sabato 15 dicembre 2012

A proposito di "Psicosi delle 4 e 48" di Sara Kane, ( messo in scena da Nerval Teatro contemporaneo, Ravenna)














La messa in scena è minimalista, volutamente lasciata all’immersione nella più totale oscurità dello spazio scenico, una stanza, una sedia, finestre e porte oscurate, la figura, sola nella più assoluta sobrietà di pantaloni e maglione scuro, semi-immobile, irriflessa nel cerchio di luce pallido, visibile appena a rischiararla. Un corpo femminile solo su una sedia persegue un monologo fatto di frasi spezzate, di ripetizioni seriali, di frammenti violentemente, angosciosamente gettati fuori in un raccontarsi al limite di sé, del proprio stato d’urgenza, di disperazione e scivolamento patologico verso la soglia d’una morte annunciata, auto-imposta e auto-agita. E’ la forza della parola che si impone , nuda, assoluta, isolata e brutale sulla pagina come nella voce di Elisa Pol, in questa versione di “Psicosi delle 4 e 48” di Sara Kane restituita in una sorta di neutralità asettica, distaccata, depersonalizzante (“un attimo di chiarezza prima della notte eterna”) nel portare alla luce il decorso d’una malattia, giorno dopo giorno, ora dopo ora sondandone vertigini di lucidità, in altri momenti l’esplodere improvviso d’una rabbia disperante, ora l’apertura estatica alla totalità di un desiderio irrealizzabile poi la strettoia agonizzante del cammino a un passo dalla morte.

Stati di sofferenza patologica emergono nel “frammentarsi progressivo della mente” del personaggio attraverso il monologo; una mente irriconoscibile a sé stessa, senza forma, preda di questa vertigine deraglia in continuazione, una mente come “diecimila scarafaggi su un suolo” quando un raggio di luce vi entra a rivelare, fare chiarezza su una verità che pochi osano avvicinare.
“Una coscienza antica abita dentro una buia sala da banchetto accanto al soffitto d’una mente il cui pavimento si muove come diecimila scarafaggi quando entra un raggio di luce non appena tutti i pensieri riuniscono in un attimo di accordo un corpo che non espelle più nulla, gli scarafaggi comprendono una verità che nessuno osa nominare”.

 Vive la perdita del sé, la fessura, lo scivolamento verso un territorio-limite oltre i confini dell’io dove la parola scivola, dilaga, dialoga con un sé irriconoscibile, inconciliabile con diversi altri sé, (“ questa follia che mi divora, marionetta in pezzi, ridicola, folle contro la “realtà”); entra in questa frammentazione del linguaggio perdendo la nozione, i confini del proprio corpo, dove inizia, dove finisce sé stesso, gli altri, il mondo, la distanza reale tra la sua vita e la sua morte. Evoca la sofferenza dello “scrivere per i morti, per i non-nati”, questa sofferenza del morire di un non-ritorno a uno stato primario d’amore assoluto, ineguagliabile, inesistente come “ amare una persona che non esiste, sentire la mancanza di quella lei che non ho mai sfiorato, che non è mai nata, nata per essere sola, per amare chi non c’è” e, dunque, contro quell’impossibilità di sanare un vuoto ineguagliabile la carcassa estranea del suo corpo: “ nata in un corpo sbagliato, in un’era sbagliata”.

“Un’eclissi d’argento che cambierebbe il mondo” si oppone all’eterna distruzione nella quale ripiomba il personaggio come un vedere “ora neve ora nera disperazione”, mentre il corpo si scompone, cade a pezzi, scompensa, scompare in “quest’acqua nera, profonda come sempre, fredda come il cielo”. Se la lucidità si affaccia di tanto in tanto come il bisogno vitale d’essere amata è poi lo scomparire, il rapimento e la rottura d’una psiche che conduce inevitabilmente alla sua auto-distruzione a prendere il sopravvento nelle ultime parole del testo, questo “scomparire e lasciarsi guardare scomparire”. Li’ è la fine della piè-ce, la morte annunciata.



 










La forza della parola, del testo scritto è lasciata al massimo grado di impersonalità nella voce attoriale di Nerval Teatro; segue il disordine mentale del personaggio, la cronaca dei suoi sintomi psicotici, poi lasciandosi trasportare in momenti di verità illuminante, estatica, di superamento e espansione illimitata del sé alla ricerca di un assoluto di amore, di salvezza, infine ancora ripiombando dentro l’oscurarsi agonizzante della malattia a ridosso della morte. La forza della parola emerge, dunque, qui unica dall’oscurità immersiva e contro l’immobilità agonizzante del corpo visto immobile in pochi cambiamenti di stato su scena. Il volto solo appare semi-visibile, rischiarato entro un circolo di luce come maschera lapidare, sovrapposizione di strati di pelle per questo volto-maschera che si rivela “dall’interno della psiche”, contro l’oscurità più totale dell’esterno: “volto mai conosciuto, impresso sul rovescio della mia mente”, disegnato da un riflesso di luce marmorea e ugualmente ricoperto da un tessuto di maglia all’apice distruttivo del monologo.

Costantemente su questa linea di demarcazione infranta, su questa crepa sottile tracciata e percorsa tra il cosciente e l’inconscio, il corpo seduto freddamente si racconta, con distacco prima, con neutralità totale, poi allungato sulla sedia agonizzante, ora in piedi nell’urlo, nel grido estatico e disperante insieme, ora ricentrato sul volto coperto e illuminato come maschera granitica, infine, ripiegato su sé stesso assistendo al suo scomparire, spegnersi e poi guardarsi morire insieme alle sue parole .



Siamo dentro la mente, dentro l’universo psicotico del personaggio che diventa l’universo della scena, il nero d’una scena vuota da cui solo una voce emerge, si solleva, si racconta, grida, tace e riprende a tratti, per parti disconnesse, per meteore di parole gettate violentemente fuori infrangendosi feroci, libere nello spazio, a tratti violentemente oscene, graffianti, rabbiose contro il male, contro lo sguardo del mondo come “il fantasma maligno della morale comune”; parole dolorose, a ripetizione simile a lamento sul cammino che conduce inevitabilmente verso la fine, la sua fine.

E’ un universo in cui non esistono più confini, barriere nette tra sé stesso e l’altro, la soggettività e l’esterno d’una realtà oggettiva dove il corpo e la mente sarebbero una cosa sola ; per questo il monologo si frammenta in un dialogo di sdoppiamento tra vittima e carnefice, inquisitore e inquisito divenendo indagine sottile, grido ultimo dal fondo di un non-io, sonda fatta discendere nella “la polvere dei suoi pensieri” attraverso la malattia che cresce nelle “pieghe della sua mente”.








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