Sono storie di esodo, di migrazioni obbligate per milioni di persone che ogni anno, nel mondo decidono di lasciare la propria terra a causa di disastri naturali, per l’ingente povertà che spinge alla ricerca di prospettive migliori o destini differenti, oppure per la violenza di una guerra che mette in fuga interi gruppi di popolazioni; notizie che ogni giorno popolano le cronache del nostro occidente europeo. Tali storie, ugualmente documentate dallo sguardo lucido e visionario di uno dei più grandi maestri della fotografia contemporanea, Sebastiao Salgado, sono al centro di “ Exodus: un’umanità in cammino” attualmente esposte al Mar di Ravenna fino al prossimo giugno. Nonostante sia passato più di un decennio da quando “Exodus” è stata esposta per la prima volta, il tema resta più che mai attuale perché nuove crisi periodicamente si ripresentano_ rispetto a quelle documentate dal fotoreporter negli anni ‘90_ma i migranti e i profughi di oggi vivono esattamente nello stesso baratro tra disperazione e speranza, gli stessi momenti tragici o eroici legati al destino di ciascun individuo o di interi gruppi di popolazione. Raccontano a distanza di trent’anni la storia del nostro tempo, gli sconvolgimenti globali che accadono nel mondo attuale spinti dal crescente divario tra monopoli di ricchezza e diffuse aree di indigenza e marginalità, la crescita demografica esponenziale, infine la crisi prodotta dall’emergenza climatica in atto.
“Quasi tutto ciò che accade sulla terra è in qualche modo collegato”
afferma la curatrice Lélia Wanick Salgado, perché una crisi prodotta da una
guerra per esempio quella russo-ucraina o a un imprevisto disastro ambientale
in una parte remota del mondo influenza e ha delle ripercussioni in tutto il
resto del pianeta. “Le persone strappate
dalle loro case sono solo le vittime più visibili di un processo globale. Le
fotografie qui rappresentate “catturano momenti tragici, drammatici ed eroici
di singoli individui” e tutte insieme raccontano anche una realtà che ci
appartiene, “ la storia del nostro tempo”. Come sottolinea la curatrice: “Esse non offrono riposte ma al contrario
pongono una domanda: nel nostro cammino verso il futuro non stiamo forse
lasciando indietro gran parte del genere umano?”
La fotografia documentaria
ha portato Salgado in giro per il mondo attraverso i cinque continenti. Le
immagini suddivise in varie sezioni spaziano da una parte all’altra del pianeta
toccando temi diversi legati al nodo centrale dell’esodo. Nella prima parte si
parla di migranti e profughi di oggi contro il loro stesso volere in immagini
emblematiche del nostro tempo. La seconda sezione è dedicata alle crisi che
hanno investito il continente africano negli anni ‘90 come i profughi ritornati
in Mozambico dopo la guerra o la crisi umanitaria in Ruanda. Nella terza parte
si parla di America latina con le migrazioni di massa avvenute dalle zone
rurali a quelle urbane dando vita alle grandi metropoli del sudAmerica come
Città del Messico e San Paulo circondate da estese baraccopoli. Segue la serie
di Salgado che racconta la sovra-popolazione in Asia e la creazione di megalopoli
come Shangai, Bombay ecc segnate dalle condizioni precarie di vita della
maggioranza. Chiude la mostra una selezione di volti arrivati dai quattro
angoli del pianeta, perlopiù ritratti di bambini _ spesso le prime vittime
delle guerre, degli esodi o comunque della povertà_ ma qui posizionati al
centro dell’obbiettivo come i protagonisti indiscussi in un atto di riscatto,
inaspettato e lui epifanico.
Migranti e rifugiati: Cap
Saint Jacques
Una spiaggia deserta
immersa nel profondo chiaroscuro della foto in bianco e nero quasi a immagine
di un’umanità sopravvissuta da un immenso diluvio universale sulla terra. Una
barca solitaria è spinta a riva da pochi uomini, salvata dall’impetuosità delle
acque quasi fossero approdati in una terra promessa dopo il diluvio che ha
visto spazzare via tutte le restanti creature. Ancora è l’immagine di una
spiaggia deserta da cui sono pronti a partire centinaia di migranti verso
l’ignoto oltre la violenza del mare, al di là dell’impetuoso scrosciare delle
onde a riva a segno di un incerto, spaventoso destino.
Nella foto successiva una
bam
“Lo stretto di Gibilterra”
In una notte tempestosa una massa di fumi densi e grigiastri si alza su quel varco infernale tra cielo e terra ad avvolgere i drammi diffusi di tante morti anonime. Migliaia di tentativi di fuga affossati lì, tra quelle acque; i volti di un’umanità ferita e dispersa ancora in cerca di salvezza.
A proposito di guerra : “La strada principale di Kabul” ( 1996)
Distrutta dai
bombardamenti, disertata dai civili in tempo di guerra, il centro di Kabul
appare a distanza come un paesaggio desolato, astratto nel chiaroscuro
dell’immagine in bianco e nero e svuotato di presenze: relitto e insieme
cicatrice di uno shock violento e distruttivo. Rovine di palazzi e cumuli di
macerie si ergono lì insieme alle ombre oscure degli individui che la
attraversano restituendo l’immagine di
una città fantasma. Visione emblematica di ciò che resta nel passaggio violento
e irreversibile di tutte le guerre.
“Campo profughi
palestinese”
Sorridono questi bambini
nonostante tutto relegati dentro lo spazio ristretto e murato di un campo profughi
per rifugiati palestinesi in Siria. Esprimono la voglia, malgrado la situazione
drammatica, di libertà, leggerezza e gioco, l’incanto nello sguardo dei bambini
identico in tutto il mondo dovunque essi si trovino, liberi o reclusi, arabi o israeliani,
la loro curiosità e irriverenza verso la vita come la voglia di correre e
muoversi liberamente e senza freni. Ali di libertà disegnate su un muro del
campo profughi e versetti del Corano trascritti a caratteri arabi si stagliano
come geroglifici oscuri, magnificenti e grandiosi di un codice a loro solo
decifrabile. Accanto, la grata di una finestra dietro la quale altri bambini sono
reclusi o trattenuti dentro lo spazio ristretto e regimentato del campo.
“Una profuga kosovara in Albania”
Giace rannicchiata sullo sfondo di un
paesaggio arido e brullo dove null’altro si erge se non la linea di
demarcazione tra cielo e terra e fili spinati in primo piano lungo una barriera
che preclude l’attraversamento e la avvolge tutt’intorno. E’ avvolta da una
coperta nel freddo invernale e forse proviene da un campo profughi lì nelle
vicinanze. L’immagine emblematica racconta
un’umanità vista in uno strato di esilio permanente, obbligato e senza speranze:
condizione dei molti costretti a spostarsi in altre zone della terra inseguendo
un destino vagheggiato di agio e libertà. Un paesaggio raso al suolo da eventi
devastanti fuori dal suo controllo; l’individuo al centro come nodo
problematico e esistenziale.
Una strada è
simbolicamente aperta attraverso un paesaggio, dissecato di massi e di rocce.
Un bambino percorre quel sentiero aperto tra gli sterpi come fosse alla ricerca
di una via di d’uscita o di salvezza. Quell’alternativa immaginata o sognata
spinge la maggior parte dei migranti alla fuga verso l’ignoto,
all’attraversamento dei confini alla ricerca di orizzonti ancora possibili.
Sullo sfondo, dalla parte opposta della strada, alla stazione di Ivankovo è un treno
fermo dove un centinaio di profughi hanno trovato un alloggio di fortuna in
Croazia durante la guerra.
African Tragedy
La serie di fotografie
scattate nel continente africano negli anni ’90 documenta la crisi umanitaria
accorsa in Ruanda in seguito alle vicende tragiche di violenza e persecuzione
che hanno segnato la popolazione durante la guerra
civile. Ruandesi in cammino verso un campo profughi in Tanzania appaiono nella
foto; donne e bambini con la loro casa fatta di poche coperte e cocci essenziali
sulla testa camminano a piedi nudi mentre la strada si dispiega limpida di fronte a loro, il cielo basso e coperto
di nuvole nella semi oscurità del tramonto. La savana li scruta a distanza
sullo sfondo. Partono lasciandosi alle spalle una terra di atrocità e miseria
verso un futuro incerto e oscuro. In un’altra foto vediamo un accampamento di
profughi ruandesi in Tanzania fatto di tende per dormire di notte lungo il
cammino, pentole e le ceneri di fuochi spenti nell’oscurità.
Mozambico: un popolo in cammino
verso una nuova vita attraversa il grande ponte in prossimità del lago Malawi
per tornare in patria dopo quindici anni di esilio in Tanzania. Una donna e un
bambino avvolto in fasce sulla sua schiena si scorgono tra le fronde di una
piccola piantagione verde sopraffatta di foglie e sterpi. Cominciano una nuova
vita coltivando la terra che erano stati costretti ad abbandonare quindici anni
prima, tornati a casa alla fine della guerra.
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La sezione “America latina: esodo rurale, disordine urbano” mostra in una prima foto un villaggio Moruba nella foresta amazzonica in Brasile dove l’essere umano appare ancora in uno stato di connessione profonda con la natura ancestrale e immutata che in sé stessa esiste in un suo eterno divenire. Una giovane donna dalla genuina bellezza si bagna nelle acque di un ruscello in prossimità di una cascata mentre altri bambini e donne del villaggio si mostrano sotto una luce irradiante a contatto con gli alberi ancestrali. Le acque limpide del fiume riflettono in una visione edenica e quasi irreale di paradiso terrestre. Altrove, in altre fotografie sono le baraccopoli affollate dei migranti a San Paolo o a Città del Messico o ancora le sommosse del Movimento Brasiliano dei Senza Terra per rioccupare parte dei territori dominate dai latifondisti e indispensabili alla loro sopravvivenza.
La sezione “ Asia, il nuovo volto urbano del mondo” documenta il passaggio dalla diffusa povertà rurale alle nuove megalopoli asiatiche come Shangai, Giacarta, Bombay o Manila dove i migranti vivono in condizioni precarie spesso di sfruttamento e marginalità alle periferie degli immensi centri urbani. Vediamo una stazione enorme e sovraffollata dal traffico costante di migliaia di persone ogni giorno a Bombay, una moschea a Giacarta dove il singolo si perde nella schiera anonima e senza volto di copricapi bianchi in questa marea indefinita di esseri umani inchinati di fronte alla divinità. E, ancora, lungo il molo di Marina Drive un diseredato se ne sta disteso, avvolto da una coperta logora con alle spalle solo il volo dei gabbiani sulle acque ferme della banchina e, ancora più lontano, i grattacieli anonimi dell’immensa e scintillante megalopoli asiatica.
Portraits
Ritratti di bambini, limpidi e meravigliosi raccontano storie provenienti da tutto il mondo visti in primo piano semplicemente nella loro intrinseca autenticità e bellezza. Il fotografo ha lasciato loro la libertà di scegliere la posa o il gesto nel ritratto. Le espressioni, lo sguardo appaiono ora velati di malinconia e tristezza, ora sprigionando allegria e speranza. Dai quattro continenti questi bambini affrontano la macchina fotografica scegliendo di rendersi visibili, esposti al mondo in uno scatto fotografico e su una pellicola. Soli di fronte all’obbiettivo scelgono infine di essere visti e autodeterminarsi, loro le prime vittime dei fenomeni migratori, delle fughe obbligate o di chi la guerra rende profughi e esuli. Il fotografo rivela di ciascuno di essi una limpida verità secondo il proprio contesto e cultura, fisionomia o destino da cui sono stati segnati. Li mostra in una verità gridata senza altro parametro o giudizio che la loro intrinseca bellezza di esseri umani, unici, singolari, limpidi di fronte all’obbiettivo.