Cinque artisti della più giovane generazione ,
finalisti del “Mast photography Grant ” espongono attualmente al Mast di Bologna in un
progetto originale e inedito incentrato sui temi di lavoro, industria nella sua
ultima evoluzione tecnologica e digitale che
trasversalmente incrocia quello dell’immigrazione sullo sfondo di un
mondo globale partendo dalle realtà post-coloniali da cui molti di essi provengono. Il dialogo si presenta sin da subito come inter-generazionale
tra questi giovani fotografi e i loro predecessori, genitori o nonni riportandoci
alla storia di paesi post-coloniali in Africa centrale, all’ Iran oppure a realtà
marginali come la Polonia rispetto alla visione dominante del mondo occidentale.
Da un artista all’altro attraverso proposte
stilisticamente differenti, inedite
quanto di grande creatività le tematiche si riconnettono, tessendo una rete comune in un gioco di multipli
rinvii : la ricerca di vie di fuga verso futuri più giusti per tutta la specie
per l’iraniana Sheida Soleimani, la lotta contro una xenofobia sistemica verso tutti
i migranti per Kai Wasikowski, infine l’industria 4.0 che si confronta alle nuove automatizzazioni
prodotte dal’ IA applicata ai processi produttivi.
Kai Wasikowski compie un
viaggio a ritroso, reale e metaforico, dall’Australia paese di immigrazione
della famiglia alla Polonia paese di provenienza della nonna e insieme a lei
riscrive a distanza di anni in un reportage fotografico la memoria famigliare
dove momenti di intimità come la passione per l’apicultura si sovrappongono al
tema dell’immigrazione e della xenofobia. Collage di fotografie intimiste, dettagli su
oggetti insignificanti della vita quotidiana in Australia ora in Polonia, riempiono
in un vero e proprio catalogo visivo l’immensa parete dell’installazione
fotografica creando questo mosaico di minuscoli momenti che ricostruiscono a
ritroso la storia di un’esistenza.
Come scrive Wasikowski: “Il punto di partenza è mia nonna emigrata negli anni ‘70 dalla Polonia
all’Australia insieme a mia madre a bordo di una nave da carico. (..)E’
un’esperienza comune a molti lavoratori migranti che hanno dovuto combattere
gli effetti della xenofobia sistemica e spesso si sono visti negare un posto di
lavoro nel settore da cui provenivano”. Sulla parete immensa del Mast i
visitatori restano in primo luogo sorpresi da questo grandioso inventario
fotografico dato da una serie di riquadri ciascuno incorporando un oggetto, un piccolo
dettaglio, simile a una tassonomia del quotidiano intorno al teme della cura
delle api, la prima grande passione della nonna. Con auto-ironia si rappresenta
in una foto coperta da una tuta a svariati colori, copricapo rosa e pantofole
lise sotto la cortina blindata di tela che le protegge il volto mentre si
accinge al delicato lavoro di estrazione del miele dagli alveari. Trasferimento
di alveari come migrazione di persone
attraverso i più comuni movimenti migratori dall’est all’ovest del continente
europeo. Una serie di temi si intrecciano in queste foto invitandoci
implicitamente a riflettere con una certa leggerezza ed ironia; le immagini
scorrono tra i luoghi perduti di una prima vita e quelli ritrovati in una
seconda nel corso di questo viaggio a ritroso reale e fotografico nel tempo e
nello spazio verso una rivisitazione della memoria.
“Flyways” ( Rotte migratorie) dell’iraniana
Sheida Soleimani, opera vincitrice al Grant on Photography , ci parla di simboliche
vie di fuga che si delineano come messaggi criptati all’interno delle sue
composizioni/collage fotografici per combattere la censura e la repressione subita
dalle donne iraniane del movimento “Donna, vita, libertà”. Il lavoro dell’artista
dal forte impatto politico è stato profondamente segnato dalle persecuzioni
subite dalla famiglia in Iran fino all’esilio negli Stati Uniti ma, anche, dal
suo ruolo di operatrice per la riabilitazione della fauna selvatica in una clinica
chiamata“Congress of the birds”.Da una parte, dunque sono le immagini di
uccelli migratori (affidati alle sue cure) feriti dalle infrastrutture create
dall’uomo nella logica della loro detenzione; dall’altra sono gli oggetti
simbolici carichi di significato come un telefono, lettere scritte, ganci che
imprigionano o barriere che separano lì aggiunti nel montaggio fotografico per
produrre una sorta di shock visivo nello spettatore: libera associazione di
idee, un pensiero critico e creativo.
“Flyways”
sono rotte migratorie in grado di trasmettere messaggi criptati preservando
l’incolumità dei rifugiati, in primo luogo i genitori esiliati quanto i volti
reali delle donne iraniane facendo parlare al loro posto oggetti simbolici,
uccelli o altri rapaci feriti all’interno di scenari fotografici accuratamente composti. Ci parlano
di storie di fuga o di prigionia; sono grida tacite di libertà, comunicazioni
telefoniche interrotte, scambi di lettere mai giunti a destinazione, ombre di
aerei che si profilano minacciosi all’orizzonte e ancora le feritoie dove gli
uccelli rimangono imbrigliati o feriti. Compaiono artigli, becchi,dettagli di
rapaci feriti ma anche le mappe geografiche e il profilo delle montagne dove il
padre di Soleimani è fuggito per raggiungere per primo la terra della libertà
fuori dalla persecuzione politica
iraniana.
Ritratti di donne africane commercianti di
tessuto stampato in Togo sono al centro
del lavoro di Silvia Rosi “Kodi”. Queste stampe wax molto
diffuse dagli oltre 350 mila disegni colorati
sono parte integrante della vita urbana nel continente africano da
Johannesburg, a Nairobi,da Dakar a Bamako. Con esse si realizzano abiti,
camicie, scarpe, ombrelli e rivestimenti per mobili. La serie di ritratti di Silvia
Tosi artista italiana di origine toghese rende omaggio proprio alla storia di queste donne commercianti che controllavano la
compravendita dei tessuti. A Lomé in Togo quali prime donne d’affari venivano
chiamate “Nana Benz” sfoggiando lussuose automobili al proliferare dei loro commerci.
Da ricerche effettuate durante il suo viaggio in Togo la fotografa scopre che
esse sostenevano in segreto il movimento per l’indipendenza del paese trasportando
messaggi criptati nascosti dentro le stampe dei tessuti da una parte all’altra
della città.
Le stampe in negativo illuminano i profili, i volti, gli abiti come assistessimo a un effetto di sovra-esposizione luminosa, un sorte di controluce violento dove le figure si stagliano irradiate sullo sfondo, viste spesso di schiena dallo spettatore oppure in un iconico profilo mentre le ombre divengono immagine, il bianco volge in nero e viceversa. La stampa del negativo prima che divenga fotografia giunge in qualche modo a stravolgere i termini estetici della rappresentazione , restituendo dignità e bellezza a queste donne riportate al centro della scena nella lotta per l’indipendenza del paese come le protagoniste infine. In tale società gerarchica dove non avevano voce in capitolo Rosi sembra restituire pieno potere e dignità al femminile oltre gli stereotipi dei ritratti in studio nella tradizione africana.
Gosette Lubondo,
“Imaginary trip III”
Le industrie nella provincia del Congo
Centrale parte integrante della “missione civilizzatrice”voluta in epoca coloniale sono state progressivamente
disertate negli anni successivi alla fine del colonialismo. Tali fabbriche di
matrice imperialista erano per lo più specializzate nella produzione di legname
e prodotti regionali. Le fotografie di Gosette Lubondo ritornano come in un
viaggio onirico questi edifici ormai abbandonati dove la vegetazione ha preso
il sopravvento e la natura si è gradualmente insediata impossessandosi delle
fabbriche, dei muri, dei vecchi macchinari. Come per far rivivere in qualche
modo lo spirito intimo di quei luoghi ormai dimenticati mette in scena sé
stessa insieme a uomini che come presenze o apparizioni irreali _ gli ex-operai
visti in doppia- esposizione secondo la
tecnica surrealista _ continuano a sorvegliare tali edifici sopraffatti dalla
natura indomita che ha continuato a proliferare intorno. Là si confrontano l’utopia mai realizzata di
una possibile resurrezione per il paese legata a quelle industrie e il canto
elegiaco immerso nella natura e colmo di nostalgia di fronte al fallimento di quel
sogno. Le figure sono catturate in pose statiche sedute, immobili tra le mura
della fabbrica oppure mentre si muovono come ombre tra gli alberi e i ruderi
del’edificio circondati da una vegetazione selvaggia e lussureggiante. In tale
dicotomia irrisolta tra apparizione e realtà, presenza e assenza.
Felicity Hammond, “Autonomous Body”
La carcassa di un auto compressa saldata a tre
pannelli verticali diviene l’ossatura di un collage dove sullo sfondo compaiono
in un’immagine digitale volutamente
sfuocata cave di litio e miniere di carbone sulla quale si sovrappone una
ragnatela di schegge evocando tra le linee la memoria di un incidente stradale.
In “Autonomous body” l’intimo e il collettivo si confondono in questo collage
che da un lato ci parla dell’ultima frontiera dell’industria automobilistica
dal carbone del passato al litio delle auto elettriche di oggi basate sull’IA
per la produzione dei veicoli. Da un altro punto di vista, l’installazione
rimanda al legame profondo dell’artista cresciuta nella zona di Birmingham con
l’industria automobilistica per la quale il padre lavorava, fino ad evocare
l’incidente nel quale perse la vita un suo caro amico. Nell’assemblaggio complesso denso di significati
leggibili nell’opera della Hammond troviamo il passaggio dall’auto-motive
simbolo dell’industrializzazione del ‘900_ gli stessi ingranaggi dei cerchi in
lega decorati con pattern a idro-pittura esposti _ alle nuove frontiere dell’industria
automobilistica che si confronta con automatizzazione dell’IA e l’auto a guida autonoma. Tale, per Hammond, diviene anche la metafora
della fotografia digitale: una
macchina che genera infinite immagini
oltre il controllo del soggetto e di cui l’incidente automobilistico
rappresenterebbe la frontiera ultima
dell’alienazione dell’uomo dalla natura.
Lei, come gli altri giovani artisti esposti al Mast, ancora un volta evocano,
dall’intimo al collettivo, alcuni paradossi del mondo attuale tra l’illimitato
avanzamento tecnologico e le derive prodotte dal medesimo, tra immigrazione e
utopia di una società globale, sempre e comunque in un dialogo aperto tra il
prossimo a-venire e , un ritorno necessario alle radici del passato.