“Distant proximity” nello strano paradosso del titolo scelto per
l’esposizione alla galleria “Centrale” d’arte contemporanea di Bruxelles è un
rapportarsi al mondo esterno “vicino e distante” secondo una misura data dallo
sguardo di ciascuno di questi artisti nei loro video, immagini o installazioni;
come nel lavoro di Lauren Moffatt, emblematicamente, una maschera-telecamera al
centro del video separa e protegge dallo sguardo intrusivo di un esterno
moltiplicato da una moltitudine di occhi tecnologici di video-sorveglianza e,
allo stesso tempo, permette d’ essere immediatamente in rapporto
all’esperienza, all’atto o al momento del vedere attraverso le forme o le
sembianze del mondo fin dentro la tessitura della sua materia. Filma
l’avvenimento d’uno sguardo portato sull’altro, in uno strano posizionamento
d’un di-dentro di-fuori tra quello si presenta, mi guarda del mondo e ciò che
d’ esso s’apre in me, mi risveglia, rimanda al mio proprio interno vedere. Il
video gioca su questa interfaccia tra il guardare e l’essere guardati
dall’esterno; una donna è filmata nell’atto schermato d’un guardare il mondo
attraverso un dispositivo che la separa, la isola dal contatto diretto agli individui
o alle cose e, insieme, le dà accesso a una strana prossimità con le medesime
data nell’esperienza percettiva d’un “sentire” attraverso la materia
del mondo.
Nella mostra le immagini video o fotografie di edifici urbani visti come
forme massicce, solitarie su squarci desertici in cemento si alternano alle architetture nate da
materiali di recupero, da detriti che danno vita a misteriose
installazioni: reticoli di strade, città o mappature
astratte di territori reali o immaginari.
Sono indici formali o sensibili colti sul territorio, disegni o video evocando un giardino o una dimora d’infanzia, infine creazioni di universi di “resistenza” abitati da immagini e suoni, da segni visivi e plastici di sopravvivenza in un mondo percepito come precipitando verso la propria distruzione .
Sono evocazioni della realtà, del proprio essere nel mondo come
un rapportarsi allo spazio o all’altro secondo una distanza o una continuità
definite dall’esperienza percettiva del mio sguardo, della mia “apertura
corporea al mondo”:
Lo sguardo è gettato sull’altro, su ciò che aggredisce o
spaventa, su ciò che attrae o ripulsa, o risveglia in noi altre memorie,
altre sensazioni d’un vedere come un “sentire”, un entrare in contatto o in
comunione con le cose attraverso un costante ri-aggiustamento del nostro obiettivo
sull’esterno.
Avvicinamento, messa a distanza, deformazione ottica, sfocatura intenzionale, attenzione al dettaglio. Un volto in primo piano, nessuna oggettività, una presenza simulata, nessuna verità, l'occultamento quanto la tensione costante d’una rete di fili tesi fatti cortocircuitare tra il fenomeno percepito, lo sguardo e quello che supera l’intenzionalità nella mia interna visione. Un guardare attraverso i sensi, con l’intelletto o dall’intero spazio del corpo.
Avvicinamento, messa a distanza, deformazione ottica, sfocatura intenzionale, attenzione al dettaglio. Un volto in primo piano, nessuna oggettività, una presenza simulata, nessuna verità, l'occultamento quanto la tensione costante d’una rete di fili tesi fatti cortocircuitare tra il fenomeno percepito, lo sguardo e quello che supera l’intenzionalità nella mia interna visione. Un guardare attraverso i sensi, con l’intelletto o dall’intero spazio del corpo.
Lauren Moffatt (Proiezione video tridimensionale in bianco
e nero)
Nelle gallerie d’una metro di notte una donna è filmata, un casco-telecamera sul volto, nell’atto di guardare tutto ciò che la circonda, d’osservare la gente che l’osserva su treno in corsa nell’oscurità, poi in uno studio cinematografico su un sofà raccontandosi di fronte a un interlocutore invisibile .
Il set cinematografico è attraversato da linee tranviarie
conducendo obliquamente fuori dalla scena, poi il primo piano è sul volto della
donna.
“La violenza del vedere e dell’essere visti”,
nei passaggi metropolitani di notte, nei cunicoli ristretti e senza respiro, nei vicoli ciechi,
nei passaggi al nero.
"Nulla a difendervi contro lo sguardo dell’esterno; l’immaginazione diventa ossessione".
Vede la sua pelle liquefarsi infiltrata, bucherellata, in una miriade di piccole aperture, spugnosa dissolvere al contatto con l’estremità, lo sguardo o i limiti degli altri corpi;
sente insinuarsi il loro pensiero attraverso il suo spazio abitato, è come divorata dal contatto al mondo. Per questo sceglie di disumanizzare la propria apparenza, rivoltare quella violenza , rifrangerla verso l’esterno prima che giunga a lei, farla rimbalzare e cambiare di segno, renderla inoffensiva del suo potere distruttivo e rimetterla in circolo semplicemente come carica elettrica mossa fluidamente dall’una all’altra direzione: il pensiero, i sensi, il risvolto interno, le pieghe esterne del suo io .
Una maschera, uno schermo simile a uno specchio in acciaio con una telecamera filtra tutto quello che le passa attraverso. Come una seconda pelle fortificata.
Guarda la gente sulle metro, svia lo sguardo, poi,
paradossalmente loro sono invitati a guardarla a loro volta. Quello
che vedono è un altro volto, uno schermo, una parete traslucida e rifrangente.
Treno in corsa di notte; l’immagine dall’interno d’una galleria o camera
oscura mostra una percezione frammentata, sovrapposta ad altre impressioni di
volti o ad altre figure sulla metro, proiettata contro i vetri neri.
Nell' oscurita' i corridoi proseguono all’infinito, sfumano perdendosi nelle
gallerie sotterranee dei cunicoli metropolitani.
Nicolas Moulin
L’osservazione del paesaggio urbano e dei suoi sintomi in una commistione di elementi storici, architettonici o di suggestioni fantascientifiche . Le visioni di città desolanti, impersonali, fredde, immerse nel grigiore d’una totale assenza d’umanità si alternano alle mappature astratte di reti di comunicazione, di grovigli di strade o di centri abitati. Le carte ridisegnano labirinti di linee colorate simili a mappe di radar satellitari o di rotte aeree. Divengono cartografie di cieli stellati, reti di comunicazione spaziale fatte di linee e punti, ora mappature cosmiche illuminate a luce elettrica da improvvisi bagliori in rilievo sulla densità delle linee del tracciato.
Nelle fotografie è l’onnipresenza di edifici inquietanti,
megalitici, grigi in periferie di città viste fuori
da ogni riferimento storico o da ogni reale identità geografica. Epurate d’ogni
segno di presenza umana. Vediamo un edificio denominato “Grusshaus” erigersi,
dominare all’interno d’un paesaggio risolutamente impersonale, non
localizzabile in una realtà concreta, in un momento storico definito. E’
restituito come una costruzione di parti interscambiabili simile al montaggio
lego di mattoncini grigi in diverse forme e dimensioni arrivando a comporre l’
edificio in un parallelepipedo astratto, tridimensionale fatto di riquadri
traforati, di pieni e di vuoti in un diagramma plastico della realtà. La sua struttura asettica, forzatamente grigia è
restituita come una concrezione necessariamente atona, in cemento, senza cromia
possibile nella sua dis-umanità o "dis-abitabilità". E’ un mondo ricondotto alle
sue primarie strutture , una realtà che non concede spiragli
all’individuo o il respiro di un'altra soggettività, volutamente messo a
distanza, sentito come estraniante, forse immaginato in una sua possibile
proiezione distopica del futuro.
Forme megalitiche prendono potere esse solo sull’immagine in una visione alienante che esclude d’ogni prossimità all’umano. E’ un disegnarsi di linee oblique al suolo sottolineate dalle circolari urbane delle strade e d’ altre linee che si ripetono verticali verso l’alto, poi sui marciapiedi, sui riquadri in cemento degli edifici, nelle ombre dei medesimi contro la densità grigia del cielo. I vertici, gli angoli concavi che si aprono tra i lati esterni delle architetture sono questi punti di densità dove di annidano cumuli di oscurità, dove ricadono e vanno a scomparire le ombre degli edifici contrapposti all’uniformità diffusa e atona dell’insieme.
Forme megalitiche prendono potere esse solo sull’immagine in una visione alienante che esclude d’ogni prossimità all’umano. E’ un disegnarsi di linee oblique al suolo sottolineate dalle circolari urbane delle strade e d’ altre linee che si ripetono verticali verso l’alto, poi sui marciapiedi, sui riquadri in cemento degli edifici, nelle ombre dei medesimi contro la densità grigia del cielo. I vertici, gli angoli concavi che si aprono tra i lati esterni delle architetture sono questi punti di densità dove di annidano cumuli di oscurità, dove ricadono e vanno a scomparire le ombre degli edifici contrapposti all’uniformità diffusa e atona dell’insieme.
Peter
Buggenhout, "The blind leading the blind”
Parte dalla cecità, dal non-sapere, dalla “non funzionalità” di
materiali che sono resti di precedenti oggetti o forme, rottami dei medesimi,
pezzi di ferro vecchio raccolti da depositi di cose in disuso che vengono qui
ricomposti, rimontati, ri-saldati insieme in un’opera grandiosa e grottesca di
ferro ossidato ricoperto di polvere, magnifica e spaventosa, attirante e
respingente insieme nella sua forma singolare, imponente, anomala. Simile a una
grande nave naufragata da un tempo storico remoto si ricompone in un altro
tempo virtuale dei detriti del precedente; fa pensare a un carro armato posto
lì a guisa di grande monumento celebrativo magnificente del passato, ma qui
fatto a pezzi dal prima, di mille pezzi di metallo ricomposto, vestale divinità
ricoperta di polveri voluta proprio come indice d’una temporalità stratificata
in esso tangibilmente.
Gli oggetti sono intrisi di memoria perché appartenuti ad altre
epoche, ad altri individui, portatori loro stessi di questo filtro distanziante
del passato, d’una loro intrinseca esistenza in rapporto alla prossimità di un
nuovo presente. E’ materia-memoria quella che compone questa forma complessa,
immensa, sfaccettata e quasi aberrante; è una materia intrisa di polvere come
della densità del passaggio del tempo, come d’una durata data dal nostro
rapporto alle cose, nelle relazioni simboliche o affettive che con esse
stabiliamo. Dislocazione d’ apparenza, la scultura è scintillante ribollire di
materia prima d’ogni altra definizione, la polvere, viscerale intrusione della
medesima a contatto con l’ amalgama ossidata del ferro da cui poi emergerà la
forma finita. La distruzione porta alla costruzione d’una nuova densità di cosa
emersa per assurdo come opera; appare come un montaggio incongruo di parti,
carro armato di residui e polvere, opera residuale e potente di cui la carcassa
e insieme la forma in ebollizione misura da una parte la distanza prodotta dal
filtro temporale – la corruzione del tempo o del vivente sulle cose- e dall’altra la
prossimità con cui esse continuano a ripresentarsi, emergere e ribollire del
loro sostrato di materia-memoria, a ricomporsi infine in nuove forme, in una
continuità, in una metamorfosi, in un circolo tuttavia dal passato al presente
e viceversa.
Valérie Sonnier “ La casa d’infanzia e il suo giardino
selvaggio” (video e disegni)
Ogni vita contiene in sé il sostrato di un’altra vita, d’una
vita passata, come dentro una casa abbandonata il fantasma o lo spirito della
vita che in precedenza l’abitava . La memoria si impone nella sua inquietante
stranezza, perturbante, per quello che guardando rimanda al nostro sguardo, per
quello che d'essa s'apre fino a noi, invia, ci guarda o ci ri-guarda dai
sepolcri inbiancati del nostro non-vedere.
Passi sulla neve, lampi improvvisi e pioggia a fiotti, nell’immagine video, ticchettante e ininterrotta cadono per dare accesso al giardino misterioso, a questa dimora antica e perduta dell’infanzia tra
i grovigli di selva e l’interno illuminato nell’oscurità circostante.
Nell’immagine sfuocata in tonalità di bianco e di nero la casa appare svuotata,
completamente deserta con le grandi vetrate aperte sul giardino e tende
di trine alle finestre. Al passaggio del vento è filmata in
chiari-oscuri improvvisi, in rifrazioni di luce assoluta rimbalzando
negli spazi vuoti, negli angoli prima lasciati all’oscurità, attraverso i pochi
mobili rimasti, dallo studio alla libreria, uno specchio ovale, pochi oggetti.
Porte e finestre aperte, il vento passa, arriva come una folata improvvisa,
violenta, inaspettata spazza via ogni cosa conducendo direttamente al giardino.
La casa e' ora vista dall’esterno, porte e finestre aperte, tende svolazzanti,
solarizzata negli intensi chiari-oscuri, abitata da spettri,
attraversata dal vento, abbandonata al groviglio di cespugli,
avvolta, infine,
in surreale presenza.
Michel Mazzoni
Il mio sguardo sottomesso a una realtà che tendo a pensare come
oggettiva, immutabile si scontra contro l’intensità di quello che vedo non
volendo vedere, di quello che fotografo non volendo fotografare, di quello che
scrivo non volendo scrivere. L’inconscio ottico emerge contro
all’intenzionalità del vedere e nella sua immediata periferia: è il compromesso
tra l’immagine oggetto e l’immagine in quanto “esperienza percettiva”, avvenimento
della coscienza, sguardo gettato nell’ apertura immanente della sensibilità dal
corpo al mondo.
Tracce indiziali lasciate dall’uomo al suo passaggio sulla
terra, nell'avvenimento del suo esserci, essere nel mondo attraverso segni e
tracce sul suo spazio abitato sono le impronte storiche come tangibili memorie
volutamente iscritte nelle architetture date, donate o “abban-donate” sul
territorio ma anche i lasciti, i residui, ogni vettore di presenza comparendo
in margine, de-territorializzando le asserzioni precedenti attraverso un
baluginare di minuscole tracce, irrisori segni che ci salvano come fulminei bagliori nell' oscurita'.
Un ramo d’albero scintillante nel contro-luce d’ombra,
un chiarore lunare a mezzanotte, impronte su neve,
tracce di cespugli disseminati come baluardi in una radura deserta, passaggi elettrici d’auto viste a distanza nella notte, passaggi di individui sulle strade.
un chiarore lunare a mezzanotte, impronte su neve,
tracce di cespugli disseminati come baluardi in una radura deserta, passaggi elettrici d’auto viste a distanza nella notte, passaggi di individui sulle strade.
Vediamo scie planetarie di luce degli aerei nella notte,
edifici o architetture sul territorio, radar-antenne cellulari.
Un rullo di cemento coperto di fango liquido imprime le proprie impronte al suolo al passaggio.
edifici o architetture sul territorio, radar-antenne cellulari.
Un rullo di cemento coperto di fango liquido imprime le proprie impronte al suolo al passaggio.
Una strada conduce come una via dritta a un unico punto di fuga.
Una piccola crepa sul muro o sulla pelle, un taglio su un foglio di carta, un sigillo su una superficie.
Granuli di sabbia al suolo su una distesa desertica, tracce di gravità, del peso dell’uomo sul territorio, indici di presenza. Sferici,
centripeti o a spirale, concentrici oppure elevandosi in verticale sono punti o
strappi, interruzioni sulla continuità del vivente.

Christine Wilmes et Patrick Mascaux “Sopravvivenze”

La terra rossa del deserto, arsa e dissecata dal sole, la terra piatta e brulla, senza nome della savana è vista in primo piano, sullo sfondo un corso d'acqua, un rigagnolo divenendo un fiumiciattolo al suo retro.
Savana, paesaggio raso al suolo: a metà è un cielo immobile, calmo, blu striato di rigature della stessa tonalità incombente sulla terra, a metà la terra ardente e rabbiosa, immobile e brulla come una distesa di gesso solidificata, compatta, densa ai piedi. Al centro il piccolo albero si erge con i suoi ramoscelli, arbusti, pietre e foglie al suolo, resistente, vivente, “sopravvivente” in questi luoghi desertici d'acqua scivolando via lontana e di cieli incombenti sul suo dorso. La terra rossa nutre le sue radici e i suoi frutti mentre l'albero solitario, scintillante come un miraggio d'acqua e di verde rigoglioso, di vegetazione nel pieno dell'aridità del deserto appare come una visione in mezzo al nulla.

Christine Wilmes et Patrick Mascaux “Sopravvivenze”

I
luoghi desertici, i luoghi che esistono in margine del mondo, in
rottura con il tempo attuale, i paesi che si situano fuori
dall’epicentro della geopolitica mondiale, i quartieri periferici
che circondano il groviglio frenetico e rumoroso delle nostre città,
i luoghi anche che appartengono a una distanza geografica o temporale
nella nostra memoria, e ancora questi siti industriali abbandonati,
perduti, lasciati a loro stessi che poi proliferano di nuova vita
nelle nostre città restano materia di fondo per il lavoro di questi
artisti. Incarnano in loro stessi la questione della sopravvivenza,
divengono per primi, simboli e luoghi di sopravvivenza o di
resistenza dove si iscrive un altro divenire per l’uomo rispetto
alle nostre società sature di cose, di oggetti, di merci, di
slogan, di messaggi pubblicitari nell'esubero di presenza, di
produzione, di consumazione. Incarnano il potere del tempo di
distruggere e ricreare gli elementi del mondo, il potere delle cose
di auto-trasformarsi, lentamente di seguire i propri cicli di
distruzione e rinascita, il potere d’un deserto di rivelarsi pieno
di risorse, d’un silenzio di rendersi assordante, d’un rumore
inudibile.
“Survival”
le
fiamme sono ovunque, lasciano intravvedere tra loro lembi di cose,
tra la massa di fumo e di polvere grigia lembi di cespugli, uomini in
fuga, lo stato di perdizione delle loro menti. Gesti frenetici,
convulsi, gridando in prossimità dell'esplosione. Le fiamme sono
viste come questa inferno pervasivo nei suoi lembi e punte salendo
verso l'alto. Prendono vigore al contatto con l'aria, con l'ossigeno
dell'atmosfera, una fornace ardente in un firmamento che diviene
fiume di fuoco, un'ascesi di materia incandescente, bruciante e
luminosa, rosso fluido-esplosiva frammista a fumo e polveri.
Vortice
in ascensione del fuoco, bruciante combustione ovunque e poi grigio
fumo a ricoprire ogni cosa della scena. “Survival” è questo
inferno in primo piano frammisto, ancora, a profili di uomini in
fuga sullo sfondo, inerti dibattendosi contro le fiamme.
Ci sono
nuvole di fumo esposte in primo piano insieme all'incendio verso
l'alto nella combustione.
Evento misterioso, quasi metafisico delle fiamme pervasive sul video, esso è filmato come il mistero d'un fuoco sacro, originario, prometeico quasi, quel fuoco rubato agli dei per essere donato agli uomini come scintilla divina, il simbolo del loro potere sulla terra affermato a mezzo di un nuovo sapere al prezzo dell'ira e della vendetta delle divinità. Fuoco sacro brucia e purifica, arde e rigenera, distrugge e ricrea nel passaggio violento della combustione.
Evento misterioso, quasi metafisico delle fiamme pervasive sul video, esso è filmato come il mistero d'un fuoco sacro, originario, prometeico quasi, quel fuoco rubato agli dei per essere donato agli uomini come scintilla divina, il simbolo del loro potere sulla terra affermato a mezzo di un nuovo sapere al prezzo dell'ira e della vendetta delle divinità. Fuoco sacro brucia e purifica, arde e rigenera, distrugge e ricrea nel passaggio violento della combustione.
Si
erge in mezzo alla savana, con pochi frutti, pochi arbusti sottili e
dissecati, grazioso, solitario, “survivant”, resistente: figura
dei margini e della sopravvivenza del mondo.
Unisce la cartografia del territorio a una forma ripiegata su sé in un minuscolo riquadro di terra d'un mondo remoto, visto nella distanza come in uno scorcio di viaggio. Deserto prolifico, riempito di risonanze, di eco e sopravvivenze della memoria; l’alberello compare nel suo letto di terra e di pietre coperto di piccoli sassi, di fango e d'arbusti.
Unisce la cartografia del territorio a una forma ripiegata su sé in un minuscolo riquadro di terra d'un mondo remoto, visto nella distanza come in uno scorcio di viaggio. Deserto prolifico, riempito di risonanze, di eco e sopravvivenze della memoria; l’alberello compare nel suo letto di terra e di pietre coperto di piccoli sassi, di fango e d'arbusti.
La terra rossa del deserto, arsa e dissecata dal sole, la terra piatta e brulla, senza nome della savana è vista in primo piano, sullo sfondo un corso d'acqua, un rigagnolo divenendo un fiumiciattolo al suo retro.
Savana, paesaggio raso al suolo: a metà è un cielo immobile, calmo, blu striato di rigature della stessa tonalità incombente sulla terra, a metà la terra ardente e rabbiosa, immobile e brulla come una distesa di gesso solidificata, compatta, densa ai piedi. Al centro il piccolo albero si erge con i suoi ramoscelli, arbusti, pietre e foglie al suolo, resistente, vivente, “sopravvivente” in questi luoghi desertici d'acqua scivolando via lontana e di cieli incombenti sul suo dorso. La terra rossa nutre le sue radici e i suoi frutti mentre l'albero solitario, scintillante come un miraggio d'acqua e di verde rigoglioso, di vegetazione nel pieno dell'aridità del deserto appare come una visione in mezzo al nulla.