
L’immagine visiva può essere pensata come “un punto su una linea[1]”, ciò che produce diffrazione, rottura, “apparizione” nel presente di un evento, qualcosa che sopraggiunge e si sovrappone al corso storico dell’iconografia classica e ne interrompe il tratto, ne dissolve il contorno per dare adito a nuova emergenza nella piega, nel risvolto interno che s’apre tra percezione o reminiscenza individuale e memoria storica o figurativa, tra un segno in divenire e l’iconografia originaria, fondante della nostra tradizione pittorica sedimentata da secoli. L’apparire dell’immagine digitale, il presente del suo evento produce l’“effetto anacronistico”[2]di un’epoca su un’altra, di un presente che percorre a ritroso quell’ordine storico e vi si sovrappone, vi si stratifica in senso atemporale, quasi in un contro-tempo che traversa e si impone al tempo cronologico della storia ma vive nell’attualità di qualcosa che ancora si ripete, si rinnova e ritorna dal passato al presente differentemente.
L’immagine visiva generata dall’intreccio di due temporalità eterogenee vive anche nel carattere psichico di tale emergenza: è “immagine-sintomo”[3] che irrompe sulla superficie della pittura, del ritratto o della rappresentazione e, giacendo in latenza, si ripete nell’insorgenza d’una nuova immagine- è l’elemento latente per sua natura psichica che si ripresenta nella memoria storica e individuale. Perché, là dove l’unità figurativa nella storia della rappresentazione occidentale appare infranta e frantumata in un caleidoscopio di segni e immagini sfaccettate e sovrapposte, contraddittorie e coesistenti una nuova visione sorge dove si incrociano il tempo cronologico passato, gli strati di memoria involontaria, l’attualità del presente, la latenza d’un inconscio desiderante, i salti nel tempo e l’eco dell’origine. Operazione di montaggio, dunque, intrinseco e inconsapevole nella sintesi d’una nuova visione : dissociazione preliminare di elementi della pittura originale ricondotti a precisi significanti, coesistenza del segno antico e di quello contemporaneo, sovrapposizione o sostituzione dell’uno all’altro, infine l’intersecarsi degli elementi figurativi e simbolici attraverso la rielaborazione digitale delle immagini.


L’avarizia (da “S. Michel terassant Satan” XVIII di Pierre Alexandre Tardieu, ).
Visibile la figura dell’Arcangelo in controluce alla maschera a pittura digitale su poliestere e carta. Il volto coperto da banconote d’oro e ocra, rilucente d’usura, usurate d’uso, le ali del S. Michele imponenti e intempestive, la spada brandita con la mano destra sovrastano e schiacciano satana divenuto abbozzo informe d’un verde mercurio rilucente nell’effetto satinato del digitale. Dell’icona originale oscurata e astratta permane il precipitare guerriero, vendicatore dell’angelo, la potenza del momento, l’apparire estemporaneo del medesimo nell’atto di trafiggere, immobilizzare, atterrare il dragone, il piede sinistro possente sul petto di lui. L’icona sacra proiettata sul fondo svuotato della maschera astratta come profilo icastico e percuotente getta a terra, ugualmente, il demone della cupidigia, dell’avidità, del dio denaro luccicante in banconote d’oro e di dollari dispiegati. Appare a sua volta sovrastato da insetti personificati in nugoli violacei che evocano sintomatici il segno epidermico del male diffuso sulla terra ma, anche, la bassezza della loro natura ridotta a un pugno mosche. La scintillante verde icona del fustigatore, del santo e della creatura alata si sovrappone riconoscibile e minacciosa nel controluce-sfondo della maschera dorata, contro il demone del potere e della cupidigia nel duplice senso di avidità di denaro e dell’avarizia come eccessivo attaccamento ad esso.
Sullo sfondo appena visibile di un pendolo battendo le ore al contrario, contro la carta da parati di banconote ingiallite dall’uso e le pareti di edifici impregnati d’una patina satura di fumi e esalazioni tossiche, l’avarizia appare come ritenzione, non dono, ritegno eccessivo del denaro, di sé o del proprio sentire, percepire attraverso la materia del mondo. Avarizia di sé, del proprio tempo, del fare dono, di ciò che si lesina da sé agli altri. E’ ritrarsi, trattenersi, ritenere anziché portare fuori: non offrire, non aprire i propri involucri chiusi, le proprie scatole ermeticamente sigillate di cuore e intelletto, trattenere anziché dare nella gratuità del dono. Ritorcere su sé, essere avari di sé all’altro, al mondo, al creato. Sotterrare talenti anziché farli crescere e moltiplicare in frutti e raccolti.
L’ira
L’arcangelo Michele in una tela del XVIII secolo con le sue bianche braccia alate nella pittura di Giacomo Zampa schiaccia la testa del demonio incarnazione del male sulla terra; l’arcangelo combattente è visto sul punto di trafiggerlo, nell’atto di dominarlo, la spada o la lancia alla mano. L’ira è maschera rosso fuoco frammista a fiamme che come vampate salgono fino a pupille cieche e brucianti di sdegno. La creatura alata è visibile, icastica, stagliata nel controluce di un verde scintillante e smeraldo sul fondo iconico della maschera neutra. Traslucidi, digitali rossi purpurei, effetti elettrici, divampanti in fiammate sul volto dagli occhi svuotati e riempiti d’ira. Ermetici elmetti militari lì disegnati figurano simbolicamente la guerra come segno d’un un riversarsi anonimo d’odio e violenza incondizionata in una coazione a ripetere, in un imporsi di meccanismi di sopraffazione e dominio per chi detiene potere, di reazione violenta e vendetta fino alla distruzione o auto-distruzione in risposta per interi popoli.
La rabbia sale come il divampare di rosse fiamme frammiste a gialli accesi, elettrici, su un manto traslucido, porpora, ora purpureo d’ira come nell’impulso rabbioso, violento e distruttivo, poi nella reazione a catena dell’odio e della vendetta. Bruciare nell’inferno della propria ira, ceduti al proprio inferno interiore figurato in teschi di morte e spettri di consapevolezza mentre l’effetto grafico della pittura digitale dissolve la linea neutrale e astratta del contorno in dissimulazione voluta del medesimo, in ritornelli e contro-ritornelli di tonalità cromatiche , nell’aprirsi di un abisso di varchi, onde e linee conflittuali.
Volto immobile, statico non
attraversato da alcun moto di fluttuazione della linea o del colore. Tale
paesaggio immobile, malinconico e disincantato incarna l’astenia del sentire,
dell’agire, l’indolenza al vivere quotidiano, l’inerzia infine come
disillusione e non volontà all’azione,
alla trasformazione dell’ individuo in una società. La maschera è
abitata da grandi occhi cerchiati, da lenti espanse che ne inquadrano la
gravità, la seriosità, l’opaca permanenza. Tonalità fredde, spente degradano in
sfumature del blu e del viola, del cobalto e dell’indaco, nel languire dei
sensi, dell’anima alla vita, della forza o del fluido vitale nell’intero
essere. Acciaio e ceruleo profondo, lo sfondo è attraversato da intagli di un
viola luminescente al riapparire dell’icona astratta dell’angelo in un tempo
immoto nello scorrere delle ore. L’icona sacra ancora una volta è vista affossare
il demone interno dell’inerzia quanto il dragone infernale visualizzato
all’esterno in questa figura in dissoluzione, soggetta a un’azione iconoclasta
per eccellenza, fatta precipitare, sprofondare nell’abisso infernale al
dissolvere delle proprie linee, del contorno del proprio volto nell’oscurità
pervasiva sottostante. Nello stesso
dipinto di Domenico Tasselli S. Michele Arcangelo è visto come giovane nobile
alato vestito d’ una tunica e mantello del cinquecento ricordando un centurione
romano, ai piedi i gambali di pelle e i sandali di cuoio nell’atto di
immobilizza la testa di Lucifero con il
piede e la spada al centro del suo petto . Nella maschera l’accidia ritorna
sullo sfondo dell’arcangelo in controluce con la freddezza spenta dell’indaco
argenteo e cinereo misurato attraverso immobili lancette nella gravità di un
tempo immoto su grandi occhi incorniciati in primo piano. Pupille d’un anonimo
sguardo come cerchi concentrici, egocentrici e logici, misurano circonferenze
ineluttabili dentro occhi incorniciati da lenti
amplificanti. Geometrismo dello sguardo, del pensiero, astenia dei
sensi, assenza di tonalità calde, solari qui evocano il ricadere su sé stessi,
l’aridità dell’abisso dove una razionalità cieca e fine a se stessa fa
precipitare. In un deserto di colori spenti in tonalità degradanti di un blu
malinconico grandi occhi inquadrati studiano, raziocinano, misurano ogni cosa
in forme finite, in quadrature geometriche, in cornici regolari e ciniche
dell’esistenza vissuta dove non c’è spazio per la luminosità calda, la vitalità
creatrice dell’esistenza.

L’invidia ha il volto anonimo, svuotato
di grandi occhi ciechi, oscurati dalla sua stessa presenza; la maschera ancora
una volta nella tonalità d’un rosso vivo fin a toccare il magenta si carica
d’un riflesso elettrico ed è vista in controluce al profilo d’acciaio sagomato
del fustigatore discendendo violentemente dall’alto con la spada in gesto
perentorio. Circondata di insetti che
erodono il contorno del suo volto e affollano la sua testa essa appare
visivamente tratteggiata da forbici nell’intaglio della linea esterna. Gli
stessi insetti ricompaiono negli occhi vuoti, oscuranti come vermi che divorano
e pietrificano il volto nell’atto del guardare. E’ la che si insinua
nell’immagine il demone dell’invidia, nello sguardo cieco e riempito di
malanimo sull’altro, nel desiderio di
possedere ciò che egli possiede, nell’atto bramoso d’un gettare il proprio
sguardo ciecamente e con cupidigia sui beni e le qualità altrui per possedere
quello che è oltre lui, riflesso e espanso fuori dalla sua portata.
Divorare e ambire in primo luogo, attraverso il vedere nell’altro, alla sete di
potere,di possesso in lui.
S. Sebastiano ( dal dipinto di Guido Reni , 1640)
Il santo, suppliziato e trafitto dai
dardi in diversi punti del corpo, stranamente appare nel dipinto di Guido Reni
in una visione estatica e sublimata della figura, nella grazia studiata che
volutamente deve emanare la bellezza fisica e morale di questo corpo
diamantato, idealmente delineandosi in
accordo ai canoni estetici classicheggianti del XVII secolo. Nitido, levigato e
bianco come marmo polito sembra passato incolume attraverso il supplizio simile
a una divinità greca, a un eroe dai canoni di bellezza classica non toccato
dalle lacerazioni sulla carne, esente dal sangue e dalle piaghe o da ogni segno
di sofferenza fisica sul corpo trafitto dalle frecce. Nella versione
contemporanea diviene bersaglio sensualmente dandosi a noi nel profilo plastico
di un corpo elastico snodato in onde ritmiche, in vibrazioni sinuose e
sottili simili a frequenze sonore, preso
di mira, infine, da frecciate colorate, trafitto a tiri al bersaglio in onde
ritmiche e irregolari.
Schiena, costato, gambe e spalle segnano i punti di crocifissione con macchie rosse slavate e sgocciolanti di colore. Il corpo qui appare sinuosamente attraversato da onde elettromagnetiche, sonore e ritmiche, quasi vibrazioni quantiche dal suo campo magnetico primo.
In successive versioni contemporanee di S. Sebastiano le frecce divengono missili e fenditure aperte sul corpo in stelle vermiglie e taglienti; sono missili inviati su un universo-corpo fluttuante come quello di un astronauta lanciato a vagare nello spazio lunare. La figura delineata e longilinea come nell’originale appare qui trafitta da missili dardeggiati sul suo costato che generano astri simili a stelle nello spazio lunare. In un’ultima versione le frecce del suppliziato sono piume leggere, da cui si è trafitti o sfiorati, lambiti o dolcemente percossi, piume che come parole divengono forme aeree e leggere, fluttuanti e sospese in aria come oggetti di scrittura per affondare, lentamente, discendere e aderire ai corpi o alla materia in tutte le sue sfaccettature; “plumes” evocando volatilità, leggerezza nel pensiero dell’essere, il togliere peso e gravità alla materia, alle cose ma anche il segno graffito, le incisioni, le impronte primordiali delle prime tracce scritte lasciate nelle grotte di Lascaux , l'origine stessa del gesto e l'atto fondante alla scrittura. Al toccare al corpo trafitto del santo le piume dardeggianti e leggere si imprimono in macchie rosse simili a pillole o capsule plastificate, a piccoli involucri sanguinanti versandosi in strascichi e filamenti di rosso colore.
Schiena, costato, gambe e spalle segnano i punti di crocifissione con macchie rosse slavate e sgocciolanti di colore. Il corpo qui appare sinuosamente attraversato da onde elettromagnetiche, sonore e ritmiche, quasi vibrazioni quantiche dal suo campo magnetico primo.
In successive versioni contemporanee di S. Sebastiano le frecce divengono missili e fenditure aperte sul corpo in stelle vermiglie e taglienti; sono missili inviati su un universo-corpo fluttuante come quello di un astronauta lanciato a vagare nello spazio lunare. La figura delineata e longilinea come nell’originale appare qui trafitta da missili dardeggiati sul suo costato che generano astri simili a stelle nello spazio lunare. In un’ultima versione le frecce del suppliziato sono piume leggere, da cui si è trafitti o sfiorati, lambiti o dolcemente percossi, piume che come parole divengono forme aeree e leggere, fluttuanti e sospese in aria come oggetti di scrittura per affondare, lentamente, discendere e aderire ai corpi o alla materia in tutte le sue sfaccettature; “plumes” evocando volatilità, leggerezza nel pensiero dell’essere, il togliere peso e gravità alla materia, alle cose ma anche il segno graffito, le incisioni, le impronte primordiali delle prime tracce scritte lasciate nelle grotte di Lascaux , l'origine stessa del gesto e l'atto fondante alla scrittura. Al toccare al corpo trafitto del santo le piume dardeggianti e leggere si imprimono in macchie rosse simili a pillole o capsule plastificate, a piccoli involucri sanguinanti versandosi in strascichi e filamenti di rosso colore.