venerdì 10 febbraio 2012

...Liberamente suggerito da Krystian Lupa, "Sala d'attesa" ("Categoria 3.1" di Lars Noren) Théâtre de la Colline, Parigi







“Sala d’attesa” si situa in una zona liminale, zona di stazionamento, d'attesa indeterminata, attesa di non si sa che cosa, senza ragione, condizione apparente o casuale ritrovarsi d'esseri respinti ai margini, spinti fuori, sempre più rigettati sui bordi o volutamente errandovi in preda a strani stati di narcosi .
“Categoria 3.1” di Lars Noren è perdita di realtà,  perdita di sé stessi;
bassi-fondi della città, della scala sociale ma, anche, fondo della psiche, sottosuolo dell’esistenza cosciente, buco nero dell’anima dove sprofondare. E’ il fondo dell’animalità che portiamo in noi, questa zona interdetta alla norma, alla normativa del vivere sociale o morale, questo “di fuori”  che sfiora, si affaccia ai bordi della nostra esistenza cosciente, qui volutamente portato in scena, fatto esplodere,  passando attraverso la distruzione di individualità nell’ esperienza-limite della droga, dell’alcool o della malattia psichica.

 “Categoria 3.1 é un immenso materiale drammatico” afferma Lupa, un magazzino, una specie di deposito a multiple entrate, senza sapere esattamente cosa andarvi a cercare, cosa portare con sé varcandone la soglia. Testo magma, multiforme riserva di voci al quale attingere, questo materiale é in primo luogo una lingua, lingua che si situa ai margini del discorso, lingua che retrocede, discende a un livello più primitivo, precedente l’identità, aderendo allo stato lacerato dei personaggi. C'é tale discesa voluta anche nell'ambientazione, un parcheggio disseminato di rifiuti o una discarica impressa di graffiti, fatiscente bassofondo dove la scena si insidia . 
E’ una lingua  che delira insieme a chi la porta, che impazzisce urlando oscenità a piena voce, é una lingua che sputa, grida e inciampa su parole mozzicate, poi sogna ad occhi aperti  sdoppiandosi nell'immagine video come uno specchio interno al personaggio sotto l'effetto di qualche droga o per altri stati alterati di coscienza.

E' una lingua che impazzisce, che impreca, che strepita e affonda come questi corpi al suolo, rotola insieme a loro sul cemento colante di lordure, scorie e scarichi di rimessa, si rivolta nel fango dell'esistenza, manda in frantumi vetrate o bottiglie vuote. Poi, dal fondo della dissoluzione ritrova una parola altra, in limine. Sulla scena la ragazza sotto l'effetto di qualche narcotico erra in preda a stati allucinatori per arrestarsi d'improvviso  mentre gli altri continuano il loro guazzabuglio di strepiti e oscenità. L'immagine video s'apre ,  allora, sovrapponendosi in sdoppiamento su un piano parallelo, conducendo verso un'anteriorità,  uno spazio del  'di dentro/di fuori’ sprovvisto d'ogni verità psicologica:  uno spazio d'affioramento al limite della soggettività, brevi folgorazioni al margine di coscienza resi visibili della proiezione video. Tali stati affiorano come passaggi repentini tra  il corpo e la psiche, il baluginare di segni appena percettibili  nel fluttuare d'una semi-veglia, lampi o intermittenze della mente qui tradotti in immagini distanti, apparentemente disconnesse da quello che accade in scena, poi dalla voce dei monologhi fuori campo provenienti da un altrove; altra voce, altra parola per flussi poetici continui oppure per intermittenze, per tentativi frammentari, per scosse, esitazioni e riprese aderendo alla corporeità in azione. Superare le frontiere dell'individualità, trasgredire i limiti che sanciscono l'individuo all'interno di un sistema costituito, abbattere le barriere che lo separano da uno stadio d'essere più primitivo, più vicino all’indistinto significa, paradossalmente, avere accesso a un altro uso del linguaggio, aprire un'altro spazio d'essere nella lingua che invalida la comunicazione razionale,  tuttavia dandosi in folgorazioni improvvise, strettamente connesse all' esistenza sensibile, a stati fisici, corporei qui  esteriorizzati attraverso il monologo teatrale.




“Capita frequentemente che il linguaggio non sia in fase con la nostra anima, afferma il regista; momenti in cui le cose che vorremmo esprimere diventano difficili o impossibili a dirsi. La lingua ha un ruolo distruttore, ha tendenza a annullare, a comprimere, a reprimere l'essere umano a partire dal momento in cui trasforma i nostri pensieri, sensazioni o paure attraverso la mediazione della parola”. Il testo esplora stati di coscienza alterati, individui gravitando in uno stadio di sospensione atemporale, di indefinita non- esistenzia, rigettati in questo“di-fuori” del vivere comune, d'un pensiero razionale, d'un linguaggio atto a  esprimerlo. La dissoluzione dell’io , la perdita di realtà, la perdita di sé come depersonalizzazione, tuttavia, danno accesso, paradossalmente  a una zona franca, a uno spazio d’essere del linguaggio liberato dalle costrizioni della logica condivisa e d'un pensiero da essa formulato.

E’ tale caduta, il precipitare verso il basso delle vite dei personaggi, lì dove la maggior parte non vorrebbe discendere, non potrebbe, anche volendo andare,  che  da accesso a tale zona- limite della coscienza dalla quale fare baluginare segni, parole, indici da un altro linguaggio.
 “Tutti questi gesti segreti, misteriosi, gesti remoti, famigliari, nascosti, dissimulati, gesti che emanano un certo odore e una certa intimità non teatrale dei personaggi, sprovvista di psicologia proveniente, tuttavia, da un nodo di vita non drammatico, un nodo di vita denso, caricato, pesante da portare, mal costituito... E’ un teatro dell’assenza di intrigo, d’avvenimenti d’ordine mentale, affioramenti di materia, d’esistenza, l’esistenza che scorre e la materia misteriosa dei suoi richiami…”

Spetta al lavoro di messa in scena  far affiorare queste escrescenze, queste aperture brevi e impensate, questi frammenti scintillanti d’un qualcosa d'abitato, vivente che si lascia illuminare nella carne del personaggio-interprete. Il lavoro sull’attore, nella simbiosi che instaura con il personaggio, poi il processo di improvvisazione  sviluppato intorno al monologo interiore, divengono strumenti centrali  per la costruzione dell’atto teatrale in Lupa, cio' che  dilegua, necessariamente, ogni idea di intreccio narrativo, racconto o storia.  Tanto più che un circuito è stabilito tra l’attore in identificazione libera al personaggio e lo spettatore nell'atto del guardare, direttamente interpellato, scosso, chiamato in causa, a volte violentemente indirizzato, chiamato a entrare nel gioco drammaturgico. Nell’ultima scena tutti i giovani attori sono seduti in proscenio di fronte al pubblico, in questo sguardo lento che si prolunga, si sofferma, s'offre senza mediazione;  maschere nude portando con sé il tempo dell’attraversamento, la prova della scena, i segni della fatica, dello spossamento fisico e emozionale,  semplicemente dandosi in questa esposizione senza riserve, in un guardare che a sua volta, domanda un altro sguardo di ritorno, riflesso, senza risposta.

“Comprendere l'altro é coagire con lui, entrare nella sua parola”, forse fino alla soglia della sua pelle, afferma Lupa. “L'artista é giustamente quel folle che vuole comprendere altri folli”, discendere insieme a loro per poi tornare indietro, riportare alla luce la propria visione. “Affondo interamente nei testi che adatto, mi privo dall' inizio della distanza perché so che, comunque, non riuscirei ad abolirla completamente”. I giovani attori sono chiamati, allo stesso modo, ad assimilarsi, a incorporare o portare parte del loro  immaginario dentro la partitura dei personaggi attraverso il lavoro di improvvisazione sui monologhi. Da una parte devono scavare, ritrovare in loro gli stessi meccanismi psichici subcoscienti, le stesse pulsioni distruttive abitanti la loro generazione tesa verso l’età adulta, gli stessi germi patologici d'astenia, di disagio sociale, di malessere esistenziale. Dall’altra parte, è come se il testo di Lars Noren debba  ricongiungersi alla materia vivente della scena, corto-circuitare, farsi carne e sangue, azione riflettente, dunque modificare il proprio stato stabilendo in questo modo un punto di giuntura, una continuità tra lo scritto e la materia abitata dei corpi.
Afferma Lupa: “Non so perché ma questa zona apporta al nostro immaginario un flusso simbolico. Abbiamo voglia di cadere insieme a loro, d’affondare, qualche volta, nei loro sogni d’orrore”. Il testo, in questo senso, è trattato come una materia bruta alla quale attingere ma dove non restare imprigionati per rispettare la sua letterarietà. Trascendendo i limiti  della sua parola, funziona come un palinsesto, sovrapposizione di strati dove si indovinano tracce di strati precedenti. Gli attori, dunque, per primi sono chiamati a discendere con il  proprio corpo, all’interno del testo a cercare, ad attingere da questo versante oscuro o zona di insondabilità celata, non visibile tuttavia tanto più presente, ambigua, intaccata della  psiche.

Nel processo di improvvisazione si pone una situazione data, una limitazione spaziale, si creano le condizioni perché qualcosa possa accadere, uno spazio aperto perché  un avvenimento oppure la sua assenza abitata, l' irruzione di qualcosa o un niente carico di presenza possa attraversare. Un pezzo di muro, un antro fatiscente dove andrebbe a ripararsi un mendicante, il tempo d'un ora e una telecamera per fare sorgere qualcosa, creare a partire da uno spazio dato.

Accollarsi al testo  apportandovi un proprio sotto-testo in questo incontro tra attore e personaggio, lasciare fare al gioco dei monologhi improvvisati, come a un magma vivente che deve lasciarsi scorrere, colare liberamente su scena. E' giustamente nello spazio dell'improvvisazione, per strane “alchimie corporee e della voce” che le situazioni sceniche più giuste, più sintetiche e rivelatrici appaiono. Lupa nomina, qui l'idea di “sotto-testo”,  minuscoli “movimenti d'ombra”, movimenti abbozzati, appena accennati, lasciati sorgere come momenti di verità, la giustezza d'una situazione scenica, quello che si é incapaci di esprimere a parole, perlomeno le parole  in senso ordinario e che passa per il desiderio di liberarsi delle regole del linguaggio di realtà, cercando un altro modo di dirsi, un'altra libertà attraverso la voce e il corpo.




( Blanchot, “l'uomo non sa nulla dell'intrusione del basso alla quale é esposto, si trova  all'interno d'un sistema di valori che  ha altro scopo  di coprire e controllare l'irrazionale attraverso il quale é portata la nostra vita sulla terra. )


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