“Sala d’attesa” si situa in una
zona liminale, zona di stazionamento, d'attesa indeterminata, attesa di non si
sa che cosa, senza ragione, condizione apparente o casuale ritrovarsi d'esseri
respinti ai margini, spinti fuori, sempre più rigettati sui bordi o volutamente
errandovi in preda a strani stati di narcosi .
“Categoria 3.1” di Lars Noren è
perdita di realtà, perdita di sé stessi;
bassi-fondi della città, della
scala sociale ma, anche, fondo della psiche, sottosuolo dell’esistenza
cosciente, buco nero dell’anima dove sprofondare. E’ il fondo dell’animalità
che portiamo in noi, questa zona interdetta alla norma, alla normativa del
vivere sociale o morale, questo “di fuori”
che sfiora, si affaccia ai bordi della nostra esistenza cosciente, qui
volutamente portato in scena, fatto esplodere,
passando attraverso la distruzione di individualità nell’
esperienza-limite della droga, dell’alcool o della malattia psichica.
“Categoria 3.1 é un immenso materiale
drammatico” afferma Lupa, un magazzino, una specie di deposito a multiple
entrate, senza sapere esattamente cosa andarvi a cercare, cosa portare con sé
varcandone la soglia. Testo magma, multiforme riserva di voci al quale
attingere, questo materiale é in primo luogo una lingua, lingua che si situa ai
margini del discorso, lingua che retrocede, discende a un livello più
primitivo, precedente l’identità, aderendo allo stato lacerato dei personaggi.
C'é tale discesa voluta anche nell'ambientazione, un parcheggio disseminato di
rifiuti o una discarica impressa di graffiti, fatiscente bassofondo dove la
scena si insidia .
E’ una lingua che delira insieme a chi la porta, che impazzisce urlando oscenità a piena voce, é una lingua che sputa, grida e inciampa su parole mozzicate, poi sogna ad occhi aperti sdoppiandosi nell'immagine video come uno specchio interno al personaggio sotto l'effetto di qualche droga o per altri stati alterati di coscienza.
E’ una lingua che delira insieme a chi la porta, che impazzisce urlando oscenità a piena voce, é una lingua che sputa, grida e inciampa su parole mozzicate, poi sogna ad occhi aperti sdoppiandosi nell'immagine video come uno specchio interno al personaggio sotto l'effetto di qualche droga o per altri stati alterati di coscienza.
E' una lingua che impazzisce, che
impreca, che strepita e affonda come questi corpi al suolo, rotola insieme a
loro sul cemento colante di lordure, scorie e scarichi di rimessa, si rivolta
nel fango dell'esistenza, manda in frantumi
vetrate o bottiglie vuote. Poi, dal fondo della dissoluzione ritrova una
parola altra, in limine. Sulla scena la ragazza sotto l'effetto di qualche
narcotico erra in preda a stati allucinatori per arrestarsi d'improvviso mentre gli altri continuano il loro
guazzabuglio di strepiti e oscenità. L'immagine video s'apre , allora, sovrapponendosi in sdoppiamento su un
piano parallelo, conducendo verso un'anteriorità, uno spazio del 'di dentro/di fuori’
sprovvisto d'ogni verità psicologica:
uno spazio d'affioramento al limite della soggettività, brevi
folgorazioni al margine di coscienza resi visibili della proiezione video. Tali
stati affiorano come passaggi repentini tra
il corpo e la psiche, il baluginare di segni appena percettibili nel fluttuare d'una semi-veglia, lampi o
intermittenze della mente qui tradotti in immagini distanti, apparentemente
disconnesse da quello che accade in scena, poi dalla voce dei monologhi fuori
campo provenienti da un altrove; altra voce, altra parola per flussi poetici
continui oppure per intermittenze, per tentativi frammentari, per scosse,
esitazioni e riprese aderendo alla corporeità in azione. Superare le frontiere
dell'individualità, trasgredire i limiti che sanciscono l'individuo all'interno
di un sistema costituito, abbattere le barriere che lo separano da uno stadio
d'essere più primitivo, più vicino all’indistinto significa, paradossalmente,
avere accesso a un altro uso del linguaggio, aprire un'altro spazio d'essere
nella lingua che invalida la comunicazione razionale, tuttavia dandosi in folgorazioni improvvise,
strettamente connesse all' esistenza sensibile, a stati fisici, corporei
qui esteriorizzati attraverso il
monologo teatrale.
“Capita frequentemente che il
linguaggio non sia in fase con la nostra anima, afferma il regista; momenti in
cui le cose che vorremmo esprimere diventano difficili o impossibili a dirsi.
La lingua ha un ruolo distruttore, ha tendenza a annullare, a comprimere, a
reprimere l'essere umano a partire dal momento in cui trasforma i nostri
pensieri, sensazioni o paure attraverso la mediazione della parola”. Il testo
esplora stati di coscienza alterati, individui gravitando in uno stadio di
sospensione atemporale, di indefinita non- esistenzia, rigettati in
questo“di-fuori” del vivere comune, d'un pensiero razionale, d'un linguaggio
atto a esprimerlo. La dissoluzione
dell’io , la perdita di realtà, la perdita di sé come depersonalizzazione,
tuttavia, danno accesso, paradossalmente
a una zona franca, a uno spazio d’essere del linguaggio liberato dalle
costrizioni della logica condivisa e d'un pensiero da essa formulato.
E’ tale caduta, il precipitare
verso il basso delle vite dei personaggi, lì dove la maggior parte non vorrebbe
discendere, non potrebbe, anche volendo andare,
che da accesso a tale zona- limite
della coscienza dalla quale fare baluginare segni, parole, indici da un altro
linguaggio.
“Tutti questi gesti segreti, misteriosi, gesti
remoti, famigliari, nascosti, dissimulati, gesti che emanano un certo odore e
una certa intimità non teatrale dei personaggi, sprovvista di psicologia
proveniente, tuttavia, da un nodo di vita non drammatico, un nodo di vita
denso, caricato, pesante da portare, mal costituito... E’ un teatro dell’assenza
di intrigo, d’avvenimenti d’ordine mentale, affioramenti di materia,
d’esistenza, l’esistenza che scorre e la materia misteriosa dei suoi richiami…”
Spetta al lavoro di messa in
scena far affiorare queste escrescenze,
queste aperture brevi e impensate, questi frammenti scintillanti d’un qualcosa
d'abitato, vivente che si lascia illuminare nella carne del personaggio-interprete.
Il lavoro sull’attore, nella simbiosi che instaura con il personaggio, poi il
processo di improvvisazione sviluppato
intorno al monologo interiore, divengono strumenti centrali per la costruzione dell’atto teatrale in
Lupa, cio' che dilegua, necessariamente,
ogni idea di intreccio narrativo, racconto o storia. Tanto più che un circuito è stabilito tra
l’attore in identificazione libera al personaggio e lo spettatore nell'atto del
guardare, direttamente interpellato, scosso, chiamato in causa, a volte
violentemente indirizzato, chiamato a entrare nel gioco drammaturgico.
Nell’ultima scena tutti i giovani attori sono seduti in proscenio di fronte al
pubblico, in questo sguardo lento che si prolunga, si sofferma, s'offre senza
mediazione; maschere nude portando con
sé il tempo dell’attraversamento, la prova della scena, i segni della fatica,
dello spossamento fisico e emozionale,
semplicemente dandosi in questa esposizione senza riserve, in un
guardare che a sua volta, domanda un altro sguardo di ritorno, riflesso, senza
risposta.
“Comprendere l'altro é coagire con
lui, entrare nella sua parola”, forse fino alla soglia della sua pelle, afferma
Lupa. “L'artista é giustamente quel folle che vuole comprendere altri folli”,
discendere insieme a loro per poi tornare indietro, riportare alla luce la
propria visione. “Affondo interamente nei testi che adatto, mi privo dall'
inizio della distanza perché so che, comunque, non riuscirei ad abolirla
completamente”. I giovani attori sono chiamati, allo stesso modo, ad
assimilarsi, a incorporare o portare parte del loro immaginario dentro la partitura dei
personaggi attraverso il lavoro di improvvisazione sui monologhi. Da una parte
devono scavare, ritrovare in loro gli stessi meccanismi psichici subcoscienti,
le stesse pulsioni distruttive abitanti la loro generazione tesa verso l’età
adulta, gli stessi germi patologici d'astenia, di disagio sociale, di malessere
esistenziale. Dall’altra parte, è come se il testo di Lars Noren debba ricongiungersi alla materia vivente della
scena, corto-circuitare, farsi carne e sangue, azione riflettente, dunque
modificare il proprio stato stabilendo in questo modo un punto di giuntura, una
continuità tra lo scritto e la materia abitata dei corpi.
Afferma Lupa: “Non so perché ma
questa zona apporta al nostro immaginario un flusso simbolico. Abbiamo voglia
di cadere insieme a loro, d’affondare, qualche volta, nei loro sogni d’orrore”.
Il testo, in questo senso, è trattato come una materia bruta alla quale
attingere ma dove non restare imprigionati per rispettare la sua letterarietà.
Trascendendo i limiti della sua parola, funziona come un palinsesto,
sovrapposizione di strati dove si indovinano tracce di strati precedenti. Gli
attori, dunque, per primi sono chiamati a discendere con il proprio corpo, all’interno del testo a
cercare, ad attingere da questo versante oscuro o zona di insondabilità celata,
non visibile tuttavia tanto più presente, ambigua, intaccata della psiche.
Nel processo di improvvisazione si
pone una situazione data, una limitazione spaziale, si creano le condizioni
perché qualcosa possa accadere, uno spazio aperto perché un avvenimento oppure la sua assenza abitata,
l' irruzione di qualcosa o un niente carico di presenza possa attraversare. Un
pezzo di muro, un antro fatiscente dove andrebbe a ripararsi un mendicante, il
tempo d'un ora e una telecamera per fare sorgere qualcosa, creare a partire da
uno spazio dato.
Accollarsi al testo apportandovi un proprio sotto-testo in questo
incontro tra attore e personaggio, lasciare fare al gioco dei monologhi
improvvisati, come a un magma vivente che deve lasciarsi scorrere, colare
liberamente su scena. E' giustamente nello spazio dell'improvvisazione, per
strane “alchimie corporee e della voce” che le situazioni sceniche più giuste,
più sintetiche e rivelatrici appaiono. Lupa nomina, qui l'idea di
“sotto-testo”, minuscoli “movimenti
d'ombra”, movimenti abbozzati, appena accennati, lasciati sorgere come momenti
di verità, la giustezza d'una situazione scenica, quello che si é incapaci di
esprimere a parole, perlomeno le parole
in senso ordinario e che passa per il desiderio di liberarsi delle
regole del linguaggio di realtà, cercando un altro modo di dirsi, un'altra
libertà attraverso la voce e il corpo.
( Blanchot, “l'uomo non sa nulla
dell'intrusione del basso alla quale é esposto, si trova all'interno d'un sistema di valori che ha altro scopo di coprire e controllare l'irrazionale
attraverso il quale é portata la nostra vita sulla terra. )
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