martedì 27 novembre 2012

Bridget Baker dal video : “The remains of the father, fragments of a trilogy” (Mambo, Bologna, ottobre-gennaio 2013)











Una donna eritrea seduta al tavolo d’una scrivania in una casa disabitata d’un anonima periferia urbana traduce documenti d'un etnologo bianco vissuto durante il periodo coloniale dal '36 al '41 come funzionario del ministero d'Africa italiana in Eritrea. Alla radio voci fuori campo udibili a distanza ricordano vecchi proverbi africani trascritti da Giovanni Ellero, nelle mani della ragazza scorrono progetti architettonici di ville in stile coloniale, simboli grafici forse appartenenti a antiche famiglie africane, lettere manoscritte.

Riesumare archivi, riaffondare nella memoria dissepolta della storia coloniale italiana in Eritrea e quando i documenti non sono sufficienti, qui lo studio etnografico di Giovanni Ellero, inventarli, ri-appropriarne parte di quelli storici esistenti e confonderli con falsi indizi, materiali aggiunti successivamente o d’ altre fonti, immagini d’Africa dello stesso periodo fino a creare narrative fittizie intessute a partire da una ricostruzione per frammenti nel video.

Bridget Baker: “Andare indietro nel tempo serve a guardare di nuovo la storia. E’ una storia spezzata in cui è mancato l’accesso alla verità. Si è creata una sorta di schizofrenia tra le tradizioni di famiglia e le leggi d’una società che rispetta altre regole. Questo progetto è sul valore dell’identità (..) non è tanto sul lavoro del passato ma su ciò che siamo, un tema che mi riguarda molto per la mia storia di colona britannica arrivata in sud-Africa e con cui non ho ancora fatto i conti.” Diventa un inventare, creare finzioni attraverso un montaggio di frammenti visivi, documenti d'archivio, lettere, fotografie o altri oggetti tenuti insieme secondo una logica non lineare perché come afferma l’artista “non volevo avere il controllo sul processo narrativo, ma imparare da quello con un punto di vista aperto sul tempo e sullo spazio, un punto di vista femminile che intendeva includere me stessa come parte del processo”. Lasciare affiorare nella costruzione stessa del video, il non-detto della narrazione visiva affidata al montaggio fittizio di manoscritti filmati, documenti d’archivio, lettere e fotografie come a ciò che scorre, scivola o si lascia percepire, paesaggio mentale leggibile tra gli interstizi dell’iscrizione filmica .





Spighe di giallo e oro come cannucce al vento in un soffice groviglio di forme indistinte riprese nel pieno d’una campagna verdeggiante; poi un sobborgo urbano di case d'una periferia popolare in abbandono ricordando vagamente i quartieri disabitati di Johannesburg in Sud-Africa.
Colori ocra opachi, spenti, slavati e come ricoperti d’una diffusa patina di nero-fumo o grigio-denso.
Il primo piano d’un cancello chiuso, una porta in cemento blindata, l’oscurità dell'interno dilagante.

L'immagine iniziale d' una distesa di spighe dorate è seguita, in un cambio repentino di scena, da un cancellata in ferro in un sobborgo urbano, il paesaggio d’una sordida periferia all’apparenza deserta;
una porta blindata, una camera oscura, l'atto di entrare in un antro lasciato per qualche secondo all’oscurità più totale dell’immagine, poi il gesto semplice del sollevare una saracinesca, lasciare filtrare la luce, il riverbero d’una luminosità opaca, riflessa, vagamente espansa attraverso la densità immobile dell’aria .

E' questo lasciar entrare la luce, come un rendere visibile nel rituale proprio dell'aprire una breccia, come la necessità prima di “dare a vedere”, entrare in un luogo che appare chiaramente simbolico, lasciato fuori da una reale identificazione spazio-temporale, indagato come un paesaggio mentale, i recessi d'una memoria storica o personale, un insieme di tracce che si esprimono dall’interno d’un pensiero mai completamente cosciente come da una scatola di proiezioni attraversata da suggestioni tattili, visive, cinestetiche e sonore. Creano il tracciato d’ uno spazio fisico e psichico dove sono avvolto, un luogo fatto di indizi da indagare, rivoltare o scavare, interno e esterno insieme, il terreno d’una storia d’altri che potrebbe essere mia, d’un tempo che mi scolpisce, d’una dimora che è insieme quella della storia in corso, della mia storia, della mente di qualcun altro, di me stesso nell'atto del guardare.

Si passa attraverso il rituale dell'estrarre oggetti da una borsa uno a uno: un computer, i fogli di lavoro manoscritti, sullo sfondo i battiti d'una pendola, ticchettio ritmico inquadrato da una scrivania, sul tavolo di lavoro il modellino d'una casa coloniale bianca in miniatura. Accendere una lampada sul tavolo ritorna come l'atto di rischiarare, cominciare a tracciare un cerchio di luce, una sfera luminosa dentro la totale, pervasiva oscurità del luogo. La giovane donna eritrea siede al tavolo, il doppio schermo ingrandisce ora allontana il suo volto, la stanza, parte della figura attraverso immagini date su video paralleli. Sul tavolo compaiono carte geografiche, una foto in bianco e nero di funzionari bianchi nell'Africa coloniale negli anni '30. Digita lettere sulla tastiera, legge, trascrive, traduce parti di frasi del manoscritto di Ellero; ricopia sullo schermo caratteri indecifrabili per noi, prettamente grafici, dall’apparenza incomprensibile come fossero simboli ermetici, mantra da un altro linguaggio, dall'alfabeto amarico . Pagine riempite di segni, di frasi manoscritte si susseguono l’una all’altra su tutta l’estensione dello schermo. Sfogliate si consumano di fronte ai nostri occhi come fossero messaggi cifrati nel lento lavorio di trasposizione, di traduzione dei medesimi, frase dopo frase, parola dopo parola; come si dovesse attribuirgli un senso, allo stesso tempo una chiave di lettura, di comprensione, di ricostruzione di quella realtà o memoria storica al di là del loro essere "stato nascente di segni" nel linguaggio, del loro aver luogo dentro la parola, nella tessitura poetica del segno.



Voci fuori campo ma lontane, non tanto importanti per quello che dicono ma per la traccia sonora che lasciano sul fondo, riportano vecchi proverbi africani d’una semplicità disarmante, proverbi di saggezza popolare detti da voci anonime di uomini e donne eritrei d’oggi. Passare il fluido, il flusso di parole e segni quando ancora sono antri, ipotetici ingressi verso un altrove della parola allo stato nascente, farli divenire dentro un sistema di senso. Voci fuori campo a metà distanti, non completamente distinguibili, segni grafici, caratteri, lettere manoscritte scorrono e si esauriscono sul video, poi disegni architettonici di ville in stile impero, carte geografiche, mappature approssimative di territori occupati.

Compare ora una parete grigia con segni di quadri staccati dal muro, poi uno scaffale riempito di libri, vecchi annuari dell’epoca imperiale, la parete nuda d’un muro spoglio, ripreso angolo dopo angolo nei suoi spigoli ingrigiti. I due estremi d’una linea retta tracciata e cancellata, segmentata, discontinua e frammentaria: la storia coloniale e il suo rovescio, il suo lascito e il suo non-detto; scavare, aprire una breccia verso l’interno, affondare, estrarre, portare alla luce, rimandi tra passato e presente.





Alberi, cannucce al vento, spighe di campo fuori; muri d’interno scrostati, scassi di vecchi tubi estratti dalla parete, scanalature vuote aperte sulla medesima.
Manometro, misuratore di pressione immobile.
L’oscurità totale dell’immagine è sospensione alla ricerca di indizi per ricostruire la mappa, le parti mancanti del quadro. La casa di qualcun altro, cercare indizi.
Da un involucro di carta postale ingiallita vengono estratti un papiro pieno di geroglifici incomprensibili scorrendo di fronte ai nostri occhi verticalmente, riproduzioni di monete, sfere simboliche riproducendo emblemi di famiglie regali africane, stralci di lettere manoscritte, appunti di coloro che abitavano in quella casa.
Si odono captazioni di voci in emissione radio; il ticchettio del tempo che passa, lento scorrendo attraverso le ore di lavoro silenziose nella stanza. Tra gli angoli ingrigiti d’una casa, tra i suoi spigoli rabbuiati di nero-fumo udiamo il ticchettio ritmico di dita sulla tastiera, un battito alla porta.

Un volto fuori. Oscurità, reclusione dell’interno, aprire una porta verso l’esterno, far entrare la luce.
Aprire una cassetta di lettere, svuotare una busta contenente documenti, estrarli uno a uno e poi ingrandirli sui margini, nelle intestazioni, nella data con l’aiuto d’una lente. Aprire un cassetto, frugare tra gli oggetti rimasti, lì lasciati o dimenticati, osservare gli indizi disposti sui mobili nella stanza, scavare dentro gli archivi d’una memoria li' deposta da qualcun’ altro. Visualizzare quelle tracce come fossero proprie, impronte d’un paesaggio mentale, d’una storia personale, ripercorrerle coi propri sensi, riconoscerle al tatto, ricostruirle in una possibile finzione d'un vedere che diviene anche un toccare, immergersi, lasciarsene avvolgere come dall’impronta d’una presenza li' deposta nel luogo della propria interna dimora .

Le viene consegnato un plico, ne toglie lentamente i sigilli, apre la busta con un coltellino seghettando l’involucro esterno lentamente, con cura. Vi estrae un accumulo di materiale. Una lente di ingrandimento sul tavolo le permette di osservare, guardare da vicino le vecchie fotografie d’epoca coloniale: l’esercito italiano in Eritrea, paesaggi desertici, nugoli di bambini indigeni, una coppia di bianchi funzionari, lui vestito in divisa ufficiale, lei con un abito lungo e sobrio degli anni trenta. Lo spazio esterno proiezione dello spazio interno d’una psiche, la sua estensione in uno spazio-tempo duttile, malleabile, plastico, abitato di presenze prende forma attraverso gli oggetti, le cose e la loro disposizione in rapporto a una particolare distribuzione della luce. La disposizione interna delle diverse parti d’una stanza, i dettagli che ne compongono il suo aver luogo rispondono allo spazio di intimità d’un essere, agli spiragli o ai recessi della sua psiche. La metafora di questo entrare in una sorta di archivio o stanza chiusa, come aprire una breccia dentro un luogo interno, passaggio verso un vedere, alla ricerca di non si sa bene cosa partendo da un’iniziale e inequivocabile condizione di cecità. Allo stesso modo al momento di partire gli oggetti sono riposti meticolosamente e attraverso lo stesso rituale uno a uno nella borsa, il computer staccato, i fogli fatti sparire, le lettere riposte nel cassetto, la saracinesca riabbassata completamente, la luce spenta, la casa lasciata nell’oscurità, la porta della casa di Alleri chiusa, la griglia in ferro tirata accuratamente dietro di sé.
La donna si allontana, lasciando tutto lì in quell’antro segreto, in quel buco nero, fuori la strada è deserta, nessun passante nella periferia urbana sordida e desolante della città.











Nessun commento:

Posta un commento