martedì 1 aprile 2025

“Grant on Photography”, giovani artisti al Mast di Bologna










Cinque artisti della più giovane generazione , finalisti del “Mast photography Grant ” espongono attualmente al Mast di Bologna in un progetto originale e inedito incentrato sui temi di lavoro, industria nella sua ultima evoluzione tecnologica e digitale che  trasversalmente incrocia quello dell’immigrazione sullo sfondo di un mondo globale partendo dalle realtà post-coloniali da cui molti di essi provengono.  Il dialogo si presenta sin da subito come inter-generazionale tra questi giovani fotografi e i loro predecessori, genitori o nonni riportandoci alla storia di paesi post-coloniali in Africa centrale, all’ Iran oppure a realtà marginali come la Polonia rispetto alla visione dominante del mondo occidentale.

Da un artista all’altro attraverso proposte stilisticamente differenti, inedite  quanto di grande creatività le tematiche si riconnettono,  tessendo una rete comune in un gioco di multipli rinvii : la ricerca di vie di fuga verso futuri più giusti per tutta la specie per l’iraniana Sheida Soleimani, la lotta contro una xenofobia sistemica verso tutti i migranti per Kai Wasikowski, infine l’industria  4.0 che si confronta alle nuove automatizzazioni prodotte  dal’ IA applicata  ai processi produttivi.


Kai Wasikowski compie un viaggio a ritroso, reale e metaforico, dall’Australia paese di immigrazione della famiglia alla Polonia paese di provenienza della nonna e insieme a lei riscrive a distanza di anni in un reportage fotografico la memoria famigliare dove momenti di intimità come la passione per l’apicultura si sovrappongono al tema dell’immigrazione e della xenofobia.  Collage di fotografie intimiste, dettagli su oggetti insignificanti della vita quotidiana in Australia ora in Polonia, riempiono in un vero e proprio catalogo visivo l’immensa parete dell’installazione fotografica creando questo mosaico di minuscoli momenti che ricostruiscono a ritroso la storia di un’esistenza.   


Come scrive Wasikowski: “Il punto di partenza è mia nonna emigrata negli anni ‘70 dalla Polonia all’Australia insieme a mia madre a bordo di una nave da carico. (..)E’ un’esperienza comune a molti lavoratori migranti che hanno dovuto combattere gli effetti della xenofobia sistemica e spesso si sono visti negare un posto di lavoro nel settore da cui provenivano”. Sulla parete immensa del Mast i visitatori restano in primo luogo sorpresi da questo grandioso inventario fotografico dato da una serie di riquadri ciascuno incorporando un oggetto, un piccolo dettaglio, simile a una tassonomia del quotidiano intorno al teme della cura delle api, la prima grande passione della nonna. Con auto-ironia si rappresenta in una foto coperta da una tuta a svariati colori, copricapo rosa e pantofole lise sotto la cortina blindata di tela che le protegge il volto mentre si accinge al delicato lavoro di estrazione del miele dagli alveari. Trasferimento di alveari come migrazione di  persone attraverso i più comuni movimenti migratori dall’est all’ovest del continente europeo. Una serie di temi si intrecciano in queste foto invitandoci implicitamente a riflettere con una certa leggerezza ed ironia; le immagini scorrono tra i luoghi perduti di una prima vita e quelli ritrovati in una seconda nel corso di questo viaggio a ritroso reale e fotografico nel tempo e nello spazio verso una rivisitazione della memoria.

 



 Flyways” ( Rotte migratorie) dell’iraniana Sheida Soleimani, opera vincitrice al Grant on Photography , ci parla di simboliche vie di fuga che si delineano come messaggi  criptati all’interno delle sue composizioni/collage fotografici per combattere la censura e la repressione subita dalle donne iraniane del movimento “Donna, vita, libertà”. Il lavoro dell’artista dal forte impatto politico è stato profondamente segnato dalle persecuzioni subite dalla famiglia in Iran fino all’esilio negli Stati Uniti ma, anche, dal suo ruolo di operatrice per la riabilitazione della fauna selvatica in una clinica chiamata“Congress of the birds”.Da una parte, dunque sono le immagini di uccelli migratori (affidati alle sue cure) feriti dalle infrastrutture create dall’uomo nella logica della loro detenzione; dall’altra sono gli oggetti simbolici carichi di significato come un telefono, lettere scritte, ganci che imprigionano o barriere che separano lì aggiunti nel montaggio fotografico per produrre una sorta di shock visivo nello spettatore: libera associazione di idee, un pensiero critico e creativo.




 “Flyways” sono rotte migratorie in grado di trasmettere messaggi criptati preservando l’incolumità dei rifugiati, in primo luogo i genitori esiliati quanto i volti reali delle donne iraniane facendo parlare al loro posto oggetti simbolici, uccelli o altri rapaci feriti all’interno di scenari  fotografici accuratamente composti. Ci parlano di storie di fuga o di prigionia; sono grida tacite di libertà, comunicazioni telefoniche interrotte, scambi di lettere mai giunti a destinazione, ombre di aerei che si profilano minacciosi all’orizzonte e ancora le feritoie dove gli uccelli rimangono imbrigliati o feriti. Compaiono artigli, becchi,dettagli di rapaci feriti ma anche le mappe geografiche e il profilo delle montagne dove il padre di Soleimani è fuggito per raggiungere per primo la terra della libertà fuori dalla persecuzione  politica iraniana.




Ritratti di donne africane commercianti di tessuto stampato  in Togo sono al centro del lavoro di  Silvia Rosi “Kodi”.  Queste stampe wax molto diffuse dagli oltre 350 mila disegni colorati  sono parte integrante della vita urbana nel continente africano da Johannesburg, a Nairobi,da Dakar a Bamako. Con esse si realizzano abiti, camicie, scarpe, ombrelli e rivestimenti per mobili. La serie di ritratti di Silvia Tosi artista italiana di origine toghese rende omaggio  proprio alla storia di queste donne  commercianti che controllavano la compravendita dei tessuti. A Lomé in Togo quali prime donne d’affari venivano chiamate “Nana Benz” sfoggiando lussuose automobili al proliferare dei loro commerci. Da ricerche effettuate durante il suo viaggio in Togo la fotografa scopre che esse sostenevano in segreto il movimento per l’indipendenza del paese trasportando messaggi criptati nascosti dentro le stampe dei tessuti da una parte all’altra della città.

Le stampe in negativo illuminano i profili, i volti, gli abiti come assistessimo a un effetto di sovra-esposizione luminosa, un sorte di controluce violento dove le figure si stagliano irradiate sullo sfondo, viste spesso di schiena dallo spettatore oppure in un iconico profilo mentre le ombre divengono immagine, il bianco volge in nero e viceversa. La stampa del negativo prima che divenga fotografia giunge in qualche modo a stravolgere i termini estetici della rappresentazione ,  restituendo dignità e bellezza a queste donne riportate al centro della scena nella lotta per l’indipendenza del paese come le protagoniste infine.  In tale società gerarchica dove non avevano voce in capitolo Rosi sembra restituire pieno potere e dignità al femminile oltre gli stereotipi dei ritratti in studio nella tradizione africana.


Gosette Lubondo, “Imaginary trip III”




Le industrie nella provincia del Congo Centrale parte integrante della “missione civilizzatrice”voluta  in epoca coloniale sono state progressivamente disertate negli anni successivi alla fine del colonialismo. Tali fabbriche di matrice imperialista erano per lo più specializzate nella produzione di legname e prodotti regionali. Le fotografie di Gosette Lubondo ritornano come in un viaggio onirico questi edifici ormai abbandonati dove la vegetazione ha preso il sopravvento e la natura si è gradualmente insediata impossessandosi delle fabbriche, dei muri, dei vecchi macchinari. Come per far rivivere in qualche modo lo spirito intimo di quei luoghi ormai dimenticati mette in scena sé stessa insieme a uomini che come presenze o apparizioni irreali _ gli ex-operai visti  in doppia- esposizione secondo la tecnica surrealista _ continuano a sorvegliare tali edifici sopraffatti dalla natura indomita che ha continuato a proliferare intorno.  Là si confrontano l’utopia mai realizzata di una possibile resurrezione per il paese legata a quelle industrie e il canto elegiaco immerso nella natura e colmo di nostalgia di fronte al fallimento di quel sogno. Le figure sono catturate in pose statiche sedute, immobili tra le mura della fabbrica oppure mentre si muovono come ombre tra gli alberi e i ruderi del’edificio circondati da una vegetazione selvaggia e lussureggiante. In tale dicotomia irrisolta tra apparizione e realtà, presenza e assenza. 

Felicity Hammond, “Autonomous Body”


La carcassa di un auto compressa saldata a tre pannelli verticali diviene l’ossatura di un collage dove sullo sfondo compaiono in un’immagine digitale  volutamente sfuocata cave di litio e miniere di carbone sulla quale si sovrappone una ragnatela di schegge evocando tra le linee la memoria di un incidente stradale. In “Autonomous body” l’intimo e il collettivo si confondono in questo collage che da un lato ci parla dell’ultima frontiera dell’industria automobilistica dal carbone del passato al litio delle auto elettriche di oggi basate sull’IA per la produzione dei veicoli. Da un altro punto di vista, l’installazione rimanda al legame profondo dell’artista cresciuta nella zona di Birmingham con l’industria automobilistica per la quale il padre lavorava, fino ad evocare l’incidente nel quale perse la vita un suo caro amico.  Nell’assemblaggio complesso denso di significati leggibili nell’opera della Hammond troviamo il passaggio dall’auto-motive simbolo dell’industrializzazione del ‘900_ gli stessi ingranaggi dei cerchi in lega decorati con pattern a idro-pittura esposti _  alle nuove frontiere dell’industria automobilistica che si confronta con automatizzazione  dell’IA e l’auto a guida autonoma.  Tale, per Hammond, diviene anche la metafora della fotografia digitale:  una macchina  che genera infinite immagini oltre il controllo del soggetto e di cui l’incidente automobilistico rappresenterebbe  la frontiera ultima dell’alienazione dell’uomo dalla natura.  Lei, come gli altri giovani artisti esposti al Mast, ancora un volta evocano, dall’intimo al collettivo, alcuni paradossi del mondo attuale tra l’illimitato avanzamento tecnologico e le derive prodotte dal medesimo, tra immigrazione e utopia di una società globale, sempre e comunque in un dialogo aperto tra il prossimo a-venire e , un ritorno necessario  alle radici del passato.