domenica 13 maggio 2012

Berlino 2009 « Scratches » ,Dominique Auerbacher, (Maison de la Photographie, Parigi)






 « Il giallo dei tram, il rosso dei treni o dei metro, il blu della signaletica, il verde e l’arancio delle infrastrutture urbane. A Berlino, i colori vivi ritmano un tessuto urbano destrutturato, interrotto da cantieri industriali o  da spazi in costruzione, attraversato da vie tramviarie invase di vegetazione”[1].








Le immagini sono riprese attraverso le superfici graffiate, le vetrate scritte o incise di segni, graffiature, graffiti dei trasporti pubblici berlinesi che attraversano giorno e notte il tessuto della città.  Ci sono rigature intenzionali, lettere o iniziali di nomi, "date incidenti", date scritte simili a stringenti punti di non-ritorno nel tempo e nello spazio,
punti di incisione iscrivendo l’unicità d’un avvenimento e  insieme la sua perdita nel passaggio che lo rende segno, indice, traccia che si destina, scorre come questi graffiti sui vetri cancellando la propria  provenienza, sotto gli sguardi di chi li osserva, attraverso le strade, sui muri della città. 
All’origine erano messaggi in codice, dichiarazioni d'amore o di guerra, "mot de passe" come messaggi segreti, accidentali accumulazioni di lettere e simboli  cifrati, incomprensibili per noi a distanza, decodificabili soltanto da coloro cui erano destinati; allora portatori di un valore significante, 
sono poi divenuti segni, tessiture di lettere o schermi coprenti che occludono e lasciano passare lembi o parti dello spazio metropolitano, la tela di fondo d’ una certa visione del presente.

“Scratch”, termine proveniente dall’ambito della cultura popolare underground, dalla musica hip hop,  é l’atto di manipolare con gesti rapidi e incisivi la lettura d’un disco in vinile producendo, come l’onomatopea evoca, il suono stridente di punte dure fatte strisciare su materiali abrasivi simili a  queste iscrizioni forzatamente incise sulle superfici vetrate.
 “ A Berlino nella primavera del 2009 fui istantaneamente colpito dalla bellezza di queste accumulazioni d’acronimi, di segni e gesti incisi sui vetri dei tram simili a un’ action-painting sulla tela di fondo della città in movimento”[2]
 Siamo nel tragitto, nella posizione destabilizzante di qualcuno che circola attraverso la metropoli, che guarda, seduto o in piedi, trasportato e auto-portato, l’attenzione in stato d’allerta, lo sguardo risvegliato da una quantità di suggestioni inimmaginabili: sui vetri sovrapposizioni di colori coagulando a macchia, stralci di pubblicità, pezzi d’edifici, reticoli di linee orizzontali e verticali incrociandosi in qualche punto lontano al di là del nostro sguardo, linee diagonali che tagliano l’orizzonte, silhouettes et riflessi d’individui nella distopia delle linee che li abbozzano, passaggi rapidi e costanti di passanti, passeggeri.
 Come un potenziale di immagini in movimento, esse sono costruite sulla dinamica di ritmi, intervalli e velocità differite-differenti, percepite in uno spazio di proiezione comune, per una particolare forza d’espansione, di  rinvio e rimando delle medesime: tale la luce nel gioco tra trasparenze e opacità, tra cancellature e iscrizioni, o le singole soggettività che cominciano a entrare in risonanza, a accordarsi in una vibrazione visiva comune.










Il graffio su vetro diviene graffito, cio’ che scalfisce, intacca, riga una superficie dura, come si lacerasse la pelle con un’unghiata, 
lo sfregio d’una linea partita a propria guisa per qualche altra direzione dalla mano di chi la stava tracciando, poi tante altre sovrapponendosi a nugolo, a macchia, a massa. 
Con una punta incisiva rigare mettendo allo scoperto il sottostante strato di vernice; c’é il rumore d’un gesto assordante, lo stridere di qualcosa di fastidioso, prolungato e eccessivo, l’interferenza sonora che si produce come un rumore di fondo, sordo nella durata. 
C’é il gesto che riga, intacca, come il fastidio del non poter vedere nettamente, limpidamente quella realtà là fuori come vorremmo fosse se non ci fossero questi specchi coprenti, deformanti, limitanti impedendo la sua piena presentabilità.

Se la visione é disturbata, deturpata o occclusa, allo stesso tempo essa dà il senso di un posizionamento all’estremo, al limite, in negativo alla possibilità di vedere quella realtà,
in una non-neutralità assunta rispetto ad essa. Questi vetri spessi di rigature, di segni illeggibili, anonimi, codificati, forse all’origine messaggi in codice segretamente scritti perché giungessero a destinazione, perché raggiungessero un proprio destinatario- le iniziali dei nomi dei loro fautori, messaggi d’amore o di rivolta- ora segni insignificanti, espropriati d’ogni appartenenza, d’un qualunque messaggio, sono presenti nella loro materialità singolare, nella loro “intrusione sintomatica”[1], della loro insistenza d’affermazione come incidenti, incidenze sulla superficie.

Illegibili tuttavia incidono, segnano, riempono la pagina-vetro, la superficie-riflettente costituendo una sorta di schermo, di piano mediano, di visione mediata a una presunta innocente, immediata realtà là fuori. O forse é quella stessa realtà a non poter essere guardata come tale, innocua, neutrale, a non poter non essere intaccata, marcata all’occhio di chi guarda e allora si ha bisogno di questi schermi, supporti devianti per mostrare come quella visione non puo’ essere, deve non essere.


Lo statuto rappresentativo della città come soggetto lascia il posto al lembo espansivo, al fondo dell’infigurabile visivo, alla superficie fotografica segnata, scritta, cancellata, ridipinta o graffiata, sbarrata fuori, barrata dentro. Contro la chiarezza di figure e forme essa domina come fondo, lembo di realtà rigata, intesa come incisione di linee accidentali dandosi a massa, o nella cancellazione significativa di parte dei loro tratti.
L’incidente, tale la linea che sfregia il vetro, l’unghia che graffia la pelle, é singolarità, “intrusione”, “stato sintomatico”[2] della fotografia, stato precario, parziale o accidentale d’una certa visione di realtà che irrompe, occlusa o parzialmente cancellata rendendo irriconoscibili parte degli oggetti occultati rispetto ad essa.

Esiste una voluta caoticità, parziale brouillage nel percepire questo presente berlinese come se fosse il risultato d’una camera mobile dove la città é vista per scorci, in movimento attraverso una serie di tagli e re-inquadrature successive, cinematograficamente divenendo altra nel continuo dello sguardo del fotografo in mobilità.
Qui la strada é vista attraverso il vetro infranto d’un proiettile, là i volti dei passanti sono ricoperti da colate di bianco date a piene braccia per colpi di spatola in una quasi simulazione di action-painting, qui il gesto di fisicamente graffiare, letteralmente rigare il vetro diventa l’incidente che irrompe, il segno energeticamente iscritto su una superficie segnata.

Questa allora la percezione della realtà berlinese d’oggi per il fotografo: mentre gli oggetti, i corpi, le figure sembrano eclissarsi in secondo piano, a poco a poco divenendo sempre meno leggibili, chiari, determinanti alla presentazione fotografica, essi lasciano spazio alla superficie-schermo-graffito, al segno e gesto che lo porta, a macchie di colore d’un verde metallico sullo sfondo, d’un rosso elettrico di insegne o t-shirt colorate, oppure a lettere espansive, incise a forza sui vetri, tracce che si ingigantiscono divenendo vere e proprie astrazioni pittoriche, tale l’intrusione d’una pura plasticità nella fotografia.
Strati opachi di materia irrompono come questi  graffiti sfregiati in superficie oppure lasciandosi colare a macchia in rare irruzioni di zone colorate. 







[1] Dominique Auerbacher, Interview (par Julie Aminthe) sur www.paris-art.com
[2] Ibid., Auerbacher1] Cfr. Georges Didi-Huberman, Devant L’image, p. 307, Edition du Minuit 1990
[2] Ibid., Didi-Huberman

1 commento:

  1. sono un'accannita sostenitrice dell'improvvisazione poetica, il tuo blog mi piace
    https://poesiaprosaspontanea.wordpress.com/

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