venerdì 31 maggio 2013

"Autoritratti" ( I parte), iscrizioni al femminile nell'arte italiana contemporanea " ( al Mambo di Bologna, maggio-settembre 2013)





                                       


 







“Autoritratti” è un progetto collettivo nato alla galleria d’arte moderna di Bologna dalla collaborazione di 42 artiste e diverse curatrici per presentare una ricognizione, uno spaccato del rapporto tra donne e arte in Italia negli ultimi decenni. Una molteplicità di posizioni e di pratiche artistiche, attraverso diverse tematiche e le più svariate modalità espressive- pittura, video, installazione, fotografia- percorrono strade proprie per iscrivere la differenza significante di un’arte, d’ una modalità del fare artistico che parta da un punto di vista specificatamente femminile. Centrale resta il tema della ricerca o della definizione d’un identità personale e di genere soprattutto in relazione alle modalità sociali o estetiche esistenti, implicito nella scelta del titolo "autoritratti” articolato attraverso una serie di proposizioni multiple, individuali, diversissime tra loro.
Autoritratto è immagine del sé, immagine pensata o interrogata a partire da un punto di vista interno al femminile che implicitamente rovescia, decostruisce o ironicamente deride una serie di proiezioni, stereotipi o posizioni che oggettivano il soggetto “donna” a partire da un punto di vista a lui estraneo, sia essa la veste ideologica che lo comprime dentro il rituale sociale o lo sguardo oggettivante, maschilista, repressivo e dominante della rappresentazione storicamente in atto. La diversità delle pratiche artistiche qui presentate è riconducibile dunque al progetto comune di trovare una propria visibilità identitaria e artistica attraverso una modalità differenziale del fare arte espressa da artiste donne, capace di esercitare un impatto sulle forme e le estetiche dominanti negli ultimi decenni. L’esperienza corporea, la centralità d’un sé corporeo e performativo diventerà sempre più centrale in queste proposizioni come spazio di visibilità o di interrogazione del sé , implicito luogo d’auto-coscienza o forse solo di indagine e di sconfinamento sulle possibilità e i limiti della soggettività femminile.



Maria Antonietta Trasforini, “La bella indifferenza”, Indagine sull’isteria (1980)

Nella sua personalissima indagine sull’isteria al femminile alla fine del xix secolo Trasforini partendo da ricerche svolte sugli scritti di Charcot e da una serie di immagini della raccolta documentaria di pazienti donne alla Salpetrière verso il 1870, “Iconographie Photographique, approda alla proiezione video d’una serie di autoritratti di donne, accompagnati da pagine manoscritte di riflessioni, riferimenti intertestuali, note a metà cancellate d’un abbozzo di saggio mai terminato che non potendo fare a meno di perdersi, interrompersi, derivare, smarrire il filo del proprio pensiero, ci riporta direttamente all’immagine fotografica come vero luogo  di interrogazione e di sua ricerca identitaria del femminile. L’immagine è qui investita d’una violenza figurale che ne lacera la forma, nel gioco di forze conflittuali implicitamente iscritto in questi corpi della patologia giocati tra rimozione e desiderio.

Tali ritratti di volti e corpi colti in attacchi isterici, epilettici o altro si impongono nella loro opacità di figure in tuniche ospedaliere e vesti discinte, nel pieno dell’attacco con volti rapiti, con capelli disfatti, scomposti, sguardi estatici, attitudine estetiche naturali, perfino mistiche a volte di trasfigurazione o rapimento visibili sui loro volti; poi in altri ritratti nella rigidità dell’abito, della posa, della postura imposta al soggetto femminile alla fine del xix secolo, nella chiusura reale e metaforica di baveri, vesti, colletti, nell’aggiunta di cuffiette e trine, o ancora nella posa catartica del momento estatico come uscita da sé qui provocata dall’esubero di cariche psichiche inconsce.
L’artista considera tale esperienza in margine per quel legame primario, indissolubile che il corpo- parola stabilisce con l’inconscio, il corpo visto come luogo di sofferenza e di rivolta generando nell’esperienza in maniera sintomatica un’iscrizione differenziale del femminile, un’incisione identitaria rivoluzionaria per la fine del xix secolo.

Il corpo isterico è già di per sé nei suoi gesti e pose “teatro d’un corpo vivente”, azione voluta o incoscientemente indotta che provoca o muove azioni altrui, “rimozione non riuscita che sfugge al controllo dell’io ritornando sotto forma di sintomo, ricordo doloroso che non riesce a oltrepassare il muro della coscienza, parola agita che ricorre alla complicità di spettatori-attori-reattori”. Tali fotografie nate dalla necessità di descrivere la malattia, di classificarla o astrarne una casistica documentaria per ragioni mediche stabiliscono inevitabilmente un legame con uno sguardo artistico gettato sulle medesime perché questi volti, questi modi di figurare liberando la soggettività femminile, ne anticipano in qualche modo, se pur paradossalmente, alcune rappresentazioni della modernità; portano in sé, implicitamente, una “vocazione espressiva o teatrale”, nell’estremo sintomatico in cui si realizzano. Rivelano gesti o volti altamente espressivi drammatizzando al massimo grado una casistica che normalmente rientrerebbe nella norma espressiva del quotidiano. Nelle fotografie sono gesti o volti di donne alla Salpetrière alla fine del xix secolo, riprese in abiti lunghi e austeri conformi alla norma dell’epoca eppure nel contrasto di sguardi fieri, assolutamente rapiti, estatici, passionali, in altri frangenti vuoti, assenti a loro stessi. Un senso di pudore, una distanza voluta s’ interpone tra l’atto fotografico e i volti di queste donne come per sottrarle a un voyerismo gratuito degli spettatori. Appaiono in una estrema drammatizzazione seppure non voluta di volti e pose indotte dal momento sintomatico, in una innata, enfatica espressività dei volto, quanto, allo stesso modo, nel pieno di crisi letargiche in una intensa vacuità, assenza o volatizzazione del loro spirito come del respiro vitale nel loro essere. Involontarie protagoniste d’un “romanzo collettivo”, queste immagini si situano allo spartiacque tra rivalsa identitaria o di genere e deriva patologica della medesima nel sintomo inconscio, su questa linea di condivisione tra iscrizione significante, espressiva di gesti e pose d’un soggetto femminile fino ad allora misconosciuto o cancellato e, dall’altra, nell’esasperazione enfatica di pulsioni rimosse o fissazioni psichiche inconsce ritornando dispoticamente in forma patologica.



Anna Valeria Borsari, “Autoritratto in una stanza”

“Sono entrata in quella stanza per eseguire il mio ritratto. Ho portato con me una videocamera, una macchina fotografica con cui documentare la ricerca, una matita per un progetto di lavoro, terra umida del volume del mio corpo con cui riprodurlo.”

“Ho cercato di studiare dall’esterno il mio corpo”; nella serie fotografica compaiono impronte di mani, un ritratto di sé attraverso le medesime disegnato a matita su carta. “Ho cercato di misurarmi con la stanza”; l’iscrizione dell’anatomia della corpo dentro una circonferenza disegna la figura umana nello spazio sul modello dell’uomo vitruviano di Leonardo. “Ho cercato di studiare l’interno della mia stanza”; vediamo nella foto un angolo di muro, un cornicione arrestato contro la parete chiudendo lo spazio nella piega ortogonale della sua estremità in angolo. Nell’immagine seguente la terra è deposta a mucchio su una tela, poi scavata in un impronta fittizia del corpo, l’impronta del sé, autoritratto come scavo, traccia che insieme delinea e svuota l’interno d’una presunta figura. “Prima di uscire ho atteso che la terra si asciugasse poiché si trovava sul pavimento”. Dal contorno esterno del corpo, l’attenzione è portata dentro la stanza, poi sul sé nello spazio in relazione all’esterno. La necessità di vedere e d’essere visti a conferma del proprio esserci, il desiderio di trovare uno statuto del sé, identità e completezza all’esterno, nel mondo attraverso tracce, segni che si possono lasciare, “supera l’istinto di morte o quello regressivo” generando l’evidenza creativa d’un tracciato video, qui fissato in immagini fotografiche attraverso una serie d’azioni performative. L’autoritratto non è dunque solo pensato come affermazione individuale, l’imposizione d’un proprio stile, il soggettivarsi d’un interiorità all’esterno ma, in primo luogo, uno “scolpire sé stessi in relazione allo spazio in cui si è inclusi” nella necessità di mantenere in vita un rapporto di interazione o continuità con l’altro dentro una implicita connettività. E’ un partire da sé, dalla posizione del sé per arrivare a uno stare-nel-mondo attraverso questa serie di passaggi performativi delineati in immagini cercando di giungere o di ricongiungersi agli esseri, alle cose anziché volerle riportare a noi, volerle dominare nel modo più individuale possibile; è un agire a partire da questa doppia consapevolezza dell’esserci e dell’essere per il mondo.




Valentina Berardinone, “A Flying attitude”


Tessuti colorati sospesi in aria, appesi a un filo di canne di bambù, fotografie e disegni appesi a spilli su un muro simili a schizzi scenografici, frasi scritte a matita, annotazioni appena leggibili, una poesia della Dickinson trascritta sulla parete: “desiderio di fuga, un pulsare interno del sangue alle vene, improvvisa attesa, disposizione al volo”.

Acrilico su tela grezza, arancio, blu, indaco, bianco, sospesa a un filo di bambù.
Il vento si leva attraverso la finestra, lo spirito si sospende attraverso il tessuto; "tutto è dentro, dal labirinto non esci" affermano le parole. Dal mondo chiuso della stanza corri verso un passaggio mai percorso prima, “dal labirinto all’aperto più lontano esci oltre le frontiere del giardino”.
Poca luce nell’improvvisa attesa, la parola fuga è già lontana, quasi un’ombra senza più saper nulla delle direzioni, dove il centro.
Premonizione d’un futuro già vissuto, anteriore, precorso e come già esperito nella sospensione del presente, nell’incertezza di un vago “a-venire”, è attitudine al volo.





Goldi e Chiari, "Autoritratto"


Piantate in un bosco, con i piedi insabbiati nella terra, piantate dentro la loro storia, vestite identicamente in nero eppure diverse nei tratti, nei lineamenti e nelle parvenze, sprofondano fino a metà caviglia in mezzo a quella radura boschiva sottraendosi al nostro sguardo. Due figure femminili, gli occhi chiusi, due doppi simili e opposti.
Viste in questa distorsione voluta del viso, nel loro ritrarsi dalla telecamera, nella duplicità d’un sé espanso, biforcato in due figure speculari e divergenti eppure ricondotte qui a un’unica radice d’arresto dentro il fondo boschivo, lì piantate a fissare la terra. Piedi bloccati, sguardo abbassato che sfugge il nostro, identiche eppure opposte nell’immobilità apparente, nella posa schiva del loro definirsi in assenza, mostrarsi sottraendosi.



Maria Lai, “legarsi alla montagna”, 1981

Nastri disposti lungo le facciate, attraverso le strade, l’azzurro richiama il raggio celeste, simbolo di salvezza per intervento divino secondo la leggenda tramandata nel paesino sardo d’una bambina salvata da questa folgore bluastra attraversando il cielo per impedirle di restare schiacciata sotto una grotta in disgregazione. In una sorta di performance collettiva una tela blu di tessuto viene ritagliata in una linea di fili tesi e sospesi, tirati, intessuti fra le cose per legare porta a porta, finestra a finestra, persona a persona in modo diverso secondo che sia conflitto o amicizia, astio, amore o indifferenza in un giorno prestabilito, nel luogo prescelto per il rito collettivo. L’idea del tendere questo filo continuo attraverso le strade, i vicoli, i sentieri, tra le facciate strettamente connesse le une alle altre, misere o fastose, vecchie o nuove, per le strade fino in cima allo strapiombo roccioso della montagna intendeva dare vita a un rito unificante, comunitario, solidare del tendere un filo collettivo capace di riannodare il legame tra persona e persona, spazio e mondo, individualità e alterità contro un chiudersi alla propria dimora, contro un sollevare barriere di separazione o separatezza gerarchica o di potere. Il territorio reale diviene allora uno spazio simbolico attraversato da questa infinità di fili e contro-fili tesi in una virtuale connettività di tutti al tutto per una volta immaginata come evento politico, democratico, partecipativo reso possibile dall’atto performativo.


In “racconti del lenzuolo” ugualmente, una tela intessuta, riempita di fili e ricucita a riquadri di stoffa è esposta nella grande parete di fondo della galleria; nel suo indecifrabile ordito materico riquadri come lettere o pagine manoscritte si suggeguono l’una dopo all’altra, riempite di segni nella simulazione di questo libro-autoritratto. Lettere indecifrabili sul tessuto-lenzuolo iscrivono le trame della sua più intima esistenza nell’ evidenza d’un oscurante traccia materica. Lenzuolo-ordito, lettere a-significanti nel luogo di passaggio verso una resa plastica, di segni dalla densità opaca investiti della forza della loro più autentica esistenza.

Ancora è un cucirsi addosso un colletto, sulla pelle con un ago nella performance filmata di Silvia Giambrone, dove si sperimenta la violenza dell’atto direttamente sullo spazio-teatro del corpo,
il medesimo divenendo vero e proprio “teatrino anatomico” al centro della performance.
L’atto è perpetuato con freddezza, con distacco, in maniera programmatica e senza intromissione emotiva possibile. Il contrasto è evidente tra la tessitura lieve del pizzo-merletto bianco e l’ago in metallo acuminato visto infiltrarsi, avvicinarsi freddamente alla pelle lasciando nel passaggio una cicatrice rossastra. La performer guardandosi allo specchio, si scioglie i capelli poi senza alcun commento, lentamente riallacciandosi la camicia osserva la linea della marcatura a fuoco disegnata sul collo. Il collare in merletto resta cucito in quel punto a fuoco sul corpo come metafora, segno visivo lì inciso e rimasto, sia esso lascito d’una storia, d’una educazione, d’una genealogia famigliare, d’un passaggio o passato che si è lì marcato addosso, cucito a fuoco sulla sua pelle.





In un’altra serie visiva merletto nero ricopre il volto di più figure immortalate in foto d’album di matrimonio, in bianco e nero, il giorno della celebrazione dell’evento. Il montaggio rivolta e denuncia, resiste lo stereotipo dell’immagine femminile oggettivata nella rigidità delle posa, nell’apparenza immacolata dell’abito, nella bianchezza atona del gruppo, nella perfezione formale nella foto di famiglia. Aggiunge ad essa in montaggio fotografico lo stridore contrastante d’una nera trina che copre i volti di queste figure come per occultarne i tratti, la loro vera identità . Quasi si volesse ironicamente decostruire un’immagine femminile investita di proiezioni identitarie oggettivanti provenienti dal discorso sociale o fissate da un punto di vista estraneo che reprime e limita il loro vero essere.





Grazia Varisco, “Bianca e volta” 1983


E’ alluminio bianco dipinto ripiegato su alcuni margini come la piega delle pagine di libri che in una riproduzione tipografica mal riuscita risultano ritagliate sui bordi; la piega dell’ eccedenza sui confini del formato pagina, la piega del caso, dell’incidenza “che non prevista accade”, dell’esistenza che si rivolge, si ripiega su sé stessa come su una pagina bianca o sul supporto d’una nuda parete. Diviene in questa installazione come afferma l’artista: “ il sé irriducibile, irrinunciabile del dubbio o della probabilità che in arte pratico quasi inconsciamente ma che poi riconosco”.

Se la pagina bianca è per Varisco un microcosmo ordinato, chiuso, finito, un “tutto uguale, normale, ortogonale”, il mondo è di fatto un labirinto o groviglio irriducibile per quella parte di caos o d’accidente che d’ esso si misconosce, s’occulta o si nega. L’opera, dunque, diviene ennesimo pretesto per “verificare l’interferenza tra caso e programma, di quella parte di casualità che non essendo ipotizzabile non ha nome”. Quel quid impossibile a prevedere che agendo su tempi e spazi differiti “galleggia, vaga e si sposta e poi ricompare in ogni presenza”. L’opera dunque è questo gioco nato da “un niente che non deve capitare ma che a volte si trova tra le pagine proprio come uno scarto, un balzo, un brusco divergere dalla norma”. E’ forse l’evento dell’insinuarsi di quell’eccezione che fa si che il sistema sia, oppure la semplice presa in conto di tale bordo del pensiero come avvenimento dell’esistere.

Margherita Morgantin, allo stesso modo, nella sua sequenza visiva di numeri primi immagina un papiro infinito di carta stampata espandendosi verso l’alto simile a rullo che si dispiega illimitato verso il soffitto e oltre stampato da una sequenza visiva di numeri primi, non divisibili, non ripetibili, figurati come minuscoli quadretti rossi combinati insieme. Nel suo grafico di visibilità cosmica punti, singole monadi si attirano, si ricompongono dalla più piccole unità in forme sempre più complesse. Il suo universo matematico è misurabile nei suoi elementi ma irriducibile nelle possibilità combinatorie che da essi scaturiscono.









Nessun commento:

Posta un commento