« Quando lavoro e sono dunque esposto alla
sofferenza degli altri, alla loro perdita, qualche volta alla loro morte ho il
sentimento di servire da testimone. Forse che ci si rende conto dell’esistenza
degli altri nel loro istante di sofferenza perché esso invalida tutte le nostre
scuse.”(Paolo Pellegrin)
“Sento che in questo spazio delicato e
fragile che circonda la morte, spazio nel quale ho qualche volta il privilegio
e l’infelicità di accedere, di soffermarmi, esiste una possibilità di
incontrare l’altro che supera in qualche modo le parole, le culture e le
differenze. Per un istante si é nudi gli uni di fronte agli altri, nudi di
fronte all’atto e al mistero della morte.”
La fotografia di Pellegrin si situa in tale spazio
difficilmente abitabile, direttamente a ridosso dell’atrocità dell’avvenimento,
spazio difficile da guardare, da comprendere prima ancora che da fotografare,
da trasmettere. Bosnia, Libano, Iraq, Palestina, Afganistan ecc., sono zone
devastate dalla guerra, da catastrofi naturali o indotte dall’uomo, o ancora da altri fenomeni d’emergenza internazionale che
costituiscono, attraverso le differenti serie fotografiche, un estremo di
documentazione, di testimonianza e di resa d’un tragico post-moderno
strettamente connesso all’attualità del presente, concepito in uno stile
documentario sobrio, essenziale e insieme altamente poetico.
Esiste in primo luogo la necessità di informare, di
testimoniare, di rendere la “verità storica” di un avvenimento o situazione
dell’estremo, la complessità di soggetti messi in gioco sul piano della
geo-politica internazionale nell’ottica di un’ etica documentaria che riporta
la fotografia a un primo livello, al piano del reportage giornalistico. E,’ in
primo luogo, tale mandato umanista che si esplica nel dovere etico di
testimonianza dell’immagine in quanto appello a presenza, assunzione di
responsabilità di fronte all’ineluttabile dell’evento, di fronte alla morte o
alla devastazione guardata in faccia che porta in sé il lavoro del reportage
nel suo atto di denuncia di drammi storici collettivi; gettito nel flusso dell’
attuale contemporaneo attraverso l’estemporaneo dell’immagine fotografica. A un
primo livello, dunque, tale fotografia si situa nella dicotomia irrisolvibile
tra il soggetto e l’oggetto, tra lo sguardo singolare, soggettivo del reporter
e l’evento implicato nel qui e ora dell’obbiettivo, ponendo un patto di
credibilità, una distanza, se vogliamo critica, tra l’essere presente e il
restare osservatore esterno, tra l’assumere un’interpretazione, un punto di
vista inevitabilmente parziale e il riprodurre qualcosa di estemporaneo, là
fuori, facendosi in qualche modo garante dell’autenticità di un momento, d’un
atto. Fotografare è, già, implicitamente, un lasciarsi sorprendere dall’istantaneo
manifestarsi dell’avvenimento , soprattutto in queste zone dell’estremo,
dell’inavvicinabile o dell’inumano aperto come voragine al fondo dell’umano.
Documentare una situazione, un avvenimento estremo
come il conflitto israeliano-palestinese o l’’emergenza tsunami in Giappone nel
2011 significa per Pellegrin aderire a quell’etica fotografica dall’interno,
farla confluire, incorporare al più profondo della ricerca sulla forma, auto-generata
per essa stessa, restituire dunque la risonanza più autentica dell’avvenimento
nella sua permutazione in immagine fotografica, nella sua capacità di
trascendere il lato semplicemente aneddotico del fatto per darsi come metafora
visiva. Esiste in questo potere di trasmutazione metaforica, vivificante,
capace di illuminare dall’interno e pienamente il senso più vero di quella
realtà. Entra in gioco, allora, la portata poetica dell’immagine documentaria,
la sua capacità di rendere visibile l’avvenimento giustamente in questa
operazione di sottile trasmutazione, di lieve spostamento o dislocazione dal
suo asse più immediatamente percepibile, malgrado e dentro l’orrore che lo
contraddistingue. E’ la capacità di “vedere”, andare più lontano in questo
sguardo portato sul reale, di trasformare, spingere l’intuizione sulla visione
oltre il “cliché” della fotografia formattata, prodotta dai media, oltre
l’ordinario delle immagini di guerra che riempiono i nostri quotidiani
registrando fatti o morti anonime.
La forza d’una bellezza che esiste e resiste, si
rivela e si rivendica malgrado e attraverso l’orrore dell’evento al fondo della
quale é autogenerata.
“C'è la volontà d'essere là e di guardare, di guardare
e vedere, di non volgere lo sguardo altrove”[1] di
fronte al terrore o alla disperazione dell'avvenimento, di continuare a
guardare nonostante tutto e attendere, in qualche modo, attendere che
l'immagine si manifesti, un'immagine di bellezza nella violenza del conflitto.
Coglierne la portata rivelatoria nel pieno del
disastro, mostrarne la possibilità nella rovina.
“In questo
contesto tormentato, invaso da angoscia sensibile e da comprensibile paura
vorrei porre il caso della bellezza non come un supplemento, un'aggiunta o un
diversivo ma come la sola cosa che resti, che ci appartenga”[2].E' attraverso tale senso condiviso di bellezza, non
puramente vista come fenomeno esteriore o simulazione dell'apparire estetico
delle cose ma come luce che illumina in profondità l'essere nella sua totalità,
corporea, psichica, spirituale e etica, che troveremo “i mezzi e i modi
attraverso i quali trovare ispirazione, responsabilità, superare i limiti di
tali situazioni distruttive.”[3] Essa sola ci permetterà
di raggiungere l'anima delle cose e degli individui, spingendoci a immaginare,
a pensare alternative possibili a questa realtà.
Solo la bellezza che illumina dall'interno in tale
prossimità alla morte, sembra dire il fotografo, può permette a lui e a tutti
noi di aprire gli occhi, di trovare un ordine e un senso, una motivazione e una
coerenza nel complesso devastante dei segni di tali violente estremità.
Guardare attraverso la sua lente ciò che è dato per schegge, parti esplose, frammenti
lasciati dalle detonazioni di guerra, vedere il potenziale nell'immagine
andando oltre la semplice registrazione fenomenica dell'evento.
Trovare una forma di bellezza in paludi stagnanti, nel
fango fetido dell'esistenza,
in rottami di vita o di corpi, nella pestilenza,
nell'epidemia, nelle ceneri, nel fumo, nella caduta, nella macchia_ il sangue sul tessuto o la vernice gettata contro il muro_
in un ritratto, nella folla dispersa, su un viso rabbioso, nella desolazione d'una parete nuda.
Nei diluvi, nei disastri, nei territori desolanti lasciati dalle guerre,
in un pezzo di muro scrostato, in un volto che grida in mezzo alla folla,
nella prossimità paradossale alla morte, dell’inavvicinabile, in tale prossimità,
nel processo di vita e morte cui è soggetta la materia e i corpi, nel circolo di infinito ritorno che essa implica.
Da un luogo all’altro tali immagini ci lasciano
transitare in questa condizione di guerra infinita, nel tempo e attraverso il
tempo come esperienza istantanea d'un attuale riattivato ogni volta attraverso
una nuova evenienza fotografica, in Pellegrin una sorta di guerra dentro
l’immagine.
L'urgenza semplicemente di testimoniare, di dire, l'
urgenza d'esserci, d'essere presenti nell'istante stesso del dolore, del
terrore, d'affondare nell'immanenza di quel momento dentro il gesto
fotografico, contro e malgrado la paura, mantenendo ben netta tale aspirazione
alla bellezza.
Il pensiero del disastro, la morte intorno , corpi
ovunque giacendo disfatti, il tempo uscito dai suoi gong; l'immanenza d’un dolore figurato nell'intercessione d'uno spazio fotografico, nella modalità del visivo.
Ineluttabile. Una parola legata agli esiti della
guerra, alla presenza inequivocabile del male ontologicamente dato su terra,
poi al tempo che passa, alla degenerazione della materia nel ciclo vitale, all’ineluttabile
d’ sguardo portato sulla realtà fino a renderla altra, fino a farla entrare in
un altro ordine del visibile . Il fotografo assume tale sguardo come una
questione vitale, ne fa la traccia d'un energia, d'un desiderio che resta
contro la cancellazione, l'annullamento entropico della morte. Lui, per primo
pone la questione del tempo all'immagine, cioè decostruisce l'impronta
spontanea d’uno sguardo posato su una realtà neutralmente data, facendo della
forma fotografica l’incontro tra registrazione e visione soggettiva , del
presente una costante alterazione di presenza,
infinita
sfaccettatura, mutazione della materia che si incarna in una o un’altra forma.
Esiste la violenza e l’orrore ma esiste anche questo
dono, questa capacità straordinaria di trascendere l’atto, la materia bruta
dell’avvenimento metamorfizzandolo, restituendolo in metafora indiretta,
immagine-pensiero che porti in sé tale forza di incisione trasformata in indice
astratto, impersonale, poeticamente dato per avvicinare e trascendere
l’atrocità.
Palestina, 2002
Una sorta di muro, cinque massi di pietra squadrati occupano , riempiono la
visuale in primo piano. Blocchi massicci sullo sfondo d’un paesaggio desertico,
arido, brullo, disseminato di sassi, pezzi di pietra, schegge, frammenti di
rocce caucasiche sgretolandosi in mezzo alla terra arsa, simile al suolo di un
paesaggio vulcanico. Il muro abbattuto, aperto, i massi tolti lungo il cammino
per metà della barriera, da quel lato la strada si libera, s’apre come uno
scorcio a perdita d’occhio verso l’agglomerato della colonia abitata sullo
sfondo. Un velo
disteso , in plastica dato, dal vento portato, si lascia cullare, accarezzare dal
suo alito lieve prima di adagiarsi, deporsi, trasparente al suolo per aderire
alle sue rocce. Sullo sfondo un nucleo isolato simile
a roccaforte inespugnabile di case, costruzioni in pietra dura ergendosi in
mezzo alla desolazione rocciosa del deserto, isola fortificata, esistente,
resistente in mezzo alla terra brulla di Palestina.
Ombre, silhouette nel buio, il nero dato
in contrasti folgoranti di giorno-notte, luce- tenebre. Immagini esacerbate da
tali contrasti chiaroscurali seguono il tracciato della luce iscrivendosi sui
volti dal fondo all’oscurità dove é immersa tutta la realtà circostante.
Un individuo s’avvicina a un edificio
dell’esercito israeliano avanzando per essere interrogato. Gli uomini in
uniforme come ombre, forme oscure, ingigantite, senza volto, emergono nel
controluce dal profondo chiaro-scuro in cui si trova immersa la foto. Solo la
figura dell’uomo appare avanzando dal fondo per essere giudicato, le braccia
aperte, i palmi volti verso l’alto, disarmato avanzando verso quel punto netto
di luce, Dies irae, il giorno del giudizio, apocalittico, ultimo come
vuole il titolo dell’esposizione, andando verso il centro nodale della foto dove
si concentra il fulcro visivo del conflitto.
Un uomo palestinese abbraccia in primo
piano la madre d’un altro morto nelle operazioni di guerriglia terrorista
contro Israele a Gaza. Nell’immagine l’abbraccio tra i due é visto di profilo,
i volti coperti nella stretta, inammissibile, irrivelabile all’obbiettivo, al
loro posto copricapi, uno popolare in tela iuta tipico dei gueriglieri
palestinesi, l’altro di stampo femminile, intessuto con un fiore a lato. Sullo
sfondo, sulla parete nuda, spoglia della casa di un’immensa desolazione il solo
volto visibile é quello del leader della brigata dei “Martiri di Al Aqsa” istigatore
della serie sanguinosa degli attachi terroristi. La morte del singolo, qui, sembra rientrare all’interno
d’una logica ferrea indotta da una causa comune: sacrificio volontario,
auto-generato, auto-legittimato in una guerra infinita, distruttiva, senza più
volto.
Membri di brigate estremiste palestinesi
in un campo di rifugiati a Gaza. Volti completamente coperti, occultati da
maschere mimetiche ne cancellano i tratti come la loro umanità lasciata fuori, in
un prima, in un altrove inimmaginabile in questo stato di lotta apparente là
dove drappi in tessuto o bende per lo più scure avvolgono completamente le
figure. Volti cancellati, scomparsi, occhi rilucenti nelle tenebre, brucianti
di rabbia o di vendetta, armi alla mano, ripresi in nascondigli serrati, in
posizione di vedetta, di guardia, d’attesa, in stato di minaccia, d’urgenza,
d’allerta;

Graffiti della stella di David lasciati da
soldati israeliani sul muro d’una casa palestinese al momento d’un incursione a
Janine. Stella di David lasciata come iscrizione violenta, in sbavatura
intenzionale a vernice spray andando a macchiare, a rigare, a imbrattare tutta
la lunghezza della parete in colature irregolari di vernice informe, in zone di
coagulo, in grumi, punti dissecati di materia e loro colata simile a sangue
impresso attraverso tutta la superficie della parete.
Janine 2002, una madre di
fronte alla morte del figlio, ucciso in seguito a un’incursione dell’esercito
isrealiano. L’immagine é affollata dell’accumilazione di volti e corpi
sfuocati, irriconoscibili nella defocalizzazione intenzionale riempendo in
tridimensionalità, tutto lo spazio. Il volto della donna in primo piano é
rivelato, sorpreso in una posa estatica, nel superamento di sé, nel dolore del
ricongiungimento ultimo all’ immagine del figlio in una posa fortemente
sacralizzata rinviando all’iconografia religiosa, potremmo dire ai volti di
Maria e Maddalena ai piedi della croce al momento della passione di Cristo o
ancora ai volti pasoliniani filmati nel Vangelo secondo Matteo. Altro
volto accanto a lei in una sorta di opposizione in oscurità, la bellezza, il
potere di evocazione implicito all’immagine emergono nel momento in cui l’avvenimento
attraversa la soglia di realtà per entra nell’ordine del figurale.
Palestina 2000, strada
che costeggia la zona-frontiera tra Israele e Palestina.
C’è un
sentiero di terra battuta tracciato, aperto tra i cumuli di macerie e ferraglia
lasciati dai bombardamenti, di rottami e pezzi d’edifici, di forme precedenti in
materiale duro perlopiù esplose _ ferro,
acciaio, cemento, pietra_ poi sterpaglie di vegetazione infiltratesi qua e là
attraverso. Dunque, c’è questo sentiero aperto, fattosi strada tra i detriti
della zona frontiera tra Israele e Palestina. Cumuli di detriti esplosi ergendosi
ai suoi lati disegnano lo spazio, la sola realtà visibile, tangibile qui, la
sola linea di fuga dove conduce lo sguardo, letteralmente contornato e sopraffatto
da tali pezzi di cose ammassati alla deriva: accumulazione di materia pesante,
resti ferruginosi e sterpaglie. Diviene metafora d’un infinito di guerra
riattivata nel tempo come condizione inalterabile di tale realtà, guerra come
esperienza interiore, illimitata e atemporale in mezzo al quale iscrivere la sola traccia- visibile
qui.
Immagine di Gaza, 2009.
Città roccaforte dalla
costruzione-carcassa in cemento nudo aggrappata coi suoi edifici grigi al suolo
roccioso simile a un isolotto fortificato nello squallore devastante del
paesaggio. Trasversalmente in primo piano una barriera di terra si erge simile
a muro di polvere e fango, sabbia e acqua solidificata; appare come una banda
di terra rispetto alla città in lontananza sullo sfondo, una costruzione che
taglia e separa, isola e divide, sospende e condanna il territorio attraverso
un muro di fango. Opera come un’intrusione spaziale, un’imposizione ideologica,
un’occupazione illecita di territorio, la presa di potere di una parte e la ritorsione
violenta dell’altra, lo spostamento, l’attacco e il contro-attacco. Piante irte
nate su quella terra brulla si ergono come il segno, la condanna della
devastazione che esso porta.
Iran 2009
Cimitero dei Martiri aTeheran, alla commemorazione
del trentesimo anniversario della rivoluzione iraniana.
Una donna é ripresa in controluce in
irradiazione estrema da una sorgente luminosa che s’apre misteriosamente alla
sue spalle da segreta provenienza; si riversa come un varco, uno vortice
irradiante dietro la figura ravvolta nel velo nero su uno sfondo reso opaco dal
grigiore del fondo fotografico. Dunque
la luce cade da un’origine misteriosa, rimbalza, piomba in diversi punti sulla
figura, sul suo volto reso irriconoscibile, preso in questa irradiazione che ne
acceca, abbaglia il volto fino a renderlo macchia luminosa contro il manto nero
che l’avvolge.
Stesso luogo, riprese in primo piano, sono
queste figure ieratiche, i volti d’una purezza assoluta nel contrasto tra il
pallore della pelle, delle mani, le sole parti del viso scoperte e la veste, il
velo nero che ne avvolge e nasconde completamente i corpi fino ai piedi. Sono,
ancora una volta, le donne piangenti ai piedi della croce, nella figurazione
della crocifissione del Cristo. Sono figure che, colte con tale immateriale
bellezza, rinviano all’iconografia sacra nelle sue infinite versioni reiterate
dalla nostra tradizione occidentale.
Come
in tutta l’opera fotografica di Pellegrin, l’urgenza di testimoniare, il dovere
di documentare riescono a fondersi con la trasfigurazione estetica dell’atto
fotografico, nel passaggio producendo immagini dalla profonda risonanza etica e
poetica. Le stesse appaiono andare alla radice del fatto o dell’istante
decisivo da esso generato, alla ricerca più del silenzio dell’immagine, d’una
sottrazione significante che d’una presenza documentaria imposta ad ogni costo.
[1] Bruce Mau, « Special, extra, mysterious, magical,
immesurable » dans Fashion Magazine, Silvana Editoriale, 2010
[2] Ibid., Mau
[3] Ibid., Mau