Una
moltitudine di sguardi di donne artiste si susseguono in questo racconto per immagini dagli stili
diversissimi dove dominante resta, tuttavia, il reportage sociale agli inizi
del novecento, la rivalsa femminile degli anni ‘80 e, sempre più all’inizio del
XXI secolo, le voci dell’alterità, della differenza in senso lato_ personale e
politica_ che oltre gli stereotipi femminili restituiscono spazio all’
espressione e alla libertà individuale. Le più di trecento fotografie in mostra
si pongono come indagine nuda, in presa
diretta sulla società di ieri e di oggi,
ma, anche, aprono spazi di narrazione individuale
e poetica per raccontare storie, le proprie, catturando scorci di vita intima attraverso
le immagini.
La fotografia americana degli anni ’30 (
dal reportage alla street photography)
Dorothea Lang, “ Migrant Mother” (1936)
Il
volto si staglia in primissimo piano, nitido, sobrio, profondamente segnato da
linee e solchi sulla fronte. La donna appare intensamente presente nella sua
inquietudine, lo sguardo duro, l’espressione seria e taciturna del volto mentre
stringe a sé i figlioletti avvolti alle sue spalle, un terzo visceralmente cinto
al suo corpo. Se ne sta lì statuaria, immobile in tale fermezza senza tempo
come fosse un pilastro a sostenerli, a proteggerli contro ogni evenienza o
calamità. Solo il suo volto appare al centro della foto, attorno al quale tutto
sembra volgere, gravitare per trovare lì infine un proprio ordine, nella
fermezza di quello sguardo, oltre l’ansito disperante di quel presente.
L’immagine
nasce come foto documentaria sull’indigenza e dei lavoratori agricoli in nord
America all’inizio del secolo scorso ma giunge a noi come un grido di verità
nudo e senza compromessi: lì in ogni andito del suo corpo, una madre con i
figli protesi tra le sue braccia e la miseria scritta indelebilmente sul suo
volto.
Lisette Model, “Coney Isle” ( 1939)
All’antecedente
opposto la fotografia di Lisette Model denuncia la società newyorkese
perbenista e decadente di inizio XX secolo agli albori del consumismo,
cogliendo attraverso le strade nelle istantanee fotografiche l’imperfezione
esasperata dei corpi, la loro gestualità grottesca o sguaiata, gli abiti volutamente
appariscenti.
La
donna, abnorme, distesa sulla sabbia in una saturazione di presenza esprime
l’eccesso, l’esposizione decadente di sé
in primo piano nella posa eccentrica, nella nudità fantasmagorica della
sua carne, nell’uso e l’abuso di ricchezza mostrata senza remore in primissimo
piano.
Gisèle Freund , “Brighton” (1935)
Uomini
in cilindro e torso nudo sul bagna-asciuga, altri con pantaloni di rispettabili
abiti borghesi arrotolati al ginocchio; donne sedute al sole in cappello e
costume balneare di inizio secolo . Seduti sulla spiaggia fredda e atona della
costiera atlantica britannica nei pressi di Brighton, sono sorpresi a
crogiolarsi nella mitezza dei primi soli estivi: spensierati, schivi, in parte
imbarazzati nel mostrare la propria nudità, a metà ancora nell’abitus mentale rigido della loro status
sociale. La fotografa sorprende l’agio
della classe media inglese all’ inizio del ‘900 ma anche il momento in cui
l’assoluto controllo sulla figura inizia a cedere per lasciare il posto
all’imprevisto, all’evenienza inaspettata. La crepa si disegna sul muro e
un’altra verità si lascia trapelare dietro il cedimento della superficie convenzionale borghese o nell’accordo tacito sul
suo apparire.
Anni 70-80 La nuova coscienza femminista
Una nuova forma di reportage a carattere concettuale emerge nella nuova generazione di artiste a partire dagli anni ’70 e per tutto il corso dei decenni successivi: centrali restano la ricerca di libertà e emancipazione al femminile, l’affermazione di identità e di genere per tali artiste donne in un mondo dominato da modelli patriarcali e maschilisti. Sullo sfondo è la nuova società dei consumi, la guerra in Vietnam e le rivoluzioni sociali e di costumi delle generazioni post-sessantotto.
Paola Mattioli, la donna e lo specchio,
(1977)
Guardare
il mondo, volgere il proprio sguardo al di fuori nei rivolgimenti sociali degli
anni ’70, poi all’interno verso sé
stesse per cominciare a vedersi. La superficie dell’immagine è uno specchio che
moltiplica e riflette le percezioni
dell’io femminile e le proietta verso l’esterno nelle fotografie di Paola
Mattioli. La giovane donna è allo specchio; vede il suo viso, lo analizza, ne
segue in sequenza le trasformazioni prodotte dal maquillage, poi nel mutare
delle pose. Osserva sé stessa in divenire, si scruta, si cerca, si interroga
forse alla ricerca di una conferma di sé. Si osserva come guardasse un’
estranea attraverso uno specchio, ora dietro un’inferriata, a margine
dell' inquadratura, infine in primissimo piano fino a sorprendere in quella donna
un’altra espressività, sconosciuta, più autentica, celata dietro quella usuale e apparente.
Eve Arnold, “Harlem” ( 1950)
In
questa serie incentrata sulla moda ad Harlem negli anni ‘50 è l’identità afro-americana
a emergere come il volto di un’altra America nera e minoritaria, assoggettata o
invisibile rispetto al main-stream
della cultura dominante. Nello specifico queste modelle nere segregate ad
Harlem rivelano una forma di bellezza
differente, una qualità dei volti dai tratti somatici marcati, le labbra
carnose, gli occhi grandi e oscuri capaci
di restituire dignità a un canone estetico stigmatizzato rispetto a quello occidentale.
“ Black is beautiful”, sarà lo slogan della rivalsa identitaria afro-americana negli
anni ‘60 i cui antecedenti si situano nella rinascita di Harlem degli anni ’30.
La donna colta all’uscita del locale sorprende per l’assoluta sensualità della
figura, l’eleganza dell’abito e il suo offrirsi con naturalezza all’obbiettivo,
nell’intensità di uno sguardo simile a diamante. Altri scatti rivelano oltre il cliché femminile
dell’epoca la naturalezza di gesti, volti o momenti comunitari nei backstage
delle sfilate. Ci parla di un desiderio di affermazione e visibilità per l’identità
femminile afro-americana in quella società bianca degli anni ‘30. Due profili di
volti neri appaiono qui sdoppiati, uno di spalle all’altro come si scrutassero a
uno specchio per ritrovare, nella loro complementarietà gemellare il superamento
del conflitto etnico, la loro piena accettazione di fronte allo sguardo
dominante.
Dayanita
Singh, “Myself, Moma Ahmed”, ( New Delhi, 1961)
Incaricata
di un reportage dal Times nella comunità
trans-gender indiana di New Delhi la fotografa documenta in un “romanzo visivo” tra autobiografia e finzione la vita di Moma
Ahmed e della bambina Ayesha di cui si prende cura fino alla morte nel 2001. Le
immagini danno spazio in maniera intima e commovente alla storia di Moma contribuendo
allo stesso modo a decentrare la prospettiva sulle componenti marginali,
minoritarie o stigmatizzate della società indiana. Si concentrano su un volto
che con intrinseca drammaticità esprime la profonda umanità e pathos del
personaggio raccontando la fragilità del singolo di fronte alla spietata violenza
di un sistema di repressione e controllo sulla differenza discriminante. Colgono in uno
squarcio d’anima, il suo dramma esistenziale di violenza ed esclusione,
desiderio e resistenza verso una libertaria affermazione di sé. Lasciano spazio
infine alla tenerezza di un abbraccio con gli animali
domestici e con la bambina che accompagna parte della sua vita.
Letizia battaglia, “la bambina con il
pallone”, “Palermo” (1981)
Era la Palermo delle stragi, dei morti assassinati in strada dalla mafia locale o le faide tra clan rivali al centro della sua prima fotografia; poi a partire dagli anni ‘80 iniziano a comparire la bellezza e l’intensità degli sguardi, gli scorci su adolescenti e bambine viste per strada, il loro candore quasi come antidoto alle ferite inferte su quella terra dalla criminalità dilagante e dall’omertà diffusa tra i siciliani. Occhi scuri neri e ribelli per la “ bambina con il pallone”; primi piani di volti limpidi e autentici nella serie “Palermo”. Ancora, una piccola orfana è colta a vagabondare in uno scorcio di strada con la città di periferia alle spalle simile alla scenografia teatrale di un decadente rione napoletano.
Annie Leibotitz , serie di ritratti (2016)
Sono
tredici ritratti di donne celebri che hanno avuto in diversi ambiti un impatto
significativo sulla società contemporanea. Scrittrici, artiste, blogger, sportive
e manager appaiono sullo sfondo di un set
fotografico essenziale, sulla nudità voluta di un fondale bianco per lasciar spazio
alla loro autentica risonanza, illuminarla attraverso l’immagine. L’aspetto
scenico di un volto , la natura intima di una personalità, la potenza
enigmatica di uno sguardo: tale emerge dai ritratti di Lebovitz quando tutto il
resto viene meno, in un progressivo togliere, svuotare sottrarre dall’immagine
per lasciar parlare la verità di un soggetto, il suo intimo grido. Tra le altre
immagini troviamo la bellezza assoluta ed enigmatica di Natalia Vodianova
avvolta nella sua veste lucida e scura di raso con un bambino tra le braccia
simile a una icona spirituale moderna. Ancora è la cantautrice poetessa
dall’animo poetico e il corpo ribelle Patty Smith: anfibi militari, jeans e
corpetto da cowboy, crocifisso al centro del petto e capelli al vento . Altrove,
la tennista Serena Williams si rivela nella sua fisicità mascolina e possente
esposta pienamente dalla foto; seguono Mellody Hobson dirigente industriale
lucida e acuta dallo sguardo d’acciaio e la postura sobria e impeccabile. Shirin Neshat fotografa e artista iraniana appare
nello sguardo intenso e le mani in primo piano come opere d’arte al centro del
suo lavoro di creazione: corrugate, venose, impresse dei segni del tempo per
plasmare ogni dettaglio di realtà fino a farla propria. Infine la purezza
limpida e ineguagliabile del volto di Yao Chen ci fissa in primissimo piano
con la sua aura eterea e distante, quasi surreale.
La nuova fotografia contemporanea(1980-2020)
L’immagine
fotografica si confronta con la realtà dominata dalla nuova rete di connessione
globale mentre l’introduzione dell’immagine digitale e la nuove tecnologie fotografiche cambiano completamente i
paradigmi della precedente immagine analogica. Migrazioni di pensieri, merci e
informazioni, sistemi di interconnessione globale, dell’informazione ma anche
nei trasporti influenzano certamente il lavoro di molte artiste contemporanee.
Sempre più ampio spazio è dato a fotografe provenienti da paesi
extra-occidentali quali voci emergenti, asincrone o discordanti rispetto al main-stream della cultura bianca
dominante. Ne deriva un decentramento di prospettive lasciando spazio a voci dell’alterità,a racconti individuali o
autoritratti ironici di sé come per la sud-africana Zanele Muholi ma anche a tematiche
sociali, riflessioni sui paradossi della società attuale come per la cinese Cao Fei.
Shadi Ghadirian, “Qajar 19”
L’artista iraniana ritorna in maniera ironica sull’iconografia della recente dinastia persiana per reinterpretarla in una versione originale da un punto di vista prettamente femminista.
Ritrae sé stessa in un autoritratto sulla falsa riga dello Sha di Persia e delle sue numerose mogli: diviene una di queste spose iraniane del passato di cui riappropria l’abito, la posa, perfino l’immobilità del ritratto stereotipato, immobile e quasi fuori dal tempo. Vi inserisce, tuttavia, un minimo elemento perturbante che contesta ironicamente lo statuto di quel passato. Compare una fotocamera Reflex moderna ai piedi della donna accanto al dagherrotipo del passato, quasi a significare un nuovo sguardo per la fotografa contemporanea. Forse è nell’inserzione di quell’oggetto simbolico, misterioso fonte di fascino e potere, di creazione di un nuovo linguaggio e di rottura con il vecchio modello gerarchico che si situa tacitamente tutta l’affermazione di una nuova presenza e potere al femminile.
Nanna Heitman, “Sul fiume Yenisei”, (2018)

Come
cercare nuovi orizzonti di libertà, spazi immaginativi e di vita durante la chiusura, l’isolamento
forzato del lockdown nell’inverno
2020? La fotografa ravennate immagina in questo quotidiano rarefatto e sospeso
dove nulla più accade un altro orizzonte
possibile. Un collage fotografico di
libere associazioni visive dà vita a un diario intimo e poetico che ci parla di
infanzia, di una madre e le sue figlie, della meraviglia infine di piccole cose
che ancora ci salvano. Sono frammenti di
oggetti, tazze rotte e ricomposte, una piuma, una cartina di colori, uno
specchio, una macchina da scrivere andata in fumo. Sono un’arancia rossa, un
pupazzo, una bambina, un riflesso deformante, un’ombra oscura, un vortice, un
vuoto, una marea, un’onda. Il rifrangersi chiaro della vita, un mosaico di
ricordi, frammisti tra desiderio e memoria antica.