenienza più antica e primordiale del gesto scultoreo, forse agli antecedenti della forma. Scavare è togliere, andare verso lo svuotamento della massa, la decostruzione dell’aspetto compatto e levigato dell’opera finita per cercare “nell’indietro”, nel prima, nell’anteriorità al complesso massiccio e unico della pietra.
Anna Maria Maiolino, “In-Out”, 1973-2010
( dal video Antropofagia),
Sei
immagini in primissimo piano raffiguranti alcune bocche maschili e femminili
sono viste nel tentativo di esprimersi ma sistematicamente ostacolate o
impedite da elementi esterni o intrusivi: un uovo, un groviglio di fili, una
massa di fumo o un semplice filo serrato tra le labbra ora spalancate ora
digrignanti. Impedimenti si interpongono in maniera intrusiva all’immagine
visiva mentre la bocca è vista nell’atto di ingurgitare voracemente qualcosa fino a divenire un canale ostruito da una parola non-detta o a metà trattenuta. Allo stesso modo il
post-colonialismo appare divorare o cannibalizzare la cultura coloniale
precedente nel tentativo di espellerla e liberarsi d’essa. Il lavoro
dell’artista fa riferimento qui apertamente al clima repressivo del regime
totalitario instauratosi in Brasile negli anni ’60 che letteralmente toglie voce all’individuo e che
la Maiolino sperimenta direttamente come migrante. Al di là dell’investimento
politico le bocche viste in tale primissimo piano evocano forme perturbanti,
sessuate, orifizi aperti o chiusi innestati d’altri elementi intrusivi,
spalancate, ora digrignanti o serrate volutamente dando vita a immagini ambigue,
aperte, disturbanti alla coscienza del visivo. In fotografie successive che
documentano una performance dell’artista nel ’74, “What is left” forbici sono viste su un volto in primissimo piano; inesorabili si avvicinano al naso prima, in
procinto della bocca e della lingua poi e, ancora minacciando il volto in una
sorta di violazione perpetuata, taciuta e auto-imposta dall'io al corpo della
performer. L’ambientazione appare asettica, la luce fioca nella stanza vuota, in
assenza d’ogni altro segno di rilievo se non il volto ripreso a distanza
ravvicinata dalla cinepresa. Le lacerazioni prodotte dalla violenza politica, il
silenzio imposto dalla censura, l’oppressione e il senso di pericolo diffusi si
traducono attraverso la medianità d’un corpo-strumento, istintivamente
espressivo, brutalmente nudo e diretto nel proprio darsi sia come oggetto di
aggressione che come atto di resistenza. Esso si erge in una implicita
sfida alla violenza perpetuata dal regime incarnando su di sé nell’atto dell’ auto-mutilazione il duplice
ruolo di vittima e di aggressore.
“Entrevidas”, 1981-2010 (Between
lives)
(Trittico
fotografico tratto dalla performance de 1981)
La strada è disseminata di centinaia di uova, difficile da percorrere a piedi nudi sul cemento. I piedi avanzano lentamente, si muovono su un campo minato. La distesa è d’asfalto, il suolo è lastricato, grigio, improntato di segni dei piedi nudi che camminano, avanzano tra i nuclei bianchi o le piccole forme sferiche più tardi riconoscibili in primo piano come uova. Un percorso a ostacoli: le gambe sono viste avanzare a fatica tutelando i propri passi, camminano su un terreno minato dove gli oggetti appaiono sul punto di esplodere, rompersi, saltare in aria da un momento all’altro. Si allude chiaramente alla minaccia subita in una situazione di repressione politica e al senso diffuso di pericolo immanente quanto non localizzabile come se uno sguardo dall’alto, invisibile e onnipresente fosse là a incarnare il volto più subdolo e repressivo del potere. Tuttavia, nella performance, l’effetto visivo del bianco nella costellazione dei punti disseminati sulla superficie di cemento rompe il grigiore atono e incolore imposto dalla monotonia della scena creando aloni luminosi malgrado tutto, tracce depositarie di vita o di possibili nuove ri-generazioni, ciò che politicamente darebbe vita a ipotizzabili rivolgimenti in un distante ma non troppo lontano a-venire. I punti bianchi infrangono visivamente la distesa piatta di cemento estendendosi in prospettiva oltre il limite del nostro sguardo per dare adito e canalizzare un’ altra primordiale energia o forza creatrice.
I piedi marcano il territorio al passaggio, stranamente qui l’aspetto inalterabile del cemento si imprime di impronte oscuranti allo stesso modo in cui un percorso esistenziale resta marcato o inciso dai segni e le tracce di un'esperienza. Si avanza attraverso quei campi minati fino a farli divenire campi di giocoleria danzando su ostacoli virtualmente pronti a esplodere fino a renderli palline o sfere luminose di impensata possibilità, d'altra nuova creatività per assurdo ritrovata.
Anna Mendieta , “Volcano Series 2”
(1979-99)
L’esilio forzato
negli Stati Uniti e la consapevolezza di “non-appartenere” si contrappongono nel
lavoro dell’artista messicana Anna Mendieta al
bisogno di trovare nuovo radicamento spirituale, forse di inventarsi
una nuova identità multiculturale e, insieme, di colmare quella perenne
frattura. La terra ritorna e costantemente appare nei lavori performativi della
Mendieta come primaria e viscerale forma di appartenenza o innato ritorno
all’originario: sublime fusionalità con la totalità del vivente, con la natura
intesa come forza animata e partecipe d’ogni aspetto di vita nel cosmo. Il
profilo della figura inserito nel paesaggio messicano incontaminato si fonde,
mimetizza quasi con la purezza degli elementi circostanti: arbusti, cespugli,
rocce, terra granitica che sgretola all’irrompere delle fiamme e nuvole di fumo
viste in primo piano sul paesaggio retrostante. La terra è
femminile come il corpo dell’artista e la sua energia si vuole per Mendieta creatrice
e feconda. Il fuoco emerge nell’eruzione vulcanica come una potenza esplosiva e
primaria, visto nella sua duplicità di forza generatrice e distruttrice .
Il profilo del corpo_ sagoma svuotata dell’io e aurea irradiante che emana dalla
sua volatile presenza_ diviene un tutt’uno, si pone quasi in unione
complementare con la terra percepita sia come luogo di nascita che di
sepoltura.
Il cratere
infuocato appare in tre momenti successivi: la figura arde nel fuoco ritornando
alla terra e al suo stadio fusionale primo, in seguito la presenza divorante,
la forza vulcanica incontenibile e distruttrice del fuoco si impone, infine
l’aurea luminosa del corpo svapora e resta il contorno nero e svuotato nel suo
esterno involucro. Il cratere vuoto della terra è culla volta a tomba: ciò
che generato dalla terra, arde nel suo fuoco e poi consumandosi si distrugge
per ritornare al ciclo primario di natura.
Anima “Firework Piece” 1976
Come in un
rituale sacrale, la “silueta” simulacro e corpo-profilo dell’artista si accende, inizia ad ardere
lentamente, intensamente nell’oscurità, diviene una fiammata divampante,
incessante che appare consumarsi poco a poco nel buio della notte. “Fuochi
d’artificio” come Mendieta li definisce accesi nel paesaggio desolante e desertico
della regione messicana lasciano residui di polvere e fumo dissolvendo in aria,
poi disperdono nella terra per re immergersi e fondere con la natura
circostante. L’intera immagine-simulacro brucia, arde e si consuma nel corso d’una
notte fino a apparire come una piccola fiammella vista a distanza tra le
montagne blu, i paesaggi indaco mossi dal vento e le piane messicane
aride e brulle. La combustione è vista come fuoco rituale, il profilo brucia lungo tutto il suo contorno in una
fiamma viva per ricongiungersi al ciclo cosmico di vita-morte mentre solo
l’ossatura dei supporti esterni resta dopo la combustione; all'orizzonte un piccolo baluardo che
affievolisce nel paesaggio desertico in lontananza.
Amalia Pica
La
comunicazione attraverso la rete globale supportata dai continui avanzamenti tecnologici si presenta oggi come sempre più ambigua, volatile, simulata anziché reale afferma Amalia Pica attraverso
le sue installazioni; insieme esasperata e svuotata, appare espansa all’ennesima
potenza nel suo uso e abuso senza tuttavia portare a effettivi scambi
intellettuali e umani; infine è soggetta a frequenti deformazioni mediatiche, a manipolazioni o a letture spesso parziali o contraddittorie. In molti casi i canali del linguaggio risultano ostruiti
o interrotti, oppure, ancora, il messaggio non giunge a destinazione pur attraversando
il canale perché resta mal-compreso, mal-interpretato, erroneo nella forma se non nel contenuto o
inviato all’errato ricevente. Come sotto-intende il lavoro performativo di
Amalia Pica l’ ipertrofia di comunicazione nelle nostre società attuali,
l’esasperazione quasi nello scambio di messaggi digitali o telefonici, di
informazioni, immagini e notizie in tempo reale spesso nasconde, nell’altra
faccia della sua medaglia, l’assenza di una reale o effettiva comunicazione. Come
l’immagine è espansa all’ennesima potenza, così la notizia, l’informazione o il
messaggio diviene rapido, svuotato, moltiplicato e quasi volatilizzato
rispetto al suo effettivo contenuto per rendersi pura connessione o link ad
altre interfacce multimediali. L’artista d’origine argentina stabilitasi a Londra sperimenta nella commistione costante di stili e linguaggi
passando in maniera versatile dal
disegno alla fotografia, all’installazione nel tentativo di aprire dialoghi possibili
o virtuali reti di interazione sociale basati sul linguaggio in una società
schiacciata da una compulsione all’informazione che diviene nel suo polo opposto assenza
di un sostanziale dialogo.
L’installazione
“The Wireless Way in Low Visibility” (2003) riprende in un omaggio a Marconi un
palloncino bianco gonfiato ad elio, connesso a un filo dorato e a una bobina di
carico quale primo sistema sperimentale di trasmissione senza fili. Il sistema
restò all’epoca un semplice esperimento e il palloncino finì un giorno per volare in aria
con la leggerezza di un aquilone staccandosi dal suolo per ritrovarsi libero in
alto nell’atmosfera. Il pallone ad elio riproposto da Pica appare, oggi, come
anticipatore di tutte le connessioni senza fili rese possibili dalle nostre reti "wireless" nel mondo intero, ma, anche, allude a ogni forma di comunicazione
sensibile, sottile, vibrazionale o per affinità di intenti e di intelletti capace di creare connessioni travalicando i limiti spazio-temporali della nostra più
concreta esistenza. Resta, infine, un omaggio
al gioco dell’infanzia e al suo modo di lasciare libero spazio alle ali della
fantasia, dell’immaginazione o di un’esperienza che unisce per sentire comune nella metafora del gioco, del volo, della migrazione o della fuga verso l’alto, sia essa d’una piccola bolla
di sapone o d’un immenso pallone aerostatico.
L’installazione
“Switchboard”, (2011-12) ugualmente, recupera una passata invenzione comunicativa, un
centralino utilizzato all’inizio del secolo e si ripresenta come uno spazio
performativo ironico e giocoso creato da due pareti fittizie bucherellate, da barattoli
in latta di riciclo e fili che li collegano in maniera casuale dall’uno all’altro lato insieme a onde sonore che si creano nel
passaggio. Nel reticolo i fili si moltiplicano o si perdono allo sguardo
rendendo difficile o impossibile capire quali siano i punti emettenti effettivamente
collegati tra loro mentre i buchi vuoti sulle pareti forate in esterno fanno
pensare a una dispersione di suono, a effetti voluti di ambiguità nel
consegnare o perdere un messaggio. L’interno dello spazio si presenta, tuttavia, come un corridoio sonoro, una camera acustica e di espansione dei suoni, un centralino aleatorio dove alcune estremità sono collegate casualmente al altre
seguendo il percorso intricato di fili che ora si confondono ora si connettono per portare o meno il messaggio a destinazione.
Il dialogo, dunque, in questo gioco è lasciato alla connessione aleatoria delle parti ma, anche, a inaspettate interruzioni o interferenze che possono intercorrere lungo il tragitto; il messaggio può giungere o meno a destinazione, essere recapitato a un interlocutore differente oppure arrivare cifrato o indecifrabile al ricevente. Tutto è affidato a questo reticolo di fili nell'ambiguità del caso o del momento.
Il dialogo, dunque, in questo gioco è lasciato alla connessione aleatoria delle parti ma, anche, a inaspettate interruzioni o interferenze che possono intercorrere lungo il tragitto; il messaggio può giungere o meno a destinazione, essere recapitato a un interlocutore differente oppure arrivare cifrato o indecifrabile al ricevente. Tutto è affidato a questo reticolo di fili nell'ambiguità del caso o del momento.
Nell’azione
performativa “On education” (2008) l’artista ridipingeva la statua equestre della
città di Montevideo in vernice bianca facendo coincidere una credenza popolare latino-americana sul colore dei cavalli di tanti condottieri eroici con la realtà generata dalla sua azione pittorica. Si trattava, ancora
una volta, d’un modo ironico per ribaltare un luogo comune volgendo uno stereotipo del
linguaggio in una nuova o seconda verità. Nel
video girato in occasione della performance la statua equestre in pietra scolpita è presa a colpi
di pennellate, di spatola, ricoperta per gettiti di vernice bianca come se sprazzi di
nuova vita, di nuovo colore fossero gettati sul modello scolpito fino a infondervi linfa vitale . Pica versa
quella mano di vernice sulla statua parlando di “istruzione” quasi volesse formulare un pensiero partendo da un posizionamento critico: versare una distesa di bianco è già rinnovare , semplicemente rendere visibile un 'altra idea di trasmissione o meglio formazione dell'individuo “not to impose but to speak the way I think and feel”.
E’ un realismo impregnato di morte, della risonanza e dell’idea di sparizione nell'interfaccia tra memoria e oblio quello che si rivela attraverso il grande affresco murale o collage di volti creato dalla messicana Margolles appositamente per l’esposizione. Il lavoro è ispirato all’uccisione di tante giovani donne nel
Volti
inumani di giovani donne, ragazze o “poco più che bambine” riemergono sulla
parete. Giovani attraenti e piene di vita, di bellezza ancora ma slavate dal
passaggio del tempo e dall'oblio nella loro già parziale cancellazione come veri ritratti. I volti appaiono ricoperti da un alone
di silenzio e di morte, in parte staccati o rigati, soggetti a un progressivo processo di dileguamento e, insieme, fissati nella sospensione violenta di un istante, l'istante anche della fotografia: implicito riscatto della vita sottratta e fissata in un'illusione d'eternità nella sua interfaccia costante alla morte come l'inesorabile consumarsi del tempo e del ricordo . Allo stesso modo che nelle serigrafie
di Warhol tali ritratti sono visti in una ripetizione seriale che li consegna a
poco a poco all’oblio dell’inevitabile loro cancellazione. Giungono a noi, tuttavia, immensi sulla parete della galleria dal fondo del loro grido, silenzioso, immanente, stranamente inumano, quasi l’artista abbia voluto dare una voce a questi volti per rompere il silenzio entro il quale erano rimasti troppo a lungo imprigionati: intrappolati nell'istante di sospensione delle loro vite violentemente spezzate.
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